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Chi ha paura dell’omeopatia: ossia, una disputa tra scienza e pregiudizi

La ricerca pubblicata sull'ultimo numero di Lancet presenta dati che, in prima battuta, appaiono incontrovertibili; la scrupolosa metanalisi condotta da Matthias Egger sembra emettere un verdetto definitivo sull'omeopatia: quel complesso di metodiche terapeutiche equivarrebbe, in termini di valutazione dell'efficacia, a null'altro che all'effetto-placebo. Insomma, invece di assumere un qualsiasi farmaco, a detta di Egger e del suo gruppo, si può bere un po’ d'acqua e zucchero; e se interviene la suggestione del «sapersi curati», se lo si fa con la convinzione di aver assunto una sosta nza di una qualche «capacità medica», la sinergia tra mente e corpo può essere in grado di attivare risorse autoimmunitarie sufficienti a curare un numero significativo di patologie.

articolo - mondo - - - L'Unità - Andrea Boraschi, Luigi Manconi - A buon diritto - Promemoria per la sinistra

[06/09/05] La ricerca pubblicata sull'ultimo numero di Lancet presenta dati che, in prima battuta, appaiono incontrovertibili; la scrupolosa metanalisi condotta da Matthias Egger sembra emettere un verdetto definitivo sull'omeopatia: quel complesso di metodiche terapeutiche equivarrebbe, in termini di valutazione dell'efficacia, a null'altro che all'effetto-placebo. Insomma, invece di assumere un qualsiasi farmaco, a detta di Egger e del suo gruppo, si può bere un po’ d'acqua e zucchero; e se interviene la suggestione del «sapersi curati», se lo si fa con la convinzione di aver assunto una sosta nza di una qualche «capacità medica», la sinergia tra mente e corpo può essere in grado di attivare risorse autoimmunitarie sufficienti a curare un numero significativo di patologie. L'eco che la pubblicazione ha avuto sui mass media e la perentorietà dei toni e degli argomenti utilizzati rischia di far calare, sull’omeopatia, il sipario finale; per contro, non è da escludere che la virulenza delle critiche mosse contro questa pratica medica rianimi la discussione e la solleciti a scambi più pacati e aperti. Staremo a vedere. Nel frattempo, potrebbe essere utile tentare una qualche disamina delle ricerche sin qui prodotte: si constaterebbe abbastanza agevolmente come, al contrario di quanto è stato scritto in questi giorni, non mancano studi di segno esattamente opposto a quello offerto da Egger. E, si badi, si tratta di studi che, per titoli e autorevolezza degli autori e delle pubblicazioni che li ospitano e delle metodologie impiegate, non dovrebbero essere liquidati con troppa facilità. Da quello del 1991 di Kleijnen sul British Medical Journal, a quello del 2001, pubblicato sul Pediatric Infectious Disease da tre ricercatori statunitensi, dove si dimostrava (con il metodo detto «doppio cieco» e con il confronto con il placebo) la superiore efficacia clinica delle terapie omeopatiche rispetto a quelle convenzionali nella cura di alcune infezioni pediatriche (e dell'otite, in particolare); da quello di poche settimane fa (Complementary Therapy in Medicine, giugno 2005) di un gruppo di scienziati dell'università di Berlino, anch'esso di carattere comparativo, effettuato su un campione di 315 pazienti adulti e di 178 bambini, dove i risultati ottenuti con l'omeopatia risultano largamente superiori a quelli ottenuti con cure allopatiche: fino alla ricerca di Klaus Linds, pubblicata proprio su Lancet nel 1997, dove si adotta un approccio molto simile a quello di Egger e collaboratori. Quella metanalisi prendeva in considerazione 89 studi di buona qualità, «randomizzati» o in «doppio cieco», sulle condizioni cliniche più disparate (dalle verruche all'ictus) e così concludeva: «L'omeopatia è risultata quasi due volte e mezzo più efficace del placebo»; e ancora: «I dati della nostra metanalisi non sono compatibili con l'ipotesi che i risultati clinici dell'omeopatia siano dovuti esclusivamente a un effetto-placebo». Non è questa, comunque, la sede in cui si possano mettere a confronto strumenti impiegati e risultati ottenuti dalle varie ricerche che hanno indagato l'efficacia terapeutica delle cure omeopatiche. Non abbiamo alcun titolo a esprimerci in proposito; ci limitiamo a ricordare che i risultati sin qui ottenuti non forniscono indicazioni unanimi e risultati univoci. E, tuttavia, vorremmo evidenziare un punto: siamo certi che - sotto il profilo epistemologico e scientifico - sia sensato «misurare» i risultati delle pratiche omeopatiche con gli strumenti di verifica convenzionalmente impiegati per la medicina tradizionale? In altre parole, utilizzando quei test e quei parametri di «misurazione», di controllo e di verifica, che appartengono a uno specifico paradigma, per analizzare una metodologia fondata su un paradigma radicalmente «altro», non si finisce per ricorrere a una strumentazione del tutto inadeguata? Crediamo sia assolutamente legittimo (meglio: doveroso) sottoporre a costante verifica qualsiasi prodotto impiegato con finalità mediche: e, tuttavia, gli studi che, finora, hanno fornito risposte scoraggianti riguardo all'efficacia dell'omeopatia, sono stati condotti certamente con il massimo rigore, ma - sempre - da ricercatori che misurano quell'efficacia sulla base e in funzione di criteri allopatici. E quei criteri, in larga parte, nulla hanno a che fare con le pratiche dell'omeopatia. Entrambe le medicine hanno come fine ultimo la salute del paziente: ma il concetto stesso di salute, come quello di malattia e di guarigione, come quello di terapia, differiscono profondamente. I sostenitori del paradigma omeopatico avanzano forti perplessità rispetto alla possibilità di sottoporre una terapia fortemente individualizzata come l'omeopatia (in cui il trattamento viene selezionato sulla base delle modalità specifiche con cui ciascun disturbo si manifesta in ogni singolo paziente) a una verifica effettuata con criteri «generalizzanti». Aggiungiamo: una analisi tarata su parametri allopatici non è in grado di prendere in esame l'intero processo terapeutico dell'omeopatia, che è fondato - in primo luogo - sulla relazione tra terapeuta e paziente e su una concezione «olistica» del paziente stesso: ed è, dunque, ben più ampio e complesso della fase medicale così come conosciuta e codificata nella medicina convenzionale. Più che perpetuare un batti e ribatti di sentenze tutte «ultime» e tutte «definitive» (e. insieme, tutte contestabili), si potrebbe cominciare da qui: da questi dubbi che sono a monte di ogni verifica. Ovvero, possono convivere, in campo medico, più paradigmi, senza che alcuno divenga totalizzante? Non sarebbe meglio verificare l'efficacia di ogni diverso approccio, accettando i suoi presupposti medici, le sue finalità, i suoi strumenti: ed elaborando strumenti di verifica e controllo «interni»? Insomma, siamo proprio, ma proprio sicuri che il «metodo scientifico» sia uno e uno solo? Universale e assoluto? E che questa sia - sotto il profilo epistemologico e scientifico - una verità inconfutabile e «non falsificabile»? La scienza, quando si rifiuta di accettare pregiudizialmente l'esistenza di strumenti conoscitivi e applicativi alternativi ai propri, diventa fatalmente scientismo: una miopia della ragione che fatica a riconoscere i propri limiti e che nega ogni realtà che non possa essere spiegata da essa stessa. L'efficacia delle medicine non convenzionali è per milioni di essere umani una realtà tangibile e concreta. Finora la medicina convenzionale ci ha solo detto che quei milioni di individui sono preda di una suggestione collettiva. È un po' poco. Dal punto di vista scientifico, s'intende.


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