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Ucciso il siriano espulso dalla Bossi-Fini. L'hanno massacrato in carcere

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[08/07/03]

Morto sotto tortura. Tra bastonate e scosse elettriche, Mohammad Said Al-Sahri, l’ingegnere siriano espulso dall’Italia insieme alla moglie e ai quattro figli nel novembre scorso, sembra che sia stato ucciso. Ha incontrato il suo boia, in un carcere di sicurezza alle porte di Damasco, dove era detenuto da quando l’Italia lo ha rispedito nel suo paese, nonostante avesse richiesto l’asilo politico perché perseguitato politico. A darne la notizia sono il Cir (Consiglio italiano per i rifugiati) e la famiglia che attualmente vive a Londra. «Abbiamo avuto la notizia da alcuni parenti che vivono a Damasco», dice Murhaf Lababidi, cognato di Mohammad, al quale fa eco il direttore del Cir, Christopher Hein: «La notizia, che stiamo cercando di accertare, ci è stata data da una fonte che si trova in Siria e che preferiamo mantenere anonima. Ma non si tratta di parenti». E il tre luglio scorso un comunicato è stato inviato dai legali della famiglia Lababidi alla Corte di Strasburgo. «Da fonti attendibili - è scritto sulla nota - il signor Mohammad Said Al-Sahri è stato ucciso a causa delle torture subìte in carcere». Conferme dal governo siriano non ce ne sono. E la Farnesina interpellata sull’argomento si limita a un: «Verificheremo».

La storia di Mohammad Al-Sahri comincia nella città di Hama, antica città siriana, considerata dal regime di Assad la roccaforte dei Fratelli Mussulmani, i cui membri - prevede la legge del 7 luglio dell’80 e ancora in vigore - sono condannati alla pena capitale. Teatro di una spietata repressione della popolazione, che tenta di liberarsi del “Leone di Damasco”, Hama viene bombardata, accerchiata, distrutta dall’esercito. Un’escalation di violenza che culmina il due febbraio dell‘82 nel massacro di oltre diecimila vite. Mohammad Al Sahri, che all’epoca ha 24 anni, fugge. Va prima in Giordania e poi in Irak, dove si stabilirà con la moglie Maysun e i quattro figli. Ma la famiglia di sua moglie, anch’essa ricercata dal regime di Damasco, si era già stabilita in Europa, tra la Danimarca e l’Inghilterra. Così anche Mohammad, dopo circa vent’anni di esilio, decide di partire per l’Europa. E il 23 novembre scorso arriva insieme ai suoi cari, proveniente da Baghdad via Amman, all’aeroporto Malpensa di Milano. Bloccati dalla polizia di frontiera vengono trattenuti in una zona riservata dell’aeroporto per ben cinque giorni impedendo loro di vedere Murhaf, il fratello di Maysun, che nel frattempo era volato da Londra in loro soccorso. Ma Murhaf era riuscito il giorno dello sbarco a sentirla telefonicamente e non soltanto si era assicurato che la sorella avesse richiesto l’asilo politico per lei e i suoi cari, ma le aveva anche tradotto dall’arabo il termine “refugee”. «Devi dire alla polizia di frontiera: ”We are refugee”». Una veloce deportazione fa seguito ai cinque giorni di detenzione in isolamento. Vissuto libero nel paese del feroce Saddam, Mohammad non trova, dunque, altrettanta tolleranza nella “democratica” Italia. Ma in aereo le lacrime non servono. Destinazione: Damasco. Dove ad attendere l’ingegnere all’aeroporto c’è l’ascia del boia. Arrestato immediatamente dalla sicurezza siriana, infatti, viene portato via e dalle autorità non si è mai avuta alcuna informazione. Sua moglie, insieme ai bambini, vive ad Hama dove due volte a settimana, racconta Murhaf, riceve la visita dei Mukabarat, i servizi segreti che la intimidiscono e le bombardano di domande sui contatti del marito e sul resto della famiglia. In Italia, intanto, l’Unità denuncia il caso e in Parlamento fioccano le interrogazioni al governo. Il ministro dell’Interno, Giuseppe Pisanu, si difende: «Queste persone non hanno mai avanzato domanda di asilo, sono stati trattenuti in luoghi ospitali, trattati con umanità e rimpatriati in Siria nel pieno rispetto della legge Bossi-Fini». Difficile credere che in cinque giorni di detenzione non abbiano mai espresso tale richiesta. E in ogni caso, spiegano i legali della famiglia Lababidi che, intanto, hanno denunciato il governo italiano alla Corte europea di Strasburgo per numerose violazioni del diritto internazionale, la Convenzione di Strasburgo vieta «il rimpatrio forzato verso un paese in cui vige la pena di morte». E a rispondere a Pisanu sull’ospitalità della polizia di frontiera ci pensa Maysun che dai suoi “arresti domiciliari” in cui si trova, scrive al fratello. «Abbiamo ricevuto il peggior trattamento. C’era una donna, la stessa che ci ha scortato in Siria...Avevamo chiesto rifugio, una vita normale...invece ci hanno rinchiuso in una stanza con le telecamere, dove ci hanno perquisito e fatto le foto segnaletiche...Abbiamo chiesto varie volte un interprete, un avvocato...Poi ci hanno condotto in un posto vicino all’aeroporto...un posto freddo, gelido, senza riscaldamento, niente coperte...Così fino a giovedì 28 novembre alle 21 quando quella donna è venuta con tre agenti di polizia e ci ha detto “hanno accettato la vostra richiesta. Raccogliete i vostri effetti personali”. Dove andiamo? “Sarete trasferiti in un posto migliore” mi ha risposto la donna. Solo in aereo abbiamo capito dove eravamo diretti».

Un racconto raccapricciante, difficile da provare: la parola degli immigrati contro quella di un funzionario di polizia. Ma che offende non solo la famiglia Sahri, bensì la dignità di ogni essere umano. Si tratterebbe di quei “trattamenti disumani e degradanti” citati nella Convenzione di Ginevra e in quella di Strasburgo. Perché proprio in Siria visto che venivano dalla Giordania? Si sono rifiutati di andare in Giordania, risponde il governo. Dunque, per andare in Giordania si sarebbero opposti con tutte le forze, mentre per la Siria avrebbero accettato a cuor leggero. Ma sì, in fondo laggiù ci aspetta solo una condanna a morte. E non è tutto. Carlo Giovanardi, ministro per i rapporti per il Parlamento, dagli scranni dell’aula, assicurò alcuni mesi fa: «Naturalmente, il governo si impegna a seguire la vicenda anche a livello europeo, nel caso in cui emergesse la notizia che i diritti umani non vengano rispettati». Ebbene, come si è impegnato questo governo? Come ha ottemperato all’impegno preso? Amnesty International non ha mai smesso di riferire, in seguito alle inchieste da essa condotte, che in Siria la tortura è praticata sistematicamente ed è concreto il pericolo di scomparsa dei detenuti politici. Soprattutto gli appartenenti ai Fratelli Mussulmani. Il governo, quindi, non poteva non sapere. Non poteva non immaginare la fine che avrebbe fatto Mohammad Al Sahri. «La notizia della morte dell’ingegner Sahri che riferiscono fonti attendibili - dice Anton Giulio Lana, uno dei legali della famiglia Lababidi - mi lascia sconcertato ma purtroppo non sorpreso. Il rischio di un tale epilogo era fin troppo prevedibile. Spetterà a questo punto alla Corte Europea accertare le responsabilità dell’Italia, anche sotto questo profilo».


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