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Leggi razziali, persecuzione infinita

Signor Presidente Berlusconi, le racconto una storia che, forse, non conosce. Era il 1938 e, a Bologna, una bambina di 9 anni, Nella Padoa, si recò nella scuola dove doveva frequentare la quarta elementare. Non poté farlo perché – a seguito dell’approvazione, pochi mesi prima, delle leggi razziali - nel registro scolastico, accanto al suo nome, era stato scritto: “razza ebraica”.

articolo - - - - L'Unità - Luigi Manconi - Diritti e Giustizia

[15/03/03] Signor Presidente Berlusconi, le racconto una storia che, forse, non conosce. Era il 1938 e, a Bologna, una bambina di 9 anni, Nella Padoa, si recò nella scuola dove doveva frequentare la quarta elementare. Non poté farlo perché – a seguito dell’approvazione, pochi mesi prima, delle leggi razziali - nel registro scolastico, accanto al suo nome, era stato scritto: “razza ebraica”. Venne espulsa: e fu l’inizio di una vicenda particolarmente drammatica per una creatura particolarmente sfortunata (la poliomielite, la fuga da Bologna, l’arresto da parte delle SS, la reclusione, la minaccia di deportazione…). Poi, l’Italia venne liberata e – con essa – anche Nella Padoa. Oggi, quella nostra concittadina di religione ebraica ha 73 anni e, da tempo, è impegnata in un aspro e umiliante contenzioso con lo Stato italiano. Una legge del 1955 prevede, infatti, il diritto a un “assegno vitalizio di benemerenza” (equivalente a 768.000 vecchie lire: “pari al minimo della pensione della previdenza sociale”, recita la legge) per le vittime delle persecuzioni razziali. Ma, dal 1955 a oggi, sono state assai poche – pochissime - le persone che hanno ottenuto quell’assegno: e i procedimenti sono faticosi e complessi e dànno luogo a contenziosi infiniti (alla lettera: infiniti). Così è accaduto anche a Nella Padoa. La Commissione di prima istanza (costituita da funzionari della presidenza del Consiglio e dei ministeri dell’Interno, della Giustizia, dell’Economia e del Welfare, da esponenti dell’Associazione nazionale perseguitati politici italiani antifascisti e da un rappresentante dell’Unione delle comunità ebraiche) le ha negato, a maggioranza, il diritto all’assegno, ma la Corte dei conti dell’Emilia Romagna ha accolto il suo ricorso. Il ministero dell’Economia ha proposto appello; e la Corte dei conti - di fronte a sentenze contrastanti – ha investito della decisione le Sezioni riunite della stessa Corte. Il contenzioso si concentra su due punti. Il primo: gli atti di violenza da prendere in considerazione sono solo quelli antecedenti l’8 settembre 1943? Il secondo: che significa violenza? Va interpretata in senso esclusivamente fisico o anche morale? E l’espulsione da scuola di una bambina di nove anni va considerato una “mera soggezione alla normativa antiebraica” o una “azione lesiva della persona nei propri valori individuali”: e, dunque, una vera e propria violenza? Pare incredibile, ma di questo si sta discutendo. Nel 2003, avvocati e magistrati, storici e funzionari ministeriali pretendono di giudicare, o sono chiamati a giudicare, ciò che successe - 65 anni fa - nella mente e nel cuore di una bambina. Quasi che non bastasse la documentazione inoppugnabile – ripeto: inoppugnabile - di quell’espulsione da scuola, di quelle offese, di quelle persecuzioni. Ora, si attende la sentenza delle Sezioni riunite della Corte dei conti: e confidiamo che sia positiva, considerate l’enormità e, insieme, la semplicità del dilemma etico-giuridico che deve sciogliere. Ma resta la questione generale: resta questa impari lotta, senza ragione e senza compassione, tra un gruppo di bambine e bambini – diventati, nel frattempo, anziani, se non vecchi – e lo Stato italiano, nato dalla Resistenza e retto da una Costituzione che, all’articolo 3, afferma: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione…”. C’è qualcosa di crudele, ma anche di inaudito e di incomprensibile, in quella lotta. Perché lo Stato italiano, nella figura del ministero dell’Economia e nella persona di una serie di funzionari e dirigenti, si oppone a questo elementare e minimo riconoscimento? Ad avviso di Michele Sarfatti, storico della Shoa, c’è una “mistura infernale di normazione inadeguata, stupidità burocratica e persistenza di antisemitismo” (e si riferisce alle commissioni per i risarcimenti istituite in diversi paesi). Sarfatti ha perfettamente ragione, anche quando – come spesso nel caso italiano – quell’ “antisemitismo” va interpretato, più come “relativizzazione” delle norme e delle azioni persecutorie e discriminatorie che come manifestazione di odio. Fatto sta che quell’ “infernale mistura” si traduce – nel corso di questi procedimenti - in una meschina contabilizzazione delle violenze, in una frustrante aritmetica delle sofferenze, in una desolante ragioneria del dolore. Sullo sfondo, c’è qualcosa di inquietante: un umore sotterraneo, una diffidenza sedimentata, un’ostilità diffusa. Che tanto più resistono e si riproducono nelle pieghe della burocrazia e nella mentalità ordinaria degli apparati, dove l’asserita sudditanza alla legge è più fuga dalla responsabilità (e codardia) che esercizio di potere (e arroganza). A tutto ciò si aggiunge una forma sottile di anti-ebraismo, né ideologico né biologista, ma fatto di sospetto e di rivalsa: una sorta di invidia sociale, propria di chi vive di legami deboli e relazioni incerte, verso chi appare capace di “formare comunità” e trasmette un’idea intensa di mutualità. E’ un anti–ebraismo “culturale” e, insieme, popolare – pur se diffuso in molti strati sociali – e impastato di luoghi comuni e di tic linguistici, di stereotipi piccini e di pregiudizi infimi, di ignoranza dei dati di realtà e di insicurezza di sé. C’è qualcosa da fare? C’è qualcosa che lei può fare, Presidente Berlusconi? So bene che non è stato l’attuale ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, a inaugurare tale linea di opposizione alle richieste dell’ “assegno di benemerenza”, ma i ministri che lo hanno preceduto; Tremonti si è limitato a confermarla. E, tuttavia, lei può fare qualcosa. Intanto, può impegnarsi per una legge interpretativa che sia giusta, ma anche generosa, razionale e saggia, e che non costringa i perseguitati di ieri a rivivere, all’infinito, le umiliazioni, le offese, le discriminazioni patite. E, poi, non va dimenticato che nei procedimenti davanti alla Corte dei conti (e, ancor prima, all’interno della Commissione) intervengono funzionari e avvocati che seguono le direttive del governo e del presidente del Consiglio. Si diano direttive diverse. Dia lei, Presidente Berlusconi, avvalendosi dei suoi poteri costituzionali di coordinamento e di indirizzo, indicazioni radicalmente differenti. Il governo non si opponga, d’ora in poi, alle conclusioni favorevoli della Commissione; e, per i casi attualmente in giudizio, rinunci all’appello. E’ interesse dello Stato. E’ propriamente interesse dello Stato, se non intendiamo - con questa formula impegnativa e potente - solo la volontà di risparmiare pochi denari; e se invece, per interesse dello Stato, intendiamo la capacità delle istituzioni di rinnovare la propria legittimazione politica e morale.


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