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La "doppia lealtà" dei musulmani
È forse possibile dire, parafrasando Charles Dickens: era il peggiore dei tempi, era il migliore dei tempi. Il momento in cui si consuma la più crudele lacerazione tra occidente e Islam è davvero, forse, «il migliore dei tempi» per tentare una ricucitura.
articolo - italia - - - A Buon Diritto - Luigi Manconi - Guerra e Pace
[23/04/03] È forse possibile dire, parafrasando Charles Dickens: era il peggiore dei tempi, era il migliore dei tempi. Il momento in cui si consuma la più crudele lacerazione tra occidente e Islam è davvero, forse, «il migliore dei tempi» per tentare una ricucitura. E per operare affinché - nella migliore e più ardua delle ipotesi – quella ferita inizi, lentamente, a rimarginarsi. Non so lì, in Afghanistan e in Iraq. So qualcosa di più, qui da noi, in Italia.
Nel nostro paese vivono circa 800mila musulmani. Una piccola parte (30/40mila) è costituita da cittadini italiani convertiti all´Islam o da stranieri naturalizzati; la grande maggioranza è composta da stranieri regolarmente presenti in Italia; una quota assai minore da irregolari. Come ha reagito questa componente della nostra popolazione all´esplosione di un conflitto armato, che vedeva coinvolto – sia pure indirettamente – il paese ospitante?
Ha reagito, io credo, in maniera esemplarmente equilibrata: ed esemplarmente contraddittoria. Una parte dei musulmani – come i loro vicini di casa italiani – ha messo la bandiera arcobaleno alla finestra, ha partecipato ai cortei, ha criticato Saddam (magari un po´ meno di quanto hanno fatto i loro vicini di casa) e ha insultato Bush (magari un po´ più di quanto hanno fatto i loro vicini di casa). La stragrande maggioranza non ha pensato di recarsi in Iraq per farsi "martire": sia perché quello di Saddam è "un regime ateo", sia perché per i musulmani d´Italia - secondo l´imam Anwar Gilani, e molti altri – «la jihad è l´invocazione ad Allah perché fermi questo massacro contro l´umanità». Questa versione "pacifista" e "occidentale" del precetto coranico è la conferma di quella contraddizione di cui si diceva: aspra, ma capace di un suo equilibrio e di una sua faticosa mediazione. Si dirà (qualcuno lo dice e qualcuno arriva a urlarlo) che i musulmani d´Italia si comportano così per calcolo e per un´accorta strategia di infiltrazione e dissimulazione. Si tratta, piuttosto, di ciò che la psicanalisi chiama scissione e che, riconoscibile nella sfera individuale, è applicabile anche all´indagine dei comportamenti sociali. Scissione che può riguardare chiunque di noi sia sottoposto a una doppia pressione - accade assai spesso - e sia interpellato da due diverse e altrettanto forti autorità; nel caso dei musulmani d´Italia, la scissione rimanda a una identità dimidiata, dove convivono conflittualmente l´appartenenza a una tradizione, a una cultura, a una religione e, allo stesso tempo, la pressione-attrazione di un diverso sistema di valori e la "tentazione dell´integrazione". Ovvero la tendenza ad assumere, del paese ospitante, vantaggi e opportunità, diritti e chances: il che – al di là delle intenzioni soggettive – significa (e impone) anche l´adozione di regole e doveri, limiti e compatibilità.
Questo avviene – alla lettera – giocoforza: l´integrazione di cui parliamo è parte, infatti, di quel gioco democratico, duro e impervio, che si dipana nel corso dello scambio ininterrotto tra i cittadini e tra i cittadini e le istituzioni: e che costituisce la struttura di base del legame sociale. In altre parole, ciò che tiene insieme gli individui associati. La valutazione razionale delle opportunità e dei rischi, dei vantaggi e dei vincoli è il fondamento stesso delle strategie degli individui per adattarsi agli obblighi sociali e per ridurre i costi che comportano. Per coloro che provengono da altri legami e da altre organizzazioni sociali (oltre che da altri paesi), ciò corrisponde a una fitta trama di procedure di apprendimento. «Apprendimento dell´Italia» e – se vogliamo – «apprendimento della democrazia», con quanto comporta sul piano del riconoscimento dei diritti-doveri e su quello del rispetto delle prerogative universali della persona.
Va da sé che tutto ciò non deve indurre a sottovalutare quanto quei percorsi di apprendimento e di integrazione siano lenti e contraddittori; e come quella "doppia lealtà" (all´Islam e alla democrazia) produca – come tutte le doppie lealtà – lacerazioni e ambiguità. E va da sé, ancora, che il ragionamento fin qui svolto – applicabile alla grande maggioranza dei musulmani d´Italia – non esclude la presenza di gruppi che, del sistema democratico e delle garanzie che offre, intendono fare una base di organizzazione e di reclutamento per attività terroristiche. Nei loro confronti devono essere utilizzati – è ovvio - gli strumenti della repressione. Ma per tutti gli altri deve valere quanto prima accennato. Dopo l´11 settembre e dopo la guerra in Iraq, la "questione islamica" in Occidente richiede più, e non meno, intelligenza e coraggio. Dunque, la strategia più equa, ma anche la più produttiva, è quella del riconoscimento. Fino a quando i musulmani saranno – o, comunque, ci sembreranno – una moltitudine di ombre, inconoscibili e indistinguibili, senza nomi e senza biografie, senza storia e senza soggettività, senza proprie voci e propri organismi, la relazione con essi sarà segnata dalla diffidenza, se non dall´ostilità. "Identificarli" non può essere solo una pratica poliziesca; deve significare riconoscere la loro identità: e offrire mezzi e canali perché possa esprimersi e darsi sedi pubbliche e rappresentanze democratiche. All´interno di tale strategia, è possibile arrivare alla firma di un´intesa tra lo Stato italiano e le comunità islamiche (analogamente a quanto si sta facendo o si progetta di fare in Francia, Inghilterra, Spagna). I tempi saranno lunghi, ma è necessario muoversi sin da ora. Ne deriva, tra l´altro, l´importanza dell´approvazione della legge generale sulla libertà religiosa, bloccata alla Camera dei deputati dall´ostruzionismo della Lega e dall´opportunismo di tanti. E´ un grave errore. Includere i musulmani all´interno di un sistema di rapporti e di vincoli, di doveri e di diritti, può rappresentare una preziosa risorsa di "pacificazione". Non so, in Afghanistan e in Iraq. Certamente, qui da noi.
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