Partito democratico
articolo - italia - - - Il Foglio - Luigi Manconi - Sinistra
[25/04/03] Mi presento: sono – secondo la classificazione di Michele Salvati – un “riformista radicale” (forse radicalissimo); e, tuttavia, non mi sento più vicino a chi ritiene “errori veniali” le esecuzioni capitali a Cuba di quanto sia prossimo alle posizioni di esponenti di Ds e Margherita in tema di garanzie nel processo penale.
Premetto che sono arrivato, attraverso un percorso non certo lineare, a condividere – infine – la proposta di “partito democratico”. Non discuto, pertanto, l’obiettivo da perseguire, ma mi lascia perplesso l’itinerario indicato: esso rimanda alla distinzione tra “riformisti moderati” e “riformisti radicali” e alla loro difficile, e talvolta dirompente, convivenza all’interno dell’unico “contenitore Ds”. Meglio sarebbe – sostiene Salvati - che quella convivenza si sciogliesse: “i riformisti radicali” confluiscono in un soggetto politico “sotto la direzione di Cofferati” e “i riformisti moderati confluiscono con Margherita in un nuovo partito di centrosinistra”.
Letto con attenzione tutto questo, la prima domanda che mi sono posto è stata: e io? Dove vado io? Dove mi metto?
Non avendo trovato risposta, sono indotto a chiedere: e se fosse sbagliata la “linea di confine” tracciata? Ovvero proprio quella distinzione tra “moderati” e “radicali”? Salvati è ben consapevole della povertà dei termini che è costretto a usare, ma l’inadeguatezza linguistica è il problema minore. C’è, ahinoi, anche una questione di contenuti e di programmi, che non è eludibile e che non consente classificazioni rigide e, soprattutto, tradizionali. Ancora una volta parlo “per fatto personale”: e dico, sommessamente e senza iattanza, che su alcune questioni – diritti individuali, libertà civili, autonomia della persona, ma anche garanzie sociali e “giuslavoristiche” e, poi, carcere, immigrazione, sostanze stupefacenti - le mie posizioni risultano, probabilmente, più “radicali” di quelle di gran parte dei gruppi collocati (toponomasticamente e ideologicamente) all’estrema sinistra. E allora? Devo convivere, obbligatoriamente, con questi ultimi e beccarmi – che so? – le posizioni del Pdc’I sulla politica giudiziaria del regime cubano o il rifiuto di qualunque forma di “ingerenza umanitaria” nei confronti di genocidi e stragi o, per restare nel nostro angusto cortiletto, l’esaltazione dello “spirito di scissione” e la vocazione anti-unitaria e secessionista? Devo accollarmi tutto ciò per non stare con i “moderati”? Tanto più quando so che, all’interno di Ds e Margherita, non pochi hanno le mie stesse posizioni sui temi prima ricordati (e il moderatissimo Salvati ne sottoscrive una buona parte).
E’ assolutamente vero che ogni contenitore politico “contiene” – appunto – “posizioni individuali e di gruppo diverse: lo stare insieme è sempre frutto di un giudizio politico, mai di una completa identità di vedute”. Ma proprio questo non consente di affrontare le molte “diversità” col semplice (seppure sacrosanto) ricorso “al voto secondo libertà di coscienza”.
Ci vogliono “mediazioni alte”, a partire dalla consapevolezza che “è sulle questioni di politica internazionale e sulle politiche economiche e sociali che si stabiliscono le discriminanti serie” (ancora Salvati). Io ritengo che siano “serie”, serissime, e dirimenti anche le questioni sociali e civili, di diritto e di libertà, di garanzie e di autonomia individuale, che prima richiamavo: e i temi indicati da Salvati e quelli suggeriti da me, se combinati e intrecciati, per un verso consentirebbero “lo stare insieme” di differenti posizioni, che pure – secondo categorie convenzionali – non sembrano compatibili; per altro verso, quegli stessi temi produrrebbero divisioni secondo linee non riducibili, in alcun modo, alla distinzione tra “moderati” e “radicali”.
Ne consegue che nulla deve cambiare? Assolutamente no: innanzitutto perché peggio di così si muore. E, poi, perché ritengo quella del partito democratico una scelta più efficace e produttiva (e “unitaria”) dell’attuale frammentazione-competizione. Ma ritengo anche che la formazione di quel partito debba avvenire intorno a due condizioni e che, in base a queste, si debba decidere dove collocarsi: 1. la scelta “riformista”, secondo l’accezione di Salvati (in estrema sintesi: essere parte organica e leale del centrosinistra; voler concorrere al governo del paese; rivolgersi all’elettorato di sinistra, ma anche a quello “mediano”); 2. la condivisione di un programma comune. A quel punto, saprei benissimo dove mettermi.
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