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Infibulazione, il coraggio di riflettere

La questione è ardua e solleva complessi dilemmi etici e giuridici. Se la riduciamo a un quesito elementare (si deve fare o no?), la risposta diventa, forse, facile: ma i problemi che stanno sullo sfondo rimangono totalmente irrisolti. La notizia è questa. Il dottor Omar Abdulkadir, ginecologo somalo, direttore del Centro per la prevenzione e cura delle mutilazioni genitali femminili dell’ospedale Careggi di Firenze, ha chiesto l’autorizzazione per realizzare, all’interno di un reparto, una sorta di “medicalizzazione” incruenta di quella pratica.

articolo - italia - - - L'Unità - Luigi Manconi - Migranti

[27/01/04] La questione è ardua e solleva complessi dilemmi etici e giuridici. Se la riduciamo a un quesito elementare (si deve fare o no?), la risposta diventa, forse, facile: ma i problemi che stanno sullo sfondo rimangono totalmente irrisolti. La notizia è questa. Il dottor Omar Abdulkadir, ginecologo somalo, direttore del Centro per la prevenzione e cura delle mutilazioni genitali femminili dell’ospedale Careggi di Firenze, ha chiesto l’autorizzazione per realizzare, all’interno di un reparto, una sorta di “medicalizzazione” incruenta di quella pratica. Ovvero – secondo le parole dello stesso medico – “una piccola puntura di spillo sulla clitoride delle bambine: dopo aver spalmato una pomata anestetica, si fa uscire una goccia di sangue. Il rituale è salvo, ma senza sofferenze e danni”. Dicevo, se la domanda fosse: si deve fare o no?, la risposta potrebbe essere semplice. La mia sarebbe, probabilmente, negativa, ma ne sarei - comunque - insoddisfatto. In gioco, infatti, non c’è la vittoria di una “posizione” su un’altra. Per la verità, in gioco non c’è alcuna vittoria. C’è, piuttosto, uno dei passaggi più aggrovigliati e faticosi della convivenza nelle società contemporanee, dove si incontrano non solo etnie e culture diverse, ma anche sistemi di valori e codici morali non omogenei. O meglio: in conflitto. Non c’è dubbio, infatti, che le mutilazioni sessuali femminili sono una pratica crudele e – come si legge in una dichiarazione congiunta dell’Organizzazione mondiale della sanità, del Fondo delle Nazioni Unite per l’infanzia e del Fondo delle Nazioni Unite per la popolazione (1997) – costituiscono una “violazione dei diritti umani fondamentali, quali il diritto a ottenere il più alto livello possibile di salute fisica e mentale e il diritto alla sicurezza della persona”. Il giudizio su queste pratiche è, dunque, inappellabile: e nessuna considerazione di ordine antropologico o sociale può attenuarne la condanna morale. Insomma, non esiste possibilità alcuna che una qualunque forma di relativismo culturale o di relativismo etico giustifichi quello che è, e resta, un crimine sotto qualsiasi latitudine. D’altra parte, le mutilazioni genitali (dalla clitoridectomia alla infibulazione) riguardano oggi, nel mondo, circa 130 milioni di donne e vengono praticate in decine di paesi: in quelli della fascia centrale del continente africano, ma anche nell’Oman e nello Yemen e in alcune zone dell’Indonesia e della Malesia. Contrariamente a quanto molti credono e a quanto molti – ahinoi – scrivono, le mutilazioni genitali non sono affatto una “tradizione religiosa”: e, tanto per essere chiari, non c’entrano nulla con l’Islam e il Corano. La loro origine è pre-islamica e pre-cristiana, e viene motivata e perpetuata con argomentazioni mitico-culturali, prive di alcuna base scientifica. Se tutto questo è vero (ed è inconfutabilmente vero), come si spiega che il dottor Omar Abdulkadir abbia proposto la “medicalizzazione” di quella usanza? Proprio lui, che ha dedicato tutta intera la sua attività di medico alla cura dei danni provocati da quel rito e alla ricostruzione dei genitali femminili? Il dottor Abdulkadir parla chiaro: “se qualcuno vedesse, come noi, 500 donne mutilate all’anno, capirebbe che il rito alternativo, incruento, è la strada da percorrere”. Ma anche il rischio è evidente: e lo argomenta bene l’Aidos, una intelligente associazione italiana, che opera nel nostro paese e in Africa: “Si, la pratica proposta è diversa, ma accogliendola si legittima comunque una manipolazione dei genitali”. Come si vede, siamo in presenza di quella che i filosofi del diritto chiamano una “scelta tragica”. Una scelta tra due beni, entrambi degni di tutela: l’integrità del corpo femminile e l’obiettivo, anch’esso eticamente fondato, di perseguire il “male minore” e di “ridurre i danni”. Per un verso, quel “rito alternativo” sarebbe così poco invasivo da non costituire un vero e proprio intervento sanitario (come non lo è, ad esempio, il piercing): e rispondere, così, all’esigenza del ginecologo somalo: “Dirsi contrari all’infibulazione non basta: molti non accettano il significato negativo che viene dato a quello che per loro è il massimo bene per le figlie”. Per altro verso, la battaglia culturale contro le mutilazioni - condotta negli ultimi decenni dai movimenti femminili di numerosi paesi africani – rischia di venir compromessa dall’attenuazione del rifiuto morale nei confronti delle stesse: cosa che la possibile “medicalizzazione” sembra comportare (e proprio perché “si legittima comunque una manipolazione dei genitali”). Il “vantaggio sociale” che potrebbe risultarne (ovvero la riduzione della sofferenza: e di infezioni, emorragie, disfunzioni sessuali, sterilità …) è in grado di “compensare” l’arretramento simbolico-ideologico che, pressoché inevitabilmente, ne consegue? In termini più generali, la questione è altrettanto ardua. La convivenza tra etnie, culture e stili di vita diversi è possibile quando si ha in comune un "pacchetto" di valori accettati da tutti. Si tratta, evidentemente, di valori primari e irrinunciabili. E stabilire quali sono quelli davvero primari e davvero irrinunciabili, è esattamente il cuore della questione della convivenza: e il motivo essenziale dei suoi molti travagli e dei suoi molti conflitti. Consideriamo, allora, una vicenda giudiziaria di oltre quindici anni fa. Nel 1987, Lehsen Bouzid, marocchino, operaio di un'azienda metalmeccanica di Anzola Emilia, fa giungere in Italia - in virtù del "ricongiungimento familiare", previsto dalla legge - le sue due mogli, dalle quali ha avuto numerosi figli. Il ministero degli Interni respinge la domanda di "permesso di soggiorno per motivi di famiglia", ma le due donne ricorrono al Tribunale amministrativo regionale dell'Emilia Romagna, che consente loro di risiedere in Italia, in considerazione della "gravità e irreparabilità sotto l'aspetto sociale, economico e familiare" del caso considerato. L'avvocato Nazzarena Zorzella, nel ricorso presentato per conto delle due mogli di Lehsen Bouzid, aveva precisato che "non si chiede allo Stato italiano […] un riconoscimento formale e giuridico della condizione familiare delle ricorrenti, bensì semplicemente [……] una non discriminazione". Ciò in virtù degli articoli della Costituzione italiana che tutelano "le confessioni religiose diverse dalla cattolica" e le forme di relazione e le strutture giuridiche che ne conseguono. In sostanza, l'ordinanza del Tar ha affermato la prevalenza del valore dell'unità del nucleo familiare rispetto alla norma penale italiana che vieta la bigamia. Ma quel provvedimento, mentre risolve un problema, ne apre di nuovi. Ovvero: come conciliare l'accettazione dell'altro, dell'altrui tradizione e delle altrui forme di relazione (ad esempio, la forma coniugale poligamica) con l'esigenza di non offuscare, anche dal punto di vista simbolico, un valore - quello della parità tra uomo e donna - che la nostra società riconosce; e che presuppone come "universale" nell'ambito del proprio unico territorio e del proprio unico sistema giuridico? Insomma, la poligamia - in quanto negazione del principio di parità tra uomo e donna - non richiama esclusivamente una differenza culturale. Essa mette in discussione un valore prioritario, frutto di un lungo percorso di emancipazione, che, certo, non può essere imposto coattivamente ad altre comunità e ad altre tradizioni, ma a cui neppure si può rinunciare in nome del pluralismo. La mia opinione è che, consentendo il "ricongiungimento familiare" di due mogli, la legge si è limitata ad ammettere uno stato di necessità (la "irreparabilità sotto l'aspetto sociale, economico e familiare", secondo quel Tar): e, dunque, ha operato per ridurre gli effetti dirompenti, rispetto all'unità di quella famiglia anomala, che il mancato "ricongiungimento" avrebbe prodotto. Ma è certo che si tratta di questioni delicatissime. Il crinale tra accettazione e "legalizzazione" delle situazioni di fatto e riconoscimento giuridico e ideologico di valori altri, che ripugnano alla nostra coscienza, è sottilissimo. Quando quei valori altri si esprimono attraverso stili di vita semplicemente diversi dai nostri (consuetudini, riti religiosi, alimentazione), accettarli è un segno di maturità, e di forza, delle democrazie. Ma quei valori altri possono tradursi anche – come si è visto - in pratiche quali le mutilazioni sessuali. E, allora, il rigetto dev’essere incondizionato. Una mediazione che offuscasse – sotto il profilo simbolico, e non solo – il rifiuto delle mutilazioni sessuali, potrebbe risultare un rimedio peggiore del male. In ogni caso – e mi sembra un punto non secondario - le parole del dottor Abdulkadir vanno ascoltate con attenzione: magari per rifiutarle; ma non dimentichiamo che, mentre noi discutiamo, più o meno elegantemente, di categorie etico-giuridiche, le sue mani conoscono – anche letteralmente – il dolore del mondo: e la sua irrisolvibilità.


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