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Il superfluo indispensabile

Cos’è necessario e cos’è superfluo? Ovvero che cos’è strettamente indispensabile e che cos’è, invece, inessenziale e voluttuario? Si tratta di un dilemma antico (...)

articolo - - - - L'Unità - Luigi Manconi - A buon diritto - Promemoria per la sinistra

[13/04/03] Cos’è necessario e cos’è superfluo? Ovvero che cos’è strettamente indispensabile e che cos’è, invece, inessenziale e voluttuario? Si tratta di un dilemma antico, che costituisce - da sempre - materia di riflessione storica, sociologica e antropologica. L’assunto di partenza è che i bisogni – anche quelli considerati “innati” e “primari” – risentono in maniera profonda delle condizioni ambientali. Variano, dunque, in rapporto ai mutamenti sociali e culturali, alle fasi storiche e alle forme di relazione, agli stili di vita e ai modelli di produzione e di consumo. Tutto ciò è verificabile e misurabile, in particolare, nelle situazioni estreme: e lo stato di reclusione e di privazione della libertà personale è una delle condizioni ultime, di confine e di crisi, dove i bisogni si manifestano nella loro ineludibile verità. Dunque, nei luoghi della segregazione, cos’è indispensabile e cos’è superfluo? Cos’è bene secondario e cos’è bene di prima necessità? Esiste tutta un’aneddotica e tutta una mitologia infra-carcerarie ed extra-carcerarie sull’esaltazione parossistica di questa o quella richiesta irrazionalmente negata (il cappotto o i libri con la copertina rigida, di cui ha scritto Adriano Sofri; l’approvvigionamento di cipolle; l’accendere o lo spegnere la luce; i gatti…). Per il detenuto e per la detenuta, bene di prima necessità è, certamente, l’immagine di sé. Si è detto di come i detenuti si preparino ai colloqui con i familiari: e di quale cura mettano nell’abbigliamento, nella pettinatura, nella pulizia delle scarpe. Nel luogo della spoliazione assoluta, della totale de-privazione e de-personalizzazione, dell’anonimato serializzato e della riduzione della persona al suo comportamento (al suo crimine), l’immagine di sè che si trasmette è bene essenziale. E’ tutela di sé e della propria personalità: della propria irriducibile singolarità. E’ quanto suggerisce una mostra fotografica bellissima (se si può parlare di bellezza a proposito di un tema che gronda tanto dolore), Altre donne. Viaggio nella carcerazione femminile. E’ una iniziativa della commissione Pari opportunità del comune di Carpi e della vicepresidente, Daniela De Pietri; le foto sono di Marco Cattaneo e Francesco Cocco, i testi di Jasmina Trifoni. In quelle foto, che ritraggono detenute di numerose carceri italiane, c’è la rappresentazione di una resistenza ostinata (e dolcissima): fatta di vestiti ricercati e di trucco accurato, di gesti e di sorrisi, di ammiccamenti e di atteggiamenti, che – tutti – sembrano segnalare una volontà di seduzione. Ossia, di relazione vera. La forma che assume, dentro, il bisogno di comunicare con gli altri, con il fuori, e di comunicare sé: la propria incoercibile (e umanissima) unicità. Cristina Comencini, in un bel testo pubblicato nel catalogo della mostra, vede in quelle donne, piuttosto, la riproduzione di una condizione infantile: una infanzia mai vissuta o alla quale si ritorna, quando si è reclusi (ovvero bloccati nel movimento, nel pensiero, forse nel crescere). Che sia la seduzione della donna, spasmodicamente tesa al rapporto con l’altro, o il gioco della bimba che vuole vivere la sua età (mai conosciuta o perduta), in ogni caso, scorgiamo - in quelle foto, in quei volti, in quei corpi - il senso di una perdita irreparabile. E, invece, è interesse – in primo luogo della società – che una riparazione (una qualche riparazione) sia sempre possibile. Per tutti.


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