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Lo strano "caso" di Francesco Romeo

La “scena del crimine” è questa: un ragazzone di 28 anni, alto un metro e ottantacinque, pesante oltre cento chili, che giace al suolo gravemente ferito, in un cortile, accanto a un muro alto quattro metri. Ha perso conoscenza, è sporco di sangue e sta per esalare il suo ultimo respiro. Ma perchè si trova lì? E perché versa in quelle condizioni

articolo - italia - - - L'Unità - Andrea Boraschi, Luigi Manconi - A buon diritto - Promemoria per la sinistra

[26/07/05] La “scena del crimine” è questa: un ragazzone di 28 anni, alto un metro e ottantacinque, pesante oltre cento chili, che giace al suolo gravemente ferito, in un cortile, accanto a un muro alto quattro metri. Ha perso conoscenza, è sporco di sangue e sta per esalare il suo ultimo respiro. Ma perchè si trova lì? E perché versa in quelle condizioni? Come nel più dozzinale dei gialli, si parte dalle risposte più elementari e dagli indizi più evidenti. Quel ragazzone, Francesco Romeo, è un detenuto; e se è riuscito a raggiungere quel cortile vuol dire che è evaso dalla sua cella; e se adesso giace al suolo in fin di vita è perché davanti a lui c’è un muro: bisogna scavalcarlo, quel muro, se si vuole andare via. Dunque, Romeo deve aver perso l’equilibrio, dev’essere rovinato a terra, con quel suo corpo pesante e impacciato, e ora giace lì. Morirà qualche giorno dopo, in un ospedale, senza riprendere più conoscenza. Ma anche nel più dozzinale dei gialli, la facilità delle prime risposte e l’evidenza suggerita dal contesto e dalla circostanze possono rivelarsi ingannevoli. E non c’è bisogno di Hercule Poirot o di Jane Marple, di Lincoln Rhyme o di Harry Bosch per svelare la fallacia delle ricostruzioni di comodo. Basta una semplice perizia medico legale. Nessun detenuto che cada da un muro di cinta riesce a massacrarsi i testicoli nell’impatto col suolo e a procurarsi traumi tanto estesi su tutto il corpo; nessuna caduta può causare le lesioni craniche (“da corpo contundente”) e le lesioni cervicali, per cui Romeo è morto. Lividi ed ecchimosi ovunque, ematomi e lesioni varie allo scroto e al coccige, le braccia spezzate (forse mentre “si proteggeva il volto”): la perizia medico legale ipotizza che quel giovane è stato oggetto di violenze a opera di cinque o sei persone e per un periodo non breve. E perché ora si trova in quel cortile, anziché nella sua cella? Semplice: perché chi l’ha colpito, l’ha trasportato fin lì. E ha inscenato la rappresentazione della sua evasione. Ma chi, in un carcere, può aprirsi la strada per l’uscita, superando quattro cancelli, per trascinare quel corpo fino a quel cortile? Qualcuno che ha le chiavi, si direbbe; qualcuno che può muoversi liberamente all’interno e che può agire in gruppo contro un individuo isolato e che può allestire quella falsa scena del delitto. Dalle 9 alle 10 del 29 settembre 1997, nel carcere di Reggio Calabria, nessuno si accorge di nulla. Non viene azionato alcun allarme, le 19 telecamere sono spente e chi dovrebbe essere di guardia è “al bagno”, “al bar” (che, però, aprirà un’ora più tardi) o si è spostato per cambiare servizio per “asseriti ordini superiori”. E, quella stessa mattina, cinque uomini vengono trasferiti dai loro posti di sorveglianza per sostituire un solo agente in malattia, mentre le mansioni vengono modificate in corso d’opera, alle 9, quando la conferenza di servizio si era tenuta appena un’ora prima. Non solo: al quarto cancello e sulla garitta è di guardia un solo agente, e chi è preposto a sorvegliare i monitor della sala regia nulla vede e nulla sente. Strano, non trovate? Se oggi parliamo di una storia tanto lontana nel tempo è perché “stranezze” del genere, nella carceri italiane, si ripetono periodicamente e perché la vicenda processuale, cominciata allora, ha trovato soluzione. Una soluzione assai meschina. Ce ne offre un’attenta ricostruzione l’avvocato dei familiari di Romeo, Ugo Giannangeli. Nel 2003 furono condannati Giuliano Cardamone, comandante della polizia penitanziaria, e Sebastiano Morabito, agente: il primo per “agevolazione colposa” nell’omicidio di Romeo (la sentenza riconosceva, cioè, che l’imputato non era al corrente di quanto accadeva, ma organizzava il servizio in maniera tale da aiutare, inconsapevolmente, gli autori dell’omicidio); il secondo per false dichiarazioni (era imputato di favoreggiamento). Condanne lievi, che pure accertarono, sin da allora, che si era trattato di omicidio. Ma se questi sono stati gli “agevolatori”, dove sono gli autori materiali del delitto? Il pubblico ministero aveva iscritto nel registro degli indagati 21 persone, che - contro ogni logica e procedura – vennero ascoltate, il giorno seguente alla loro iscrizione (nel settembre del ‘97), come “persone informate dei fatti”: e rilasciarono una serie di dichiarazioni ampiamente lacunose e contraddittorie. Ognuno cercava di salvare se stesso, scaricando la responsabilità sugli altri, mentendo, tacendo, fornendo versioni grottesche e inverosimili. Quelle testimonianze, tuttavia, non potranno mai essere impiegate nel processo per un vizio di forma macroscopico. Gli imputati saranno ascoltati come tali solo nel 1999 e tutti, tranne uno, si avvarranno della facoltà di non rispondere. Il 5 luglio scorso, la Corte d’Appello di Messina ha chiuso definitivamente il caso, assolvendo anche Cardamone. Dunque, in relazione a quella vicenda, resta una sola condanna definitiva: quella di Morabito, riconosciuto colpevole di aver mentito al pubblico ministero. Quello stesso pm, che aveva promesso la riapertura delle indagini, nulla ha fatto; la Procura generale, sollecitata ad intervenire con una formale istanza di avocazione delle indagini, non ha mai proceduto. I compagni di cella di Romeo mai sono stati ascoltati. Questo è quanto. È stato accertato, inequivocabilmente, un delitto: che, per dinamica e prove acquisite, può essere stato commesso solo dal personale in servizio in quel carcere. Come in ogni giallo dozzinale che si rispetti, vorremmo che – almeno nell’ultima pagina, o in una nuova edizione integrale – venisse fuori il nome dell’assassino.


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