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Come liberare Adriano Sofri

articolo - italia - - L'Unità - Luigi Berlinguer - Caso Sofri

[17/11/02]

Adriano Sofri deve uscire di prigione: non c'è più ragione che resti in carcere. Mi sembra di assoluto rilievo che questa esigenza di giustizia sia ormai venuta a maturazione, e non possiamo che esserne lieti. Anche le recenti iniziative parlamentari che hanno raccolto adesioni nei diversi schieramenti ne sono la prova: non ha più molto senso, oggi, dividersi fra innocentisti e colpevolisti (penso che ognuno voglia conservare legittimamente la sua opinione in proposito), perché la questione si è ormai spostata sul tema della pena e della sua espiazione.

Per molti, infatti, è proprio questo il tema unificante: se sia ancora logico e giusto che Sofri resti in carcere.

E cioè che la pena decisa dai tribunali debba essere espiata compiutamente.

Ci aiuta a rispondere la nostra Costituzione. «Le pene… devono tendere alla rieducazione del condannato» recita l'art. 27. La nostra civiltà giuridica ci dice che l'espiazione non risponde più ad un principio solo retribuzionistico: essa deve essere rapportata all'obiettivo del recupero sociale, per cui si deve valutare se - come dicono i giuristi - rispetto ai tempi in cui sono accaduti i fatti siano mutate sia le condizioni oggettive sia quelle soggettive del condannato. Ebbene: è doveroso ammettere che da allora sono intervenuti mutamenti radicali, il più rilevante dei quali è che Sofri si è già reinserito nella società, lavora, produce, è considerato a tutti gli effetti membro della comunità degli studi (e non solo); ma resta dietro le sbarre. Ha già scontato una parte rilevante della pena e - pur proclamando fieramente (e legittimamente) la propria innocenza e dissentendo nettamente dalla sentenza di condanna - non manifesta alcuna irriverenza verso le istituzioni. A tutti gli effetti quello che le leggi definiscono recupero sociale la comunità lo ha già compiuto: manca solamente la libertà, la pena conserva soltanto il carattere di afflittività, e tutto ciò contrasta con le finalità costituzionali.

È questa la contraddizione che chiede di essere sciolta ora, e non c'è che uno strumento, anch'esso prodotto da una secolare civiltà giuridica: la grazia. Se si vuole Sofri libero non c'è altra strada. Secondo le leggi spetta unicamente al capo dello Stato decidere se concedere la grazia. Decidere, ma non proporre. E senza preventiva richiesta o proposta non c'è decisione. La grazia la può chiedere il condannato (o un suo familiare), la può proporre l'esecutivo, il ministro della Giustizia. Sofri ha deciso di non chiederla, e sta pagando cara questa coerenza (ed anche per questo va rispettato). Non resta quindi altro da fare: che l'esecutivo avanzi ufficialmente e formalmente la proposta di grazia.

Ora, si dà il caso che l'esecutivo sia oggi di destra. E allora? Che devono fare tutti coloro che ritengono che Sofri debba essere messo in libertà? Aspettare che cambi il governo? Mi sembra addirittura ovvio che no. Mi sembra, al contrario, se si crede nella giustizia e nella democrazia, che si debbano usare tutti i mezzi democratici a disposizione perché l'esecutivo, il ministro della Giustizia inoltrino al capo dello Stato la proposta di grazia, ed è ciò che molti di noi hanno fatto in questi anni. Usare tutti i mezzi possibili, appunto, e tanto più in questo momento che il traguardo sembra più vicino, visto che il capo dell'esecutivo ha riconosciuto che non c'è più ragione perché Sofri resti in carcere. È un bel successo! È molto importante che l'idea giusta sia prevalendo. E proprio ora bisogna aumentare la pressione, reclamando che alle dichiarazioni seguano i fatti, magari superando le opinioni contrarie che si sono espresse all'interno dell'esecutivo. Attenzione ai diversivi, a spostare la discussione su altri fronti.

Sinceramente non vedo altra strada. Evitiamo, per carità, di suggerire a Sofri di prendere lui in mano l'iniziativa, magari rinnegando se stesso con una sua richiesta di grazia, o di esigere da lui che faccia il karakiri rifiutandola (ho persino seri dubbi che sia giuridicamente ammissibile rifiutarla). Ho letto che si invoca un «razzismo delle idee», e cioè che si debbano rigettare le cose giuste se vengono dalla parte sbagliata. Ricordo che ai primi tempi della mia militanza politica, nei lontani anni Cinquanta, correva un detto: se sotto la pioggia scrosciante un comunista pensa bene di aprire l'ombrello, gli intransigenti sanfedisti ne fanno a meno, perché l'ha detto un comunista, che non è attendibile.

Domandiamoci dove ci porta la contrapposizione assoluta, chi ne fa le spese. Certamente ne soffre la ragione. È poi vero che il rigore (pregevole e necessario) sia incompatibile con la ragione e col buon senso? Perché se finalmente il giusto vince, se la ragione riesce a prevalere, si vuole perdere davvero una causa giusta solo perché sono i «cattivi» a sposarla (qualunque sia il motivo per cui la sposano)? Io credo che noi non abbiamo neanche il diritto di impedire che la giustizia prevalga, specie quando si gioca con la libertà altrui.


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