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Qualcosa di sinistra su Cuba
Ma quale relazione corre tra dirsi di sinistra, militare a sinistra, “fare cose” che sono (o si vogliono) di sinistra e definire “errori veniali” le condanna a pene tra i 18 e i 30 anni, inflitte da una tribunale di Cuba a un’ottantina di dissidenti?
articolo - - - - L'Unità - Luigi Manconi - Diritti e Giustizia
[16/04/03] Ma quale relazione corre tra dirsi di sinistra, militare a sinistra, “fare cose” che sono (o si vogliono) di sinistra e definire “errori veniali” le condanna a pene tra i 18 e i 30 anni, inflitte da una tribunale di Cuba a un’ottantina di dissidenti? E la pena di morte per i tre giovani che hanno tentato di dirottare un vaporetto per fuggire dall’isola, ha qualcosa a che fare – anche solo lontanamente, anche nella maniera più sottile o più contorta - con l’idea di una società più libera e più giusta?
Una risposta incondizionatamente negativa parrebbe ovvia, ma così non è a sinistra: e nella nostra sinistra. A definire “errori veniali” le condanne inflitte ai dissidenti cubani, è stato Marco Rizzo dei Comunisti italiani: e il seguito delle sue risposte a un giornalista del “Corriere della Sera” è stato, se possibile, ancora più autolesionista. Alla domanda su quali sistemi politici e sociali preferisca, Rizzo risponde: “Da parlamentare potrei permettermi di dire Usa, se fossi operaio sceglierei Cuba”.
Quest’ultima frase può essere letta e riletta, pesata e soppesata, ma il suo significato resta, ahinoi, inequivocabile. Un operaio dovrebbe scegliere Cuba perché, come ha detto appena prima lo stesso Rizzo, “nell’America Latina è l’unica a garantire giustizia e libertà”: e “giustizia e libertà” – per un operaio – corrispondono a un posto di lavoro e a un salario. Ammesso e non concesso che a Cuba gli operai dispongano di un lavoro e di un salario, perché mai quegli stessi operai se ne dovrebbero accontentare? Forse che le libertà politiche, i diritti civili, le garanzie democratiche non sono “roba da operai”? Qui, sia chiaro, non è in discussione la buona fede di Rizzo, ma quella frase rivela - al di là delle intenzioni - un autentico disprezzo per la classe operaia: e tradisce una vera e propria catastrofe ideologica, un disastro intellettuale, una rovina politica . Com’è possibile tutto ciò?
Com’è possibile che, nel medesimo schieramento, si ritrovino chi considera un “errore veniale” la condanna a venticinque anni di Héctor Palacios, uno dei promotori del “progetto Varala” (la prima iniziativa per un cambiamento pacifico del regime), e chi invece considera un’atrocità quella stessa condanna?
Molte le ragioni di una contraddizione così acuta. La prima rimanda a quella interpretazione “leninista” della lotta per il socialismo, che ancora condiziona i comportamenti e gli schemi mentali – e la stessa “concezione del mondo” - di una parte della sinistra. Quella interpretazione prevede una lunga fase di passaggio dal capitalismo al socialismo, attraverso il controllo dei mezzi di produzione, la socializzazione delle forze produttive, la dittatura del proletariato. E’ ovvio che, oggi, nessuno (o quasi) riproponga in questi termini e con questo linguaggio una strategia rivelatasi fallimentare e luttuosa: ma ne resta – eccome - l’eco, alcuni riflessi condizionati, numerosi tic ideologici, molte tracce semantiche e un’infinità di detriti culturali. E resta, soprattutto, una impostazione dove domina la figura del “nemico principale” (va da sé: gli Stati Uniti): e dove le posizioni della sinistra vengono misurate sul metro della distanza da quel nemico e dell’intensità del rapporto di ostilità oppure di alleanza nei suoi confronti. Insomma, siamo sempre al vetusto e logoro assioma de “il nemico del mio nemico è mio amico”. Un paradigma su cui si fonda un’intera ideologia della belligeranza e della guerra e i cui esiti disastrosi per la politica sono noti da tempo: e non è necessario rifarsi al “patto Stalin-Ribbentrop” per ricordare quanto lo siano stati, in particolare, per la politica di sinistra e delle sinistre.
In questa logica residuale, è facile che Cuba assuma l’identità di Davide che resiste a Golia, e che questo ruolo “combattente” costituisca la spiegazione-giustificazione (“errori veniali”) non solo dei ritardi e delle lentezze, ma anche degli arbitrii e degli abusi, delle iniquità e dei misfatti, della pena di morte e della negazione della libertà. In ultima analisi, di un regime dispotico. Ma che cosa impedisce a una parte della sinistra di “vedere” quel regime? Qui interviene una seconda ragione dell’atteggiamento di subalternità verso il castrismo. Ovvero la sottovalutazione grave – se non l’ostilità – nei confronti delle libertà civili. Non va dimenticato che, all’interno della sinistra, è tuttora maggioritaria l’idea della contrapposizione - fino all’inconciliabilità – tra diritti sociali e diritti individuali, tra garanzie della collettività e garanzie della persona, tra tutela della comunità e tutela dell’individuo. Solo questo può spiegare come mai non si ritenga, da parte di alcuni (che, magari, hanno partecipato al Gay Pride di Roma), motivo sufficiente per una critica radicale il fatto che, a Cuba, vi siano omosessuali detenuti in quanto omosessuali: per aver affermato, cioè, il diritto alla piena autonomia nella sfera delle scelte sessuali.
Anche in tal caso, pesa il retaggio – mai definitivamente abbandonato - di una idea dei diritti civili come secondari e successivi: ovvero gerarchicamente e cronologicamente inferiori rispetto ai diritti sociali. Una sorta di lusso – le “libertà borghesi”, appunto – che può stare a cuore solo ai privilegiati (non certo agli operai, che è gente concreta, signora mia) e che può essere rinviato a tempi migliori. Ma la radice del totalitarismo, e lo dovremmo sapere bene, risiede proprio in quella teoria dei “due tempi”.
Non solo: si dimentica che la rivoluzione cubana risale al 1959 e che, dunque, la “stabilizzazione” sarebbe dovuta avvenire ormai da qualche decennio; e si dimentica, ancora, che il regime di Fidel Castro ha assunto i tratti di un dispotismo plebiscitario-familistico. Questo significa, forse, dimenticare le gigantesche difficoltà in cui si trovano quel paese e la sua economia? O sottovalutare il peso dell’embargo statunitense e della solitudine di Cuba nel continente e nel mondo? Assolutamente no. Ma proprio tale consapevolezza dovrebbe indurre a scelte diametralmente opposte: la penuria, il sottosviluppo, l’arretratezza economica non possono essere adeguatamente affrontati da regimi illiberali. La storia di interi continenti, nel corso del ‘900, lo dimostra in maniera inequivocabile. Non solo: la globalizzazione (e la “globalizzazione dei diritti”) significa, tra l’altro, che le aspettative degli individui - in Italia e negli Stati Uniti, ma anche a Cuba – si sono ampliate e arricchite e riguardano, insieme, bisogni materiali e bisogni immateriali, benessere economico e diritti politici, sovranità su di sé e sul proprio corpo e interessi condivisi, autonomia della persona e pari opportunità, libertà di espressione e sicurezza materiale.
Si dirà: ma anche nel centrodestra si manifestano simpatie per Fidel Castro e il governo Berlusconi intensifica, proprio in queste settimane, le relazioni con quel regime. E allora? Che cosa c’entro io con il sottosegretario agli Esteri Mario Baccini (Udc)? Certo, non c’entro molto nemmeno con il grande scrittore José Saramago, che – continuando a definirsi comunista – ha pronunciato le seguenti e preziose parole: “Io arrivo fin qui. D’ora in avanti Cuba andrà per la sua strada, io mi fermo qui. Dissentire è un atto di coscienza irrinunciabile. (…) Cuba non ha vinto nessuna battaglia eroica fucilando questi tre uomini, però ha perso la mia fiducia, ha distrutto le mie speranze, ha defraudato le mie illusioni. Io mi fermo qui”.
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