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Minori e giustizia: Castelli e i bambini «a scatola chiusa»

articolo - italia - - - L'Unità - Lidia Ravera - Diritti e Giustizia

[15/11/03]

È da ventidue anni che l’Associazione italiana dei magistrati per i minorenni e per la famiglia si riunisce per discutere con sociologi, giuristi, avvocati, psicologi, psichiatri e pubblici tutori, sull’enorme (e in rapido, continuo, mutamento) responsabilità del proprio ruolo all’interno dell’organizzazione della giustizia. Quest’anno, però, mi pare, serpeggia un’emozione diversa: la poderosa calma del convegno per studiosi è minacciata, ma anche tonificata, dal recente fallito tentativo del ministro Castelli di eliminare, con un radicale colpo di decreto legge, la loro speifica professionalità, la specificità del Tribunale Minorile, con regole sue e modalità differenti dall’esercizio della giustizia, per così dire, generalista, buona per tutti. Il decreto non è passato, ma l’umiliazione resta.

Lo spirito dell’intervento ministeriale, mi dice Giulia De Marco, presidente del Tribunale dei Minori di Torino, è, grosso modo, questo: «Basta con questi giudici che vogliono entrare nelle case. I panni sporchi si lavano in famiglia». La lunga mano della privatizzazione si infila in una materia ben delicata. Qui non si tratta di sostenere gli istituti privati a scapito della scuola pubblica che sarebbe già abbastanza grave (i 100 milioni di euro destinati ieri nella Finanziaria alle private), ma di rinchiudere all’interno di pareti domestiche inquinate da gravi inadempienze materiali e/o morali, la soluzione dei problemi gravissimi che all’interno di quelle stesse pareti si sono formati. È il privato delle relazioni di sangue, quello a cui si vuole dare una patente di intoccabilità. Dietro, c’è una sorta di sfiducia aprioristica, di stampo familista arretrato, circa la possibilità che «il pubblico», incarnato in professionisti e specialisti dediti alla tutela degli interessi dei minori, possa aiutare, sostenere, elaborare alternative, curare, risolvere, o almeno ridurre i danni. La stessa logica che voleva abolire i Tribunali dei Minori contesta una figura fondamentale che bene incarna la specifica attenzione alla sofferenza dei non-ancora-adulti, siano essi vittime o colpevoli: il giudice onorario, un esperto, laureato in legge o in psicologia giuridica e «formato alla mediazione», che ha il compito di aiutare il «togato» a giudicare, con la sua sensibilità educata più alla comprensione che alla valutazione. È una sorta di complemento umanitario al lavoro tecnico-giuridico cui i minori, come individui in formazione, hanno diritto. Solo i minori? Intanto vediamo di non toglierlo anche a loro. Sono più di un centinaio gli operatori del settore che circolano sotto le implacabili luci artificiali del centro congressi dello Star Hotel di Parma che ospita il convegno. Titolo della discussione: «Genitori, figli e giustizia: autonomia della famiglia e pubblico interesse». Sono molto appassionati.

I relatori si susseguono senza soluzione di continuità. I lavori si svolgono in un silenzio anodino, non c’è coffee-break, tutto incomincia in orario, nessuno esce fuori, nessun legge il giornale, tacciono i telefonini. Che davvero sentano la responsabilità del loro ruolo e abbiano bisogno di approfittare il massimo di questo momento di condivisione?

Certo maneggiano quotidianamente un materiale esplosivo: bambini contesi e bambini abbandonati, adozioni, violenze fisiche e psichiche, adulti che si rifiutano di crescere eppure esercitano un potere assoluto sui loro figli, figli adultizzati loro malgrado dall’obbligo di sopportare e contenere genitori acolisti o afflitti da altre dipendenze, la nuova legge che consente agli adottati, a 25 anni, di avere accesso alla documentazione sulla loro famiglia naturale. Devono scegliere, giudici togati e onorari, fra legami di sangue che hanno generato soltanto sangue e offerte di amore da valutare nel tempo e senza avere il tempo di valutarle, offerte di sconosciuti richiedenti. Saranno adatti o no? Quale sarà la loro motivazione? Spirito di servizio e generosità o voglia di figli in ottemperanza a quelle che, secondo il magistrato Alfredo Carlo Moro, «in una società che tende a sviluppare in modo alluvionale la tematica dei diritti» finiscono di essere possibilità di «fabbricarsi un figlio», al di là di qualsiasi considerazione di opportunità, perché «il loro desiderio non può restare deluso».

A chi allude? Agli anziani, ai gay, ai tanti casi di infertilità legati a scelte tardive di procreazione, ai singoli che non riescono a procedere per le strade della vita in coppia e tuttavia vogliono diventare madri o padri? Certo una volta legiferare era più facile. La famiglia nasceva su basi naturali e «si estendeva tra tutti coloro che avevano in comune un capostipite», si conviveva nelle stesse stanze, legati gli uni agli altri da un principio di indissolubilità: «nessun soggetto estraneo poteva essere introdotto nel nucleo formato dai coniugi e dai figli da loro generati». «Figlio di» era sinonimo di «nato da». Oggi non è più così. Oggi il nuovo partner della madre divorziata è quello, di fatto, fa da padre al minore, anche in assenza di vincoli diretti. Dati dal microcosmo di Parma, città ospite: su 80mila nuclei familiari 31mila sono costituiti da una sola persona. Il 10% delle famiglie è composto da un genitore unico, solo con i figli. Diminuiscono i matrimoni, aumentano le separazioni. La famiglia, che il ministro Castelli vorrebbe lasciare in pace a cavarsela senza ingerenze esterne, è, in realtà, sempre più debole.

Dice Grazia Maria Dente, docente di legislazione sociale all’Università Cattolica: «La stabilità è eventuale, il matrimonio è un esperimento, gli adulti sono permissivi innanzitutto con se stessi, avere figli è diventato una sorta di diritto la cui soddisfazione si ricerca attraverso forme anche distorte e talvolta contrarie alla legge». Come se non bastasse, c’è il fattore povertà: «Una famiglia con tre figli e un solo percettore di reddito è in miseria», dice Francesco Belletti, sociologo, «sono poveri la maggior parte degli anziani, sono povere le famiglie di immigrati, che non trovano neanche un alloggio». Basta dare un assegno di mille euro alla nascita come per comprare una unità di futuro al nostro paese senescente?

Non basta. Aiutare e sostenere una famiglia vuol dire monitorarla nel tempo, dice Giulia De Marco: «Un genitore può essere buono e comprensivo per la durata di una ripresa televisiva, è la capacità di tenuta quella che manca». Già: un figlio è per sempre, dai figli non si divorzia. Se tuo figlio ha problemi gravi, invece di mollarlo come faresti col marito, ti vergogni. Allora vuoi mettere tutto a tacere. È difficile aiutare la famiglia che ha davvero bisogno di aiuto, perché, in genere, non ha il coraggio di chiederlo. È un pudore che contrasta con la sconcertante moda di andare a vuotare il sacco in televisione. Pericoloso: «I mass-media valorizzano alcuni comportamenti e ne svalorizzano altri», dice Belletti. E non solo: i mass media usano il largo impatto emotivo delle tematiche di cui queste signore e questi signori serissimi si occupano da anni con discrezione e dedizione, per imbastire sceneggiati caramellati o lanciare talk-show lacrimosi.

Se una mamma ritenuta inadeguata va a conquistarsi il suo minuto di celebrità in tv piangendo la separazione coatta dalla sua creatura, lei diventa, a scatola chiusa, simpatica, e quelli che hanno cercato di aiutare suo figlio, diventano «ladri di bambini». La famiglia, fragile per la rapidità del mutamento, diventa vittima incolpevole e il dolore, ancora una volta, diventa spettacolo.


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