Rimpiangendo Galli Fonseca
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[05/02/03] L’inaugurazione dell’anno giudiziario si è caratterizzata per la difesa dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura, assunte come parametro più alto dei valori costituzionali e per questo in molte aule di giustizia è stata mostrata la Costituzione italiana, intesa come baluardo e bandiera in una difficile partita.
Eppure il rischio che questa battaglia possa essere identificata con una difesa corporativa lo si è avvertito dalle parole stesse del procuratore generale della Cassazione, quando ha sottolineato che questi principi non costituiscono un privilegio dei magistrati, ma una garanzia per tutti.
Una risposta di tal genere alle provocazioni del governo ha il limite di non riuscire a portare il conflitto sul terreno del garantismo e delle riforme. Rispetto a ciò, gli articoli di Giovanni Palombarini e di Giuseppe Di Lello, e l’intervista a Livio Pepino (apparsi su il manifesto) si presentano come contributi per affrontare il dibattito oltre le frontiere della resistenza, per riaffermare i diritti e il principio costituzionale dell’uguaglianza.
La difesa di ogni sentenza, di ogni comportamento, l’assenza di critica non aiuta a contrastare l’offensiva in atto. Di Lello fa molti esempi: «Tribunali di sorveglianza per i quali le leggi Gozzini e Saraceni-Simeone sono un optional. Tossicodipendenti tutti in galera, ma in galera anche il dissenso sociale reo... Si potrebbe continuare con un elenco senza fine di brutture giudiziarie di fronte alle quali rimaniamo muti, paralizzati dal timore di “delegittimare” la magistratura».
La relazione del procuratore generale della Cassazione è stata esaltata in funzione della guerra di trincea in cui siamo da anni impantanati, evitando perciò di mettere in luce che su alcuni punti delicati il suo discorso è stato conservatore o elusivo. Ad esempio l’insistenza sul nesso tra garanzie ed efficienza non appare persuasivo; infatti il giusto processo e la sua ragionevole durata devono trovare il loro fondamento nella coerenza dei codici e nel modello processuale. Inoltre, non si spiegano lentezze e ritardi intollerabili per i cittadini se si eludono alcuni nodi scottanti che ingolfano la macchina giudiziaria, in primis la questione droga. La legge attuale costituisce un elemento non trascurabile di inutile sovraccarico e di distrazione da altri compiti essenziali. Esaltare invece l’aumento del 54% dei procedimenti avviati per reati in materia di stupefacenti, come ha fatto il Procuratore Favara, è sconsolante e d’altronde le osservazioni relative a questo fenomeno sono di una disarmante banalità; ben lontane dalle parole coraggiose pronunciate dall’allora Procuratore Generale Galli Fonseca il 10 gennaio 1998 all’inaugurazione dell’anno giudiziario, quando mise nettamente in questione la proibizione e ne sottolineò i danni in termini di criminalizzazione e ingenti ricadute sul funzionamento della giustizia.
I dati sono impressionanti: nel 2001 vi sono stati oltre 70.000 procedimenti relativi all’art. 73 (ben il 90% per l’ipotesi di lieve entità, dunque in gran parte si tratta di consumatori-piccoli spacciatori); 40.000 persone sono entrate in carcere e 15.000 sono state segnalate ai prefetti. Altro fatto clamoroso è che la persecuzione di fatti relativi alla cannabis è superiore a quelli relativi a eroina, cocaina, Lsd, anfetamine e tutte le altre sostanze.
È vero che il dottor Favara ha denunciato il sovraffollamento delle carceri e ha indicato l’utilità di misure di indulto. Ma, quando segnala l’aumento dei suicidi in carcere («la detenzione è uno stress che favorisce le sindromi depressive», precisa), la proposta è l’apertura di nuovi ospedali psichiatrici giudiziari.
Pietà l’è morta, si sarebbe detto una volta.
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