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L’amore (negato) ai tempi della Bossi-Fini

Prendiamo due storie diverse. Quella di Korima, togolese, in Italia dal 2002. Poco più di trent'anni e una vita segnata da persecuzioni politiche, torture, minacce, familiari uccisi. Sul corpo le cicatrici di un colpo alla schiena che gli ha perforato la clavicola, e i segni delle percosse, delle frustate, delle ingiurie: una sorta di mappa del terrore scatenato per oltre trent'anni, in Togo, dal regime di Gnassingbé Eyadéma. Poi, un giorno, 5.000 euro di carte false, documenti contraffatti e fughe rocambolesche gli valgono un aereo per Bologna: da dove comincia un persorso incerto e faticoso per ottenere lo status di rifugiato, in un paese, il nostro, dove la legislazione sull'asilo politico è ancora parziale e opaca. Oggi Karima è impegnato in un braccio di ferro estenuante con la burocrazia italiana e con i codicilli della Bossi-Fini. Perchè sua moglie, Nadine vive ancora nel suo paese, sotto minaccia di morte e il loro ricongiungimento è ostacolato da mille cavilli grotteschi e la sua vita rimane appesa ai fili aggrovigliati di una matassa di carte bollate, timbri, certificati assai difficile da dipanare. (...)

articolo - italia - - - L'Unità - Andrea Boraschi, Luigi Manconi - A buon diritto - Promemoria per la sinistra

[09/11/05] Prendiamo due storie diverse. Quella di Korima, togolese, in Italia dal 2002. Poco più di trent'anni e una vita segnata da persecuzioni politiche, torture, minacce, familiari uccisi. Sul corpo le cicatrici di un colpo alla schiena che gli ha perforato la clavicola, e i segni delle percosse, delle frustate, delle ingiurie: una sorta di mappa del terrore scatenato per oltre trent'anni, in Togo, dal regime di Gnassingbé Eyadéma. Poi, un giorno, 5.000 euro di carte false, documenti contraffatti e fughe rocambolesche gli valgono un aereo per Bologna: da dove comincia un persorso incerto e faticoso per ottenere lo status di rifugiato, in un paese, il nostro, dove la legislazione sull'asilo politico è ancora parziale e opaca. Oggi Karima è impegnato in un braccio di ferro estenuante con la burocrazia italiana e con i codicilli della Bossi-Fini. Perchè sua moglie, Nadine vive ancora nel suo paese, sotto minaccia di morte e il loro ricongiungimento è ostacolato da mille cavilli grotteschi e la sua vita rimane appesa ai fili aggrovigliati di una matassa di carte bollate, timbri, certificati assai difficile da dipanare. Prendiamo poi la storia di Bouchra Ben Ramadan. Marocchina, figlia di una famiglia laica e liberale, nel 1989 è venuta in Italia con suo marito Hakim. Nel nostro paese ha vissuto per anni in schiavitù, segregata in casa, minacciata e maltrattata da quell'uomo, in nome di un Islam gretto e sciovinista, feudale e oscurantista come mai nel suo paese d'origine aveva conosciuto. La sua storia è lunga e cupa: nel 1997 le sono stati sottratti i figli, Youssef e Zohra, nascosti per sette anni in un villaggio sui monti dell'Atlantide. Ci sono voluti sette anni per raggiungerli, liberarli e tornare in Italia: perchè qui Bouchra ha vissuto il suo dramma, ma qui ha anche trovato protezione dalla violenza familiare, assistenza e leggi che la possono proteggere. Qui vuole vivere e crescere i suoi bambini. Sono due storie d'immigrazione, queste, assai distanti tra loro. La prima la leggiamo nel libro di Cristina Artoni, «L'amore ai tempi della Bossi-Fini», la seconda in quello di Cristina Giudici, «L'Italia di Allah», entrambi editi dalla Bruno Mondadori e in libreria da pochi giorni. Sono storie assai diverse perchè le due opere sono distanti, per impianto, stile e ispirazione. La Artoni, attraverso la storia di Korima e di molti altri, racconta quanto sia difficile vivere in Italia da immigrati; e, ancor più, quanto lo sia dopo l'approvazione di una legge che riduce l'immigrazione a mera forza lavoro e a puro fattore di mercato; la Giudici, per contro, ci ricorda che in Italia, parallele alle nostre, scorrono le vite di immigrati che talvolta riproducono - in perfetto isolamento dal nostro sistema di regole, diritti e garanzie - i tratti più oscuri della loro cultura d'origine, perpetuando stili di vita in aperto conflitto con i principi che presiedono alla nostra vita associata. Ci ricorda come l'integrazione non sia un percorso lineare e come, a fronte di esperienze positive e di conflitti identitari che trovano soluzioni razionali, si riproducano sacche di «isolazionismo» e di identità sclerotizzate, chiuse in dimensioni «comunitarie», talvolta inaccessibili e spesso ostili. La lettura congiunta dei due libri (da un lato la preoccupazione di offrire agli immigrati un'esistenza che sia fatta di diritti e non solo di ostacoli, dall'altro l'analisi dei conflitti culturali e identitari che l'immigrazione irrimediabilmente suscita) ci riporta all'interrogativo di sempre: come governare quei flussi? Chi propende per soluzioni di chiusura a oltranza delle nostre frontiere coltiva (più o meno consapevolmente) una mera utopia; oscilla tra posizioni xenofobe e messaggi populisti, alimentati dal timore dell'«altro», dalla paura di smarrire cultura, coesione sociale, sicurezza; alterna il richiamo a concezioni gerarchico-razziali con la (auto)denuncia, involontaria e parassosistica, di un'identità fragile e incerta, che si percepisce minacciata dal contatto con altre culture. Non risultano estranee a questo milieu quelle retoriche interessate che, interpretando la migrazione come mero sradicamento, proclamano un volenteroso «aiutiamoli a rimanere a casa loro» (risparmiamogli il dramma dell'addio alla loro storia, alla loro cultura, ai loro affetti): e si dimentica, così, che non si emigra solo per fame, ma anche per fuggire conflitti etnici, religiosi, politici. Conflitti che, fatalmente, non possono essere risolti in breve tempo e per i quali gli aiuti umanitari, per lo più, non si dimostrano risolutivi. Il paradigma «assimilazionista», invece, trae ispirazione, principalmente, da una preoccupazione di difesa della propria civiltà. «Assimilare», in questa cornice, vuol dire chiedere agli immigrati, in cambio del diritto a beneficiare di una qualche integrazione, di rinunciare a una porzione consistente della propria identità per aderire alle regole (e non di rado all'ethos) della civiltà occidentale. Nella più regressiva delle sue versioni, questo approccio traduce le sfide dell'immigrazione in una questione di reciproche utilità di ordine economico-materiale, promuovendo un governo del fenomeno migratorio regolato esclusivamente da quote e compatibilità produttive; nel migliore dei casi accetta l'accoglienza degli immigrati in nome di sentimenti umanitari, ma adotta, quale criterio di promozione o respingimento, la loro «occidentalizzazione». In questo caso, l'identità dell'immigrato si trasforma, con una mutilazione dei suoi aspetti meno secolarizzati, in «cittadinanza» nel più blando senso giuridico-territoriale, riducendosi a pura fruizione di diritti formali. Incapace di ricevere e comprendere comportamenti «altri», la società «assimilazionista» si limita a contenerli, reprimerli o bandirli. Operazione legittima, questa, fin quando si facciano rispettare leggi non invasive della sfera individuale e non intrusive rispetto alla dimensione culturale, religiosa, esistenziale di chi emigra; assai criticabile quando una non meglio precisata «coscienza laica» impone il divieto di indossare il velo (che pure lascia scoperto il volto) alle donne musulmane. Il cosiddetto multiculturalismo, infine, sostiene un'interpretazione «identitaria» che può risultare positiva: quando, nel rispetto delle rispettive specificità e nel tentativo di contenere forme disgreganti di disagio sociale, promuove il dialogo interculturale in una cornice minima e condivisa di regole; ma può determinare un'impostazione ben più discutibile che (magari inerzialmente) finisce col legittimare la coesistenza di mondi chiusi, di comunità nazionali coesistenti in un medesimo corpo sociale, ma non comunicanti. Nicchie. Nella sua prima versione, il multiculturalismo si traduce in un approccio pragmatico al governo dell'immigrazione, garantendo convivenza e prevenendo la formazione di nuove fratture sociali, alimentando uno scambio e una dinamica che non soffrono dell'ingenuità di certa retorica del meticciato (quella per cui, sempre, «le differenze ci arricchiscono»). Le differenze possono arricchire e possono creare conflitto: e possono aprire nuove faglie di divisione e indifferenza. Sta alla politica prevenirle: lavorando per un confronto permanente con gli immigrati, e non solamente con quanti tra loro si dimostrino più «moderati». Moderatismo e radicalismo, nel mondo islamico - e, più in generale, tensione all'integrazione e difesa identitaria - non sono un apriori o una variabile indipendente; rispecchiano anche - anche - il sentimento di chi si percepisce coinvolto, in qualche modo, in un conflitto sciagurato, apertosi tra una parte dell'islam e una parte del mondo occidentale. Forse in questo quadro, tenendo bene a mente tali questioni, le storie di Korima e Bouchra possono non apparire più così distanti.. abuondiritto@abuondiritto.it


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