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A Brescia la Fiat che assume, in fabbrica pakistani e senegalesi

Khabir Khan: «Per noi è quasi un miracolo. L' affitto costa caro ma restano ancora dei soldi da mandare alla famiglia» Problemi con gli operai italiani? «Nessuno, ma i capireparto preferiscono gli stranieri perché lavorano zitti e rassegnati»

articolo - italia - - - Corriere della Sera - Francesco Battistini - Migranti

[27/11/02]

DAL NOSTRO INVIATO BRESCIA - Un miracolo così, nemmeno il beato Arcangelo Tadini... «Cos' è un miracolo?». Un miracolo è la Fiat che ti assume, Khabir, è La Feroce - come la chiamavano i vecchi metalmeccanici di Torino - che in quest' «annus horribil is» taglia i siciliani di Termini Imerese, rattoppa i ciociari di Cassino, fa due conti a Mirafiori e intanto a Brescia firma un accordo coi sindacati per assumere te e decine di bangladesi, di pakistani, di senegalesi. Animisti o musulmani, mica dev oti del don Tadini di Verolanuova, quello che portava in paradiso la classe operaia bresciana e alle tute blu, nelle prediche, prometteva «una scala altissima che salirà dalle cave di Botticino fino al cielo». Lo chiamiamo miracolo, Khabir? «Sì, io d ico che ho vinto un superenalotto». Li hanno assunti in un fiat. 112 a tempo indeterminato. Altri 143 a termine, un anno di contratto e la quasi certezza del rinnovo nel 2004. Duecentocinquantacinque in tutto. Extracomunitari, perlopiù. Erano tutti lavoratori interinali. Dal 7 gennaio si presenteranno all' Iveco di via Volturno, turno dell' alba, assegnazione magazzino o reparto bardatura. Avranno il loro bravo cartellino e la paga da mille euro al mese. Che non sarà molto per campare in una città come Brescia, 500 euro per l' affitto d' un monolocale, ma è già qualcosa se lo dite a chi, il 7 gennaio, i cancelli Fiat li guarderà da fuori, ed è comunque un tesoro da mandare alle famiglie di Dacca o di Peshawar. «Quando mi hanno detto che l' Iveco mi prendeva - racconta Khabir Khan, 24 anni, del Bangladesh -, ero così confuso che mi sono presentato senza libretto di lavoro. Proprio non ce l' avevo. Ho dovuto chiedere al sindacato, mi hanno aiutato a mettermi in regola in poche ore ». Il nuovo fiatizzato Khabir, reparto selleria, ha lasciato Chittagong «a un esame dalla laurea in ingegneria meccanica». Ha vissuto un po' a Milano, in viale Monza, poi a Roma. «Facevo l' aiuto cuoco, ma era troppo pesante, non mi piaceva. Un amico mi ha detto di venire a Brescia, perché qui c' è più lavoro. Ho dato il nome a un' agenzia interinale e dopo una settimana mi hanno chiamato. Il 27 agosto sono entrato in Iveco con un contratto a tempo. Non pensavo sarebbe diventato a tempo indeterm inato». Auto da Formula Uno, macchine agricole, camion: sono pochi i motori Fiat che filano. E sono pochi gli stabilimenti che assumono: c' è Suzzara nel Mantovano, c' è la New Holland di Jesi (che nelle Marche fa trattori ricercati come Ferrari e as sorbe decine di cassintegrati da Pomigliano), infine c' è l' Iveco che in quattro anni ha ridisegnato tutti i modelli in catalogo, s' è inventata il bisonte Stralis, ha bruciato la rivale Mercedes e per la terza volta in dieci anni ha vinto il premio «Truck of the year». A Brescia, la Fiat Iveco arrivò a metà anni Settanta, là dove si facevano i gloriosi camion dell' Om. Oggi ci sono 4.216 operai divisi in una decina di società, dalla Mac alla Comau, più seimila tute blu che lavorano all' indott o. E siccome il lavoro non è mancato nemmeno nell' ultimo nero lustro, la trasformazione della classe operaia (che era fatta di maschi bresciani over 40) qui s' è compiuta in tempi minimi: l' ondata dei giovani pugliesi, siciliani e calabresi nel ' 9 7, l' ingresso delle donne nel ' 98, l' ondata degli stranieri adesso. «Il lavoro è garantito per qualche anno - dicono i sindacati -, ma la situazione Fiat è così pesante che nessuno può stare tranquillo. Torino può decidere di venderci anche domani ». Khabir abita in zona stadio e divide uno stanzone con altri sette immigrati, 150 euro di posto-letto. Il suo prossimo cielo è in una stanza tutta sua. Il traguardo inseguito da gran parte degli amici neoassunti, da Moniruz Zaman che ha 22 anni e m eno garanzie perché dipende da una cooperativa satellite di stoccaggio, a Matiur Rahman che ha 31 anni, un master in economia e ora spera di portare dal Bangladesh anche la famiglia. «Qui la vita costa tantissimo - dice Khabir -. Un chilo di riso è i l doppio che in Bangladesh. Se pago l' affitto e mando 100-200 euro a casa, mi resta appena per mangiare e la sera trovarmi all' Arengario, sotto le Poste, a parlare seduti sulle panchine per non spendere altri soldi». I luoghi del dopolavoro coloure d sono quelli: il raduno domenicale al Carmine, la spesa da «Banglatown», le chiamate oltreoceaniche dagl' international calls. Molti, più degli italiani, si sono iscritti alle scuole serali della Regione. Di fidanzarsi, neanche parlarne: «L' unico c he ci è riuscito - ride Khabir - è il mio amico Islam Bablu, assunto alla catena di montaggio. "Bablu" vuol dire bimbo: è uno che ha le treccine rasta, dipinge, fa musica. Ha avuto fortuna, una bresciana che vive con lui». Chi lavora a Brescia si sen te meno straniero che nel resto d' Italia. Pure la Lega è meno demagogica, sul problema immigrati. E la solidarietà operaia è merce diffusa: negli anni delle guerre balcaniche, i cassintegrati bresciani si autotassavano per sostenere i colleghi jugos lavi che cercavano di tenere aperta la Zastava. Quest' infornata d' assunzioni extracomunitarie, così, pare non abbia scatenato gli xenofobi. Fino ad oggi, almeno: «No, il problema con gli operai italiani non s' è proprio posto - spiega Francesco Ber toli, delegato Fiom -, perché ormai siamo abituati a convivere con la manodopera extracomunitaria». Solo qualche mugugno, davanti ai cancelli di via Volturno: «Non ce l' abbiamo con questi poveretti - dice un operaio anziano di Manerbio che non dà no me -, però è sicuro che i capireparto preferiscono avere loro in fabbrica perché non piantano mai casino, lavorano zitti e rassegnati. Se c' è da fare lo straordinario non pagato, questi qui sono disposti a farselo anche la notte di Natale». A Khabir , il discorso non piace. «Questa fabbrica è una mano - dice - e noi siamo una delle dita. Se tagliano il mignolo stiamo male tutti quanti»: a marciare su piazza Navona, ieri, c' era anche lui. Francesco Battistini (1-continua)


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