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Il console poliziotto arresta la musica, negato il visto a orchestra di Tangeri

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[15/07/03]

Musica andalusa, musica maghrebina, note straniere che si alzano nella notte italiana. Ieri sera, a Roma, prima data del tour estivo per l’orchestra arabo-andalusa. La luna sorge, la musica sta per cominciare. Ma i musicisti non ci sono: trattenuti a Tangeri dalla maledizione della Bossi-Fini. Artisti stimati, ma «indesiderati» per il nostro paese, che, dopo un estenuante calvario burocratico, ha negato loro il visto. Tutti i documenti in regola e nessuna spiegazione. «Non siamo mai stati umiliati così», ripete il più anziano, Mokhtar Berech, 70 anni, la maggior parte passati a far rivivere attraverso il suo strumento antiche sonorità. Le ultime settimane invece le ha trascorse inutilmente a fare la spola tra Tangeri e il consolato italiano a Casablanca. Niente da fare. Lo spirito della Bossi-Fini soffia sul Mediterraneo.

Trattiene di là dal braccio di mare che separa l’Italia dalle coste africane, clandestini, cervelli extra-comunitari e artisti. E così «se ne staranno a casa» insieme agli altri respinti sbandierati dalla Lega anche i dieci artisti che Jamal Ouassini, uno dei più noti esponenti della world music in Italia, avrebbe voluto con sé lungo la penisola, prima a Roma, poi sera dopo sera a Torino, Asti, Comacchio, Catania, Ragusa. Per una settimana, giusto il tempo di regalare anche al pubblico italiano le meraviglie di una musica nata nell’«Andalusia felice», quando ebrei sefarditi e musulmani vivano creando in simbiosi e complicità. Musica andalusa, che abbandonò la Spagna insieme agli arabi e fu conservata per secoli tra le mura delle case maghrebine, diventando uno dei pilastri della musica marocchina. Musica colta eppure sempre tramandata oralmente. All’inizio del secolo scorso fu proprio l’orchestra arabo-andaluso di Tangeri a farla rivivere. Ed è stato Jamal Ouassini, musicista tangerino che vent’anni fa scelse la nostra penisola come seconda patria, a dare nuova vita a quell’orchestra portandola per la prima volta in Italia. Già perché l’orchestra tangerina non è nuova al pubblico italiano. La prima tournée, è stata nel 1999. E ancora lo scorso anno, gli appassionati l’anno potuta ascoltare nelle molte serate che il loro tour 2002 aveva riservato all’Italia. Anche allora non mancarono i problemi. Ci volle, all’ultimo, l’intervento del sottosegretario Baccini, dell’Udc, mosso a compassione da Elena Montecchi (Ds), per sbloccare la situazione.

Ma ora la Bossi-Fini si è messa a riscrivere i palinsesti dell’estate italiana, a colpi di barriere burocratiche, contro la contaminazione musicale. Solo musica made in Italy, o al più made in Usa, fuori gli artisti extracomunitari. «Anche Bruce Spreengsteen e Keith Jarrett sono extracomunitari. Ma immagino che per loro non ci sia alucn problema o intoppo burocratico per suonare in Italia», scrive Elena Montecchi, deputata Ds, al presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi: «Quali documenti speciali deve produrre un musicista marocchino per poter suonare in Italia, se non quelli previsti dalle leggi?», chiede. Lo chiede lei, per lettera all’«Onorevole Silvio Berlusconi», e oggi lo chiederà anche con un’interrogazione parlamentare, perché ai musicisti maghrebini, i funzionari del consolato italiano proprio non l’hanno voluto spiegare.

L’esperienza più umiliante della vita per Mokhtar Berech, uno dei più anziani del gruppo e grande maestro di musica andalusa, nato settant’anni fa a Tangeri. Ha iniziato ai primi di giugno a bussare alle porte del consolato, ha smesso il 12 luglio, alla vigilia del debutto. Sette volte ha ripresentato la domanda completa di elenco dei concerti, luoghi e date, contratti dei musicisti, dichiarazione della cooperativa Sherazade, che li aveva chiamati in Italia. E passaporti, ovviamente. Tutto in regola, ma ogni volta non bastava. Da una volta all’altra l’incartamento cresceva. L’ultima volta conteneva, a garanzia, anche una lettera del ministero dei Beni culturali. Perché il tour era patrocinato anche dal ministero diretto da Urbani, che ha dovuto spiegare al consolato chi era Ouassini e chi era cosa rappresentava l’orchestra arabo-andalusa. Il consolato voleva di più, voleva che anche gli alberghi che avrebbero ospitato i musicisti si mettessero a uno a uno a garantire per loro. Cavillo dopo cavillo, tutto sembrava pronto per il visto, quando Mokhtar Berech si è sentito dire che si erano rotti i computer al consolato e che quindi non se ne sarebbe fatto nulla. Disfatta alla vigilia del primo concerto, previsto per il 13 luglio in Francia. E nemmeno il consolato francese a quel punto ha potuto fare nulla. Anche perché i funzionari italiani avevano deciso nel frattempo di trattenere i passaporti dei musicisti, insieme ai venti euro a persona richiesti per il visto negato. La beffa.

Minaccia di passare alle vie legali, di denunciare il consolato l’associazione che ha chiamato in Italia i musicisti per essere risarcita dei danni economici che si sommano a quelli morali e culturali. Ma comunque quelli di Sherazade non si sono persi d’animo. Alla vigilia del concerto si sono attaccati al telefono e hanno chiamato i rinforzi. Musicisti sparsi nel mondo, ma al riparo dalla Bossi-Fini. Una cantante israeliana che con 40 di febbre e in lacrime prende l’aereo per Lione, vicino a Vienne, prima data del tour. Altri musicisti arrivano dalla Spagna e altri ancora da Tangeri ma già con il visto valido per un anno da tempo in tasca.

Alla fine, il concerto si fa. Si fa in Francia. E si fa anche in Italia. Nemmeno una delle date sarà cancellata. «Suoniamo questa musica che parla di pace e di incontri tra culture, ma i maestri che questa musica ci hanno insegnato sono bloccati a Tangeri», dice Ouassini prima di cominciare: «Abbiamo fatto tutto il possibile, tranne far arrivare l’orchestra direttamente a Bari a bordo di una carretta».


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