Tortura: sotto accusa medici e funzionari di polizia per il G8 di Genova
articolo - italia - - - L'Unità - - Diritti e Giustizia
[13/09/03] In piedi, gambe divaricate, braccia alzate contro il muro, sguardo rivolto alla parete, insulti e sputi. La caserma di Bolzaneto del VI Reparto Mobile della polizia, utilizzata nei giorni del G8 come carcere provvisorio, sembra essere diventato lo scantinato di una dittatura sudamericana. L’inchiesta della Procura di Genova la ricostruisce così quella caserma di una Genova trasformata in una Buenos Aires degli anni ‘70. Gli atti, le accuse dopo due anni di indagini serrate, parlano chiaro: 43 persone delle 73 indagate per quelle violenze hanno «torturato» i ragazzi fermati.
I reati loro contestati sono previsti dall’articolo 3 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali («Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamento inumani o degradanti» è appunto la configurazione del “divieto di tortura”) e dall’articolo 27 (comma 3) della nostra Costituzione, per cui «le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità».
Tra gli accusati il medico genovese Giacomo Toccafondi, responsabile del servizio sanitario della struttura, reo, secondo l’accusa, di aver sottoposto i detenuti a trattamenti «inumani» e «degradanti». Secondo quanto riferiscono i ragazzi, li insultava. Gli diceva «abile arruolato», «pronti per la gabbia». Lui, il medico che avrebbe dovuto solo sincerarsi della loro salute.
Con Toccafondi divide l’infamante accusa d’aver violato i diritti umani anche il responsabile (l’ufficiale più alto in grado presente a Bolzaneto in quelle ore), il vicequestore aggiunto Alessandro Perugini, all’epoca numero due della Digos di Genova, quello che una foto ritrae mentre sta per sferrare un calcio ad un manifestante di 15 anni che giace a terra in una strada di Genova, ed è per questo indagato in un altro processo.
«Erano stati obbligati a mantenere per lungo tempo posizioni umilianti inumane e disagevoli sia nelle celle, sia nel corridoio durante gli spostamenti e l’accompagnamento ai bagni». Li hanno chiamati «zecche comuniste», «bastardi comunisti», «bombaroli». Gli hanno urlato: «Te lo do io Che Guevara e Manu Chao», «popolo di Seattle fate schifo». Angelo, uno dei fermati, obbligato a firmare i verbali del proprio arresto, aveva ricevuto ordine di dire «Sono una merda, sono una merda, sono una merda». Lo scrivono i magistrati.
I ragazzi hanno ricevuto botte: Luca ha accusato lo stesso Perugini di lesioni personali. Oggi, poi, la destra si scandalizza. Diventa garantista quel tanto che serve a salvare gli agenti indagati e a condannare i ragazzi del G8 di Genova. Il sottosegretario Mantovano (An) dichiara: «A distanza di due anni le cifre e l’enfasi seguite alla conclusione delle indagini sembra, al di là delle intenzioni e in modo assolutamente oggettivo, ribaltare i ruoli: i 73 avvisi notificati ad appartenenti a forze di polizia, a fronte dei 23 notificati qualche mese fa ai presunti autori delle violenze e dei danneggiamenti, rischiano di identificare, ancora una volta e contro la realtà, gli aggressori nelle forze di polizia e gli aggrediti nei black bloc e negli anarchici insurrezionali». Perché, notoriamente, a Bolzaneto e nella scuola Diaz, c’erano gli «aggressori». Per gli agenti di polizia vale la presunzione di innocenza (seppure pendono sul loro capo accuse pesantissime), gli altri sono già stati giudicati (non si sa da chi) «aggressori». Eventuali provvedimenti nei confronti degli agenti indagati ci saranno «soltanto se verranno condannati», si affretta ad assicurare il ministro Castelli.
L’altro leghista, Calderoli, vice presidente del Senato, pur nutrendo «scarsa fiducia confronti di una certa magistratura» (già evidentemente giudicata), afferma invece che «i 73 avvisi non hanno tenuto conto che i fatti non si sono svolti in una qualsiasi tranquilla giornata ma in una città messa a ferro e fuoco da vere e proprie bande di terroristi». E, a parte che sia la caserma che la scuola erano luoghi in qualche misura «chiusi», che avrebbero dovuto tener lontano «la città messa a ferro e fuoco», non si possono domandare attenuanti come se a Genova, in quei giorni, vigesse una specie di «diritto di guerra», dove il limite del lecito si decideva di giorno in giorno, di scontro in scontro.
«Gli aggrediti sono le forze dell’ordine, gli aggressori i facinorosi estremisti del black o white bloc», dice La Russa. Solidarietà ai poliziotti in attesa di essere giudicati; nessuna considerazione per quei ragazzi che hanno denunciato gli abusi subiti, per la magistratura che ha aperto un’inchiesta durata due anni, per tutto il resto.
|