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Sofri, la grazia era pronta ma è saltata a settembre

Il suo nome in un "pacchetto" di clemenze da proporre a Ciampi

Poi lo stop: dentro c'era anche l'ex nazista Priebke Nell'elenco l'ex leader di Lc, alcuni altoatesini e due "serenissimi"

articolo - italia - - La Repubblica - - Caso Sofri

[14/11/02]

L'ULTIMO capitolo dell'"affare Sofri" si apre soltanto in apparenza con la lettera di Silvio Berlusconi al Foglio di Giuliano Ferrara. Il presidente del Consiglio, nel dichiararsi favorevole alla grazia, propone il più efficace degli argomenti: "Dai suoi scritti e dal suo comportamento si deduce che la società non può attendersi dalla detenzione (di Sofri) un qualunque beneficio in termini di rieducazione: la pena rischia di risultare soltanto afflittiva".

È vero, in quella lettera c'è materia per ravvivare qualche disputa. Ma come, si potrebbe obiettare, proprio Berlusconi elogia chi ha scelto "una difesa nella legge e nel pieno riconoscimento dello Stato di diritto": lui, Berlusconi, arrivato a scrivere nuove leggi per sfuggire alle regole dello Stato di diritto? L'obiezione sarebbe vigliacca. Agli antagonisti del governo, mancano forse i tempi, i modi, le occasioni e le ragioni per polemizzare con l'idea di diritto e legge di Berlusconi? Non è da maramaldi farlo ora, qui, nella carne viva di Adriano Sofri che con quell'idea di diritto e legge, come è di limpida evidenza, non c'entra nulla?

Appare più onesto, allora, prendere in considerazione soltanto il Berlusconi che affronta il "caso Sofri". Chi può dirsi contrario alla ragione che propone? Chiunque può comprendere che, nella segregazione di Adriano Sofri, non c'è alcuna necessità di "difesa sociale" né un "rafforzamento della coscienza giuridico-morale" né ancora "la creazione di abitudini all'agire socialmente corretto". Ecco perché, per moltissimi, quella prigionia, è senza senso e significato e ha soltanto il segno della vendetta. Un segno intollerabile.

Era giusto attendersi, dopo la sortita del capo del governo, che il "caso" si avviasse finalmente verso una felice conclusione. Era lecito attendersi che Berlusconi avesse in mano tre carte essenziali: la disponibilità del capo dello Stato, unico dominus di un provvedimento di clemenza; il consenso (o almeno il non-dissenso) della famiglia Calabresi, titolare dell'inalienabile diritto a vedere rispettato l'esito processuale; l'assenso dei suoi alleati di governo. Obiettivi a portata di mano. Il Quirinale, già in gennaio, replicando a una lettera di Franco Corleone, aveva auspicato "il formarsi di un largo consenso politico e sociale sull'esigenza di chiudere definitivamente capitoli dolorosi della storia della Repubblica". Da sempre, la signora Gemma Calabresi ha fatto sapere che non si sarebbe opposta a un provvedimento di grazia che non cancellasse il significato della sentenza.

Si scopre invece, con sconcerto, che nessuna delle tre carte è nelle mani di Berlusconi. Né la famiglia né il Quirinale sono stati informati della mossa. Per gli alleati, occorre stare ai fatti. A poche ore dalla pubblicazione della lettera di Berlusconi, Gianfranco Fini gli risponde rumorosamente picche in pubblico. Viene da chiedersi, allora, perché una mossa tanto improvvida e affrettata? Perché aggrovigliare, o pregiudicare, ancor di più un "caso" già di per sé ingarbugliatissimo? Non si comprende la sortita di Berlusconi se non si racconta il retroscena che, per quanto se ne sa, lo produce.

A settembre la grazia a Sofri appare "cosa fatta". Accade che governo e Quirinale si preparano ad accogliere il presidente austriaco Thomas Klestil, atteso a Roma il 24 settembre. Da anni l'Austria chiede a Roma di "chiudere il capitolo" degli attentati degli Anni Sessanta con gesti di clemenza per coloro che vi parteciparono. Con molto riserbo e grande prudenza, la questione viene affrontata dagli sherpa degli Esteri. Si valuta la lista di una dozzina di altoatesini (italiani, austriaci e tedeschi) condannati nel nostro Paese. Si escludono i nomi più imbarazzanti e controversi come quello di Peter Kienesberger (condannato a un doppio ergastolo per l'attentato a Cima Vallona in cui morirono quattro militari italiani). Si individuano due nomi meritevoli di clemenza. Quei due nomi danno vita all'idea di un "pacchetto di grazie".

Per quel che Repubblica è riuscita a ricostruire, l'elenco compilato al ministero di Giustizia con l'assenso del Quirinale associa alla clemenza per gli altoatesini, due "serenissimi" (condannati per l'assalto al campanile di San Marco, e cari alla Lega), un carabiniere (condannato per aver ucciso un bandito durante una rapina) e Adriano Sofri. In questa sorta di "manuale Cencelli" della clemenza, è assente il mondo della destra e, come alla Lega, tocca ad An indicare un "graziando". Il nome, a quanto pare, non si rintraccia. Forse An non ha cuore di proporre al Colle i nomi di Francesca Mambro e Giusva Fioravanti (in attesa del processo di revisione per la strage alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980). Forse, è lo stesso Quirinale che invita il segretario di An a non avanzare quei nomi. Sta di fatto che quella casella resta vuota. Nel vuoto c'è chi avanza un altro nome. Un nome che, con decisione, Carlo Azeglio Ciampi giudica "irricevibile". Secondo molti fonti, si tratterebbe di Erich Priebke, il capitano delle SS condannato all'ergastolo per la strage delle Fosse Ardeatine (nessuna fonte ufficiale ha inteso confermare quest'informazione). "Irricevibile" per il Quirinale, quel nome - fosse o non fosse Priebke - appare "irricevibile" anche per Alleanza Nazionale. Il "pacchetto di grazie" salta. Al termine della sua visita a Roma, il presidente Thomas Klestil deve ammettere, amareggiato, che non ha "ottenuto nessuna promessa per quanto riguarda la grazia" agli uomini condannati in contumacia per gli attentati degli anni Sessanta.

Il fallimento di questo tentativo non scoraggia, a quanto pare, Berlusconi o, come dicono altri, è il direttore del Foglio, Giuliano Ferrara, che lo convince a non demordere. Sta di fatto che al termine del consiglio dei ministri del 24 ottobre, Berlusconi prega i capi delegazione dei partiti nel governo di trattenersi ancora per qualche minuto. A Fini (An), Bossi (Lega), a Buttiglione (UdC) - è presente anche il ministro dell'Ambiente Altero Matteoli (tra i pochi in Alleanza Nazionale favorevoli alla grazia) - il presidente del Consiglio annuncia di "voler fare un passo a favore di Adriano Sofri". Chiede il loro parere. Nessuno gli sconsiglia la mossa. Fini si dichiara contrario a un atto di clemenza, ma non invita il capo del governo a prendere tempo o a fermarsi finché è in tempo. Berlusconi si convince che c'è lo spazio politico per spuntarla e dà a Ferrara il via libera per la pubblicazione della lettera.

Siamo a oggi, e bisogna far di conto. La sortita di Berlusconi ha gettato scompiglio a destra come a sinistra. A destra, se si escludono isolate voci (Matteoli, Cola), la grazia a Sofri non piace. La boccia la Lega (Bossi tace). Fini la ritiene "inopportuna". I suoi anche, a meno che (come dice Nania) non si allarghi agli "anni di piombo", e quindi anche al terrorismo di destra. Al contrario, il centro della maggioranza è favorevole. Forza Italia è con il suo leader e l'Unione di Centro di Follini formalizza (seppure con la presa di distanza di Giovanardi e il silenzio di Casini) una richiesta di grazia. Subito seguita, a sinistra, dalla mozione dell'Ulivo (per una volta, non diviso) appoggiata anche da Rifondazione comunista. Anche dalla magistratura si levano voci di consenso. Gerardo D'Ambrosio, il capo di quella procura che ha chiesto e ottenuto la condanna di Sofri, conviene oggi che "se il carcere serve alla riabilitazione, la grazia a Sofri può essere tranquillamente concessa". Galleggia, a sinistra, il dissenso di Gianni Vattimo. Accecato dall'odio per Berlusconi, si dichiara disponibile a vedere marcire Sofri in galera pur di non dare soddisfazione (e legittimità) a quello là, come se un Sofri in libertà potesse alleviare Berlusconi dalle responsabilità che si è assunto con le leggi pro domo sua. Non è un'idea molto virtuosa, soprattutto non è un'opinione condivisa ma un merito, nella sua piccineria, l'idea di Vattimo ce l'ha: ci fa comprendere che l'"affare Sofri" va maneggiato lontano dall'attualità politica, dalla logica degli schieramenti, dai furibondi odii che avvelenano il dibattito pubblico. È un "caso" che va affrontato rispondendo al semplice quesito che Silvio Berlusconi propone nella sua lettera: a trent'anni dalla morte di Luigi Calabresi, la detenzione di Adriano Sofri non è soltanto iniqua afflizione? Questa è la sola domanda che merita una risposta. Il resto non conta, è mediocre manovra politica, è dappocaggine.


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