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Tra il dire e il fare, in questo caso, c’è di mezzo un decennio tondo tondo. E’ stato, infatti, oltre dieci anni fa che si è iniziato a discutere di quella figura di “consigliere aggiunto” in rappresentanza degli stranieri, che giusto ieri è stata definitivamente approvata dal consiglio comunale di Roma.

articolo - - - - L'Unità - Luigi Manconi - Carcere

[16/10/03] Tra il dire e il fare, in questo caso, c’è di mezzo un decennio tondo tondo. E’ stato, infatti, oltre dieci anni fa che si è iniziato a discutere di quella figura di “consigliere aggiunto” in rappresentanza degli stranieri, che giusto ieri è stata definitivamente approvata dal consiglio comunale di Roma. La delibera, di cui è primo firmatario Silvio Di Francia, regolamenta l’elezione di quattro consiglieri da parte dei circa duecentocinquantamila non comunitari residenti a Roma: e, così, questa nuova figura – già attiva in alcune città piccole e medie – assume, inevitabilmente, rilievo nazionale. E costituisce il primo passo – certo parziale, ma simbolicamente assai importante - verso una idea e una pratica della cittadinanza che superi l'antico "diritto del sangue" (sono cittadini solo i membri della comunità nazionale) e definisca l'appartenenza a un sistema sociale, e i diritti e i doveri conseguenti, in base alla presenza attiva sul territorio: per motivi di studio o di lavoro; per libera scelta (conoscere il mondo, avere nuove opportunità) o per coercizione (fuggire da una carestia, evadere da un regime dispotico). Che cosa unisce, infatti, un lavoratore senegalese, dipendente di una impresa edile, un manager dell'Illinois, dirigente di una multinazionale di computer, e una baby sitter di Lima, diplomata in scienza dell’educazione, arrivata in Italia nel 1995? A collegare queste tre persone è il fatto che si tratti di "extracomunitari", che vivono nelle nostre città, partecipano del benessere (e del malessere) collettivo, versano contributi e imposte. Tutti loro pagano la tassa sulla nettezza urbana: solo che, tutti loro, non possono contribuire a scegliere chi deciderà la politica pubblica in materia di raccolta della medesima nettezza urbana. Questo, finora. D’ora in avanti, a Roma, le cose inizieranno a cambiare. Lentamente, forse troppo lentamente, perché i mutamenti profondi – correlati all’elettorato attivo e passivo nel voto amministrativo - richiedono una legge nazionale, che attualmente non c’è. Il prossimo quindici febbraio, in ogni caso, tutti gli stranieri regolarmente residenti a Roma verranno chiamati al voto, al fine di eleggere quattro rappresentanti di diverse etnie (e, tra essi, almeno una donna) per il consiglio comunale e uno per ogni municipio. Come prevede la delibera approvata, “i consiglieri aggiunti hanno titolo a partecipare - senza diritto di voto - alle sedute del Consiglio comunale con diritto di parola sugli argomenti iscritti all'ordine del giorno”; a prender parte ai lavori delle commissioni consiliari permanenti; a presentare interrogazioni e interpellanze. Non c’è alcun dubbio: i "nuovi cittadini" saranno tali solo se, e solo quando, potranno godere di diritti esigibili. E, in primo luogo, di diritti civili e politici. Da questo, ancora, siamo lontani: e, tuttavia, il voto di ieri è un primo e cruciale passo avanti. Chi - come Gianfranco Fini e componenti significative del centrodestra – si è recentemente espresso a favore del voto amministrativo per gli stranieri, dovrà tener conto di questo precedente. Che, già ora, può avere due importanti conseguenze: l'inserimento (ancorché parziale) degli stranieri nel sistema dei rapporti politici – per il fatto di attribuire loro visibilità pubblica e rappresentanza istituzionale - potrà ridurre la diffidenza, quando non l'ostilità, di una parte della popolazione locale; e potrà meglio sostenere la richiesta di adeguate politiche sociali (per la casa, la sanità, l'istruzione) a favore degli strati più deboli della collettività straniera. Da oggi - ritengo - un po’ meno deboli.


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