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Una folle privatizzazione
Dall'orrore dei manicomi all'orrore delle «case per adulti» private senza tutele né cure, né personale specializzato. E ai malati non resta che suicidarsi. La denuncia del New York Times
articolo - mondo - - Il Manifesto - Marco D'Eramo - Diritti e Giustizia
[30/04/02] Si chiamano «case per adulti» (adult homes). Da quando, una generazione fa, i manicomi furono progressivamente chiusi negli Stati uniti, vi vengono parcheggiati i malati mentali. Negli anni '60, dopo la campagna contro le condizioni inumane di detenzione, la maggior parte degli stati Usa decise infatti di eliminare, o almeno svuotare la maggior parte degli ospedali psichiatrici, in quella che in America venne chiamata la «deistituzionalizzazione» e che può essere considerata la versione reaganiana della 180, in cui cioè si lascia gestire la follia non dall'«istituzione», ma dalla «razionalità del mercato». Chiusi i manicomi, si fecero avanti i privati per ricoverare i pazienti dimessi in case di cura o in ospizi per vecchi riciclati. Gli stati li accolsero a braccia aperte. I fondi federali per i disabili furono destinati a sovvenzionare questi privati che avrebbero fornito cibo, alloggio, attività e supervisione ai malati. I singoli stati avrebbero dovuto controllare il corretto funzionamento delle adult homes. Ma il destino dei malati mentali è oggi altrettanto crudele di quarant'anni fa, come ha mostrato una lunghissima inchiesta condotta per più di un anno dal New York Times (Nyt) che ha analizzato più di 5.000 pagine di rapporti di ispezione, ha intervistato più di duecento persone tra lavoratori, residenti e membri delle famiglie.
Il rapporto del quotidiano newyorkese è terrificante. Nello stato di New York operano oggi circa 100 adult homes che ospitano 15.000 malati mentali: di queste 100 case, la maggior parte nella metropoli: 26 sono nella città vera e propria (e ospitano 5.000 pazienti), mentre la maggioranza delle altre è dispersa nell'immenso hinterland. Molte di queste case sono più grandi della maggior parte degli ospedali psichiatrici ancora esistenti negli Usa (che ospitano una media di 280 pazienti). A leggere le oltre 35 cartelle dell'inchiesta si colorano sempre più di orrore i nomi di Anna Erika a Staten Island (con 427 letti è la più grande adult home di New York), Leben Home a Elmhurst in Queens (361 letti), Seaport Manor a Canarsie, Brooklyn (346 letti), Elm-York vicino all'aeroporto La Guardia (286 letti); e poi Park Manor e Surf Manor, Coney Island, Brooklyn; Brooklyn Manor; King Solomon, Ocean House (Queens). Il tasso di morte vi è elevatissimo. Nelle 26 adult homes cittadine, il Nyt ha documentato nei sette anni dal 1995 al 2001 946 morti, di cui 326 di persone sotto i 60 anni, incluse 126 persone che avevano meno di 50 anni: la speranza di vita tra i pazienti è di soli 63 anni. A Leben Home, 14 dei 66 morti avevano meno di 50 anni, come a Seaport Manor, 24 dei 79 morti.
La legge richiede che siano riferite allo stato tutte le morti per cause «non naturali»: in questi sette anni è stato redatto un rapporto solo su 3 delle quasi mille morti: persino i 14 suicidi sono stati considerati «morti naturali». Così una sera LisaValante, 37 anni chiese aiuto, ma erano passate le cinque e gli ospiti di Anna Erika erano soli, come al solito: si lanciò dal settimo piano. Prima di lei dallo stesso piano erano saltati giù Myrna Millington, 61 anni, e Fu Jun Ho, 45 anni. Eliezer Sulsona, 42 anni, Sherri Cohen, 38 anni e Joan Ciancimeno, 49 saltarono giù rispettivamente da New Haven Manor, Sanford Home e Park Inn a Queens; Roberto Tricarico si gettò da Lakeside Manor a Staten Island; Lavar Murphy, 22 anni e, Charle Osdin, 83, s'impiccarono a Wavecrest (Queens) e Riverdale Manor (Bronx); Dorothy Clinton, 48 anni, si cosparse di benzina e si bruciò nel suo letto a Seaport. Molte di queste morti sono avvenute per incuria, con pazienti trovati morti solo dopo giorni e giorni, o altre che non hanno ricevuto aiuto quando lo chiedevano: a Seaport Manor, il cadavere di Randolph Maddix, 51 anni, fu trovato solo 12 ore dopo la morte; a King Solomon, Jonathan Miller, 35 anni, scambiava figurine di baseball dalla sua stanza, e morì per un attacco di cuore: solo l'odore della putrefazione fece scoprire il suo cadavere.
In particolare, per i malati mentali sono micidiali le estati, perché i farmaci psicotropici riducono la sensibilità al calore e il calore accentua la vulnerabilità al diabete e ad altri mali. I malati mentali poi, sono meno cauti nel premunirsi contro la disidratazione. Così, nel solo luglio 1999 a Leben Home morirono 17 ospiti: il padrone Jacob Rubin manteneva il condizionatore d'aria soltanto nel suo ufficio a porte chiuse, e se i pazienti volevano anch'essi un condizionatore dovevano pagare un extra compreso tra i 25 e i 150 dollari al mese, nonostante Rubin ricevesse dallo stato sovvenzioni di 3 milioni di dollari l'anno (solo nel 2001, dopo le prime accuse del Nyt, gli è stata ritirata la licenza e la casa è adesso stata ribattezzata Queens Adult Care).
L'idea iniziale era che queste case dovessero accogliere solo ospiti in grado, se aiutati, di entrare nel mercato del lavoro o d'inserirsi in una comunità. Ma fu abbandonata quasi subito; ospitano invece schizofrenici gravi, maniaci depressivi e persone senza speranza di vita normale. Per esempio, un'analisi del 1997 ha mostrato che su circa metà degli ospiti di Seaport, più dell'80% aveva un passato di ricoveri psichiatrici multipli, il 35% antecedenti di comportamento violento, il 32% aveva abusato di droghe e il 12% aveva compiuto tentativi di suicidio. Così è indispensabile l'uso massiccio di psicofarmaci. Ma in questo tipo di alloggi lo stato non richiede al personale nessuna specifica preparazione medica, tantomeno psichiatrica. La maggior parte degli addetti ha appena finito la scuola dell'obbligo e viene assunta a salario minimo, quello dei lavapiatti precari, 6 dollari l'ora. In alcuni casi è stato riscontrato un vero e proprio analfabetismo.
Illuminante è la traiettoria di Toshua Courtham, assunta a Seapoprt come centralinista, grande lavoratrice, grande comunicativa con i pazienti e perciò rapidamente promossa di grado in grado fino a diventare direttrice dei servizi sociali. Courtham ammette col Nyt di non saperne un «dannato cavolo (Jack-Diddly) di medicine», così all'inizio del secondo anno ha cominciato a telefonare agli ispettori statali per denunciare la situazione a Seaport, ma nessuno se l'è filata, anzi, nel 2001 è stata licenziata. Lei e la sua collega raccontano di come, su ordine della direzione, falsificassero i più di 300 rapporti mensili sui pazienti, inventando nomi di dottori che redigevano i referti, appioppando schizofrenie e paranoie a gogò.
L'impreparazione è tale che in una adult home è stato assunto come animatore uno studente liceale che proiettava violenti film di azione con scambi di identità a malati schizofrenici. D'altronde ecco come il Nyt descrive quello che i residenti e addetti chiamano il «giorno di paga»: «Una volta al mese gli amministratori di Seaport distribuiscono a ogni residente circa 120 dollari dell'assegno d'invalidità che loro controllano. Allora comincia il pandemonio. Gli usurai interni inseguono gli ospiti nell'atrio, affannati a rastrellare il proprio denaro; hanno aperto bottega dentro a Seaport persino due spacciatori di crack. Gli ospiti più deboli cercano di rifugiarsi nelle proprie stanze per proteggere il gruzzoletto di cui hanno un bisogno disperato».
Come si vede, le adult homes non sono molto diverse dagli ospizi per i vecchi poveri e dai rifugi per i senza tetto (homeless shelters). D'altronde, la frontiera fra queste categorie è assai labile e ad Anna Erika, oltre ai malati mentali, sono ospitati molti anziani, mentre molti tra questi ultimi vengono lasciati letteralmente per strada e le statistiche li annoverano tra gli homeless: e dove situeremmo noi quelle inermi signore anziane che vagano in mezzo al traffico tra le macchine, capelli candidi, occhi persi, braccia cariche di sacchetti di plastica in cui portano tutti i propri tesori? gli americani le chiamano quasi con affetto bag ladies.
Torniamo sempre al paradosso statunitense: contro ogni idea ricevuta, gli Usa spendono un sacco di soldi in assistenza, ma mai abbastanza per farli diventare un investimento e sempre in modo punitivo e vessatorio. Basti pensare che il sistema delle adult homes costa allo stato di New York 600 milioni di dollari l'anno, circa 40.000 dollari a paziente. Sembra molto, ma è meno di quanto costa un recluso (60.000 dollari l'anno in media) e comunque molto meno di quel che costa un paziente nelle istituzioni psichiatriche oggi esistenti negli Usa. Secondo l'annuario statistico (Us Statistical Abstract), sono 190.500 i pazienti ricoverati nelle 5.392 istituzioni psichiatriche (escluse le adult homes) della nazione: 70.000 nei 233 ospedali psichiatrici pubblici; 50.100 nelle 889 cliniche psichiatriche private; 35.800 ne reparti psichiatrici di 1.612 policlinici. È significativo che le istituzioni psichiatriche classificate come «altre» siano le più numerose (2.474), ma ospitino il minor numero di pazienti (19.500), siano cioè per lo più centri day-care. In media, in tutte queste istituzioni il costo annuo per paziente supera i 170.000 dollari, proprio a causa degli alti salari del personale specializzato.
Le adult homes pongono perciò due problemi, uno dentro l'altro. Il primo è la natura della deistituzionalizzazione reaganiana, che ha consistito nel buttare in mezzo alla strada esseri umani disturbati e infelici, salvo poi a raccoglierli con la paletta e spedirli in ospizi di fortuna. Ancora una volta è esemplare il caso di Seaport: negli anni '70 uno dei più grandi manicomi dello stato di New York, il Kingsboro Psychiatric Center di Brooklyn, stava chiudendo e uno speculatore immobiliare, Baruch Mappa stava guardandosi intorno per investimenti alternativi quando vide che a soli 5 km da Kingsboro c'era un edificio nuovo con cucine, refettorio, sala riunioni e 213 stanze da letto. Il risultato fu di svuotare un ospedale psichiatrico orribile, ma almeno equipaggiato e fornito di personale medico, con un ospizio altrettanto orribile ma con assistenza zero, qualificazione sotto zero.
Il destino della deistituzionalizzazione reaganiana sta però dentro a un problema più grande, più tragico, e cioè il silenzio sociale in cui è tornata a essere immersa la follia. Del dramma dei disturbi mentali, di queste straziate vite umane nessuno parla più. Finita la centralità della psichiatria come dispositivo sociale di controllo delle anomie, il sipario è calato di nuovo sulla follia, su quella che Michel Foucault chiamava «lo specchio in cui si riflette la ragione». Oggi a gestire la follia è delegata un'altra follia, quella del profitto a tutti i costi. Sarà questa la nuova omeopatia?
P. S. In realtà vi è una terza lezione da apprendere. Ed è, che - evidentemente -il termine «giornalismo» indica due professioni diverse in Italia e negli Stati uniti. Ma ve lo immaginate il direttore del Corriere della sera o della Repubblica che incarica un proprio redattore di lavorare un anno per fare un inchiesta sulle case per i malati mentali a Roma o a Milano; e, soprattutto, che poi gli pubblica pagine e pagine? Qui il direttore pretende un'inchiesta in mezza giornata, altrimenti non sei «produttivo». E poi si dice che gli Usa sono la terra dove regna il breve termine.
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