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Dove sono finiti i 74 dissidenti cubani?

Chi sono e dove sono i 74 dissidenti arrestati a Cuba nei giorni scorsi? E, soprattutto, che ne sarà di loro? Tra gli effetti della guerra c’è anche la devastante capacità di azzerare tutto, di omologare pensieri e sentimenti al superiore ordine bellico, di annullare domande radicali e contraddizioni dolorose nello spettacolo crudele ma fascinoso del Grande Conflitto Armato: e dunque, tra l’altro, di far sparire dallo scenario pubblico quei 74 dissidenti cubani.

articolo - mondo - - - L'Unità - Luigi Manconi - Diritti e Giustizia

[04/04/03] Chi sono e dove sono i 74 dissidenti arrestati a Cuba nei giorni scorsi? E, soprattutto, che ne sarà di loro? Tra gli effetti della guerra c’è anche la devastante capacità di azzerare tutto, di omologare pensieri e sentimenti al superiore ordine bellico, di annullare domande radicali e contraddizioni dolorose nello spettacolo crudele ma fascinoso del Grande Conflitto Armato: e dunque, tra l’altro, di far sparire dallo scenario pubblico quei 74 dissidenti cubani. Ma proprio per questo motivo è ancora più importante provare a ragionare. La notizia non è (solo) che nel mondo è in corso una guerra, quella anglo-americana contro l’Iraq. La notizia è (anche) che nel mondo, in queste ore, sono in corso oltre una quarantina di conflitti armati (lo documenta bene il sito www.warnews.it); la notizia è (anche) che pochi giorni fa, in Nigeria, sono state uccise 60 persone, durante scontri tra forze di sicurezza e militanti del Federated Niger Delta Ijaw Communities. D’altra parte, un fatto drammaticamente significativo è (anche) che – secondo Amnesty International – in 47 paesi di tutto il mondo si registrano esecuzioni extragiudiziali; in 35 avvengono rapimenti politici; in 56 si trovano prigionieri di coscienza. Tra questi paesi, che ci piaccia o no, c’è anche Cuba; e i 74 arrestati dei giorni scorsi sono gli ultimi di un numero consistente di prigionieri politici (alcuni detenuti per il solo fatto di essere dichiaratamente omosessuali). Tutti sono accusati di “attività cospirativa”: avrebbero complottato contro il governo, col sostegno del capo della rappresentanza statunitense nell’isola, James Cason. Monsignor Adolfo Rodriguez, presidente dell’episcopato cattolico cubano (certo, non pregiudizialmente ostile al regime) ha denunciato l’arresto di persone “per il solo fatto che la pensano in maniera diversa dall’ideologia ufficiale”, nel corso di un discorso di condanna dell’intervento militare anglo-americano in Iraq. Un esempio di “cerchiobottismo” o la manifestazione della disperante complessità della situazione internazionale? Propendo per quest’ultima ipotesi. La tragedia estrema della guerra sollecita domande estreme, che non consentono poveri calcoli geo-politici, interessi di appartenenza, considerazioni opportunistiche; e che, soprattutto, non pemettono la riproposizione di quell’antico e pigro schema mentale, che – paranoicamente - mette in guardia dal “fare il gioco del nemico”. Per capirci: vent’anni fa, sostenere risolutamente il dissenso nei paesi dell’Est avrebbe significato “fare il gioco” della Dc in Italia; oggi, parlare di autoritarismo a proposito di Cuba significherebbe legittimare l’embargo americano. Bene, non è così: “i giochi” sono finiti. Completamente esauriti. Gli standard di rispetto dei diritti umani devono valere per gli Stati Uniti come per Cuba, per l’Iraq come per l’Italia, per i prigionieri di Guantanamo come per quelli americani, catturati dalle milizie irachene intorno a Bassora e a Baghdad. Questo significa azzerare tutto e annullare le differenze? Assolutamente no. Alcuni dei sistemi politici che abbiamo citato sono solide democrazie; altri sono regimi autoritari o dispotici. E, d’altra parte, la Cuba di Fidel Castro non è l’Iraq di Saddam Hussein. Ma questo non deve indurci alla reticenza o alla prudenza. Né deve consentire che prevalga la nostalgia di passate stagioni e di trascorsi amori per il “socialismo caraibico”. Anzi: per chi ha investito, poco o molto, in esso, la memoria di una speranza frustrata deve tradursi in maggiore rigore. Insomma, un po’ paradossalmente e un po’ no, dico che si deve essere più “esigenti” verso Castro che verso Saddam, icona di tutti gli orrori ed emblema di tutto ciò che ci è estraneo e nemico. E questo può essere motivo di ulteriore riflessione. Sebbene le accuse di “unilateralismo” provengano da chi non ha alcuna titolarità per muoverle, è indubbio che il movimento contro la guerra – per ragioni in parte comprensibili, comprensibilissime – ha finito col risultare, come dire?, “indulgente” verso Saddam. Attenzione: “ha finito col risultare”. Non mi riferisco, dunque, alla soggettività, individuale e collettiva, del movimento, ma al suo messaggio pubblico. E ciò anche in ragione di quanto finora detto: il movimento – ancora una volta, per motivi in parte comprensibili – si indirizza più agevolmente contro la guerra che in difesa dei diritti umani, ovunque (sì, ovunque) risultino violati. E allora, mentre è in corso una spietata azione militare e il giudizio su di essa resta incondizionatamente negativo, va posta con brutalità una domanda: siamo sicuri che ne ammazzi più la guerra che il dispotismo? La risposta è, a parole, semplicissima: ogni comparazione è indecente; tutti i morti hanno (devono avere) lo stesso peso; le stragi di corpi e le stragi di diritti si alimentano a vicenda. E questo ci impone – mentre protestiamo contro la guerra in Iraq – di chiedere conto al governo cubano di quei 74 dissidenti arrestati e di tutti gli altri detenuti politici dell’isola.


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