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L’agonia della speranza
L’8 ottobre 2004, all'ospedale di Pordenone, dopo oltre trent'anni di coma, moriva Maria Laura Mion. Nel 1971, quando fu investita da un'auto, aveva solo tre anni. Il trauma cranico provocatole apparve immediatamente irreversibile: e così sopravvisse - fino a pochi mesi fa - attaccata ad una macchina e assistita dalle cure dei genitori. Le terapie a cui è stata sottoposta, lungo l'intero arco della sua vita, non hanno dato mai alcun risultato positivo, tanto da affidare solo a un “miracolo” le possibilità di un risveglio da quel lunghissimo e doloroso sonno. Qualche mese fa le sue condizioni si sono aggravate: da qui il trasferimento all'ospedale e, dopo qualche tempo, la morte.
articolo - italia - - - L'Unità - Andrea Boraschi, Luigi Manconi - A buon diritto - Promemoria per la sinistra
[10/02/05] L’8 ottobre 2004, all'ospedale di Pordenone, dopo oltre trent'anni di coma, moriva Maria Laura Mion. Nel 1971, quando fu investita da un'auto, aveva solo tre anni. Il trauma cranico provocatole apparve immediatamente irreversibile: e così sopravvisse - fino a pochi mesi fa - attaccata ad una macchina e assistita dalle cure dei genitori. Le terapie a cui è stata sottoposta, lungo l'intero arco della sua vita, non hanno dato mai alcun risultato positivo, tanto da affidare solo a un “miracolo” le possibilità di un risveglio da quel lunghissimo e doloroso sonno. Qualche mese fa le sue condizioni si sono aggravate: da qui il trasferimento all'ospedale e, dopo qualche tempo, la morte.
È una storia talmente eccezionale, seppure non rara, questa, da rendere difficile qualunque commento. E da lasciare sospesi molti interrogativi di non facile soluzione. Ci si può chiedere, ad esempio, che cosa sarebbe stato della vita di quella donna se mai avesse avuto a riprendersi, dopo trent'anni di assoluta mancanza di coscienza e volontà, esperienza e capacità di relazione; ma ancor più ci si deve chiedere quanto e quale dolore abbia provato nel suo lungo coma. Non siamo scienziati, ma sappiamo che la scienza offre risposte contraddittorie, provvisorie e, in ogni caso, non rassicuranti. E non si tratta di quesiti accademici, dal momento che riguardano la sofferenza di chi non ha voce.
A tal punto quel flusso di dolore è taciuto anche da chi potrebbe “dirlo” che si parla di più dei pochi, pochissimi “miracoli” che pure accadono in situazioni di questo genere, di quanto si faccia a proposito della lunga o lunghissima agonia di chi, dopo un coma di decenni, muore. Certo, in questo “strabismo” giornalistico, c'è, per un verso, la comprensibile enfasi sulla notizia come evento eccezionale; e, per altro verso, la soddisfazione di raccontare storie “a lieto fine”: e l'idea-speranza che l'amore, la tenacia, l'attaccamento alla vita possano riscattare il dolore e battere la morte oltre ogni ragionevole diagnosi e aspettativa. Vi è, infine, il racconto di quanti sono tornati da un coma profondo e sono felici di ritrovare questa vita e questo mondo. E così accade che il resoconto dell'eccezionalità di casi simili, per reticenza o deontologia, pudore o insensibilità, trascura di includere la “normalità”: ovvero il più frequente (e tragicamente scontato) svolgersi degli eventi: storie come quelle di Maria Laura, in cui chi è destinato alla morte, infine, soccombe.
Sono numerose le persone che si trovano, oggi, nella condizione in cui quella giovane donna veneta si trovava sino a pochi mesi fa. Per molte di loro, ce lo dicono la medicina e la statistica, non vi sarà alcun “ritorno alla vita”. Per molte tra esse, la volontà di cura assume, da subito, tutti gli elementi di quello che viene definito - innanzitutto dal codice deontologico dei medici - “accanimento terapeutico”: un inutile prolungamento della malattia e della sofferenza, un ostinato (e amoroso quanto irragionevole) tentativo di prolungare la vita o, addirittura, di renderla “artificiale”. Parliamo qui dei casi più evidenti: ma le forme e i modi dell'accanimento terapeutico sono molti, riguardano uno spettro di di fattispecie ben più ampio di quello evocato, “minacciano” la vita e la morte di molti individui. La deontologia medica si esprime chiaramente contro ogni ostinazione alla cura: dunque, contro ogni intervento sul paziente che non appaia efficacemente “terapeutico”, capace di curare la malattia o lenire il dolore. Pure, il confine tra cura doverosa e accanimento è sottile e scivoloso, sfugge facilmente alle regole del medico e alla possibilità di controllo del paziente. Lo si dice, ed è vero: la speranza è l'ultima a morire (ed è bene che così sia); ma nella lunga agonia della speranza, quella che soccombe prima, talvolta, è proprio la ragione. Succede in quei casi, tutt'altro che rari, in cui la medicina smarrisce le sue ragioni e la sua missione, espropria il paziente del diritto a una morte dignitosa e naturale per costringerlo ad una vita dolorosa e artificiale. La deontologia medica non è stata la sola, sin qui, a esprimersi chiaramente, almeno sulla carta. Anche la pastorale della Chiesa condanna apertamente, e da tempo, l'ostinazione terapeutica e, proprio nei giorni scorsi, ha compiuto un ulteriore passo avanti, approvando il Testamento biologico. Ovvero quell'istituto che garantisce al cittadino la possibilità di decidere preventivamente, in piena coscienza e autonomia di giudizio, quale potrà essere il trattamento medico da subire, o non subire, in casi quali quelli ricordati e in altri ancora. Il Testamento biologico è una dichiarazione anticipata di volontà, attraverso il quale formulare indicazioni precise per rifiutare o accettare talune terapie e per indicare un fiduciario che possa, in caso di perdita di coscienza, decidere per il bene del paziente che non è in grado di decidere. “Il giudizio complessivo sul testamento di vita è positivo sotto l'aspetto giuridico-logico ed è anche apprezzabile nel contenuto etico-religioso - ha affermato il cardinale Francesco Pompedda, autorevole giurista vaticano e decano della Sacra Rota - e mi pare che coincida pienamente con il catechismo della Chiesa cattolica e che sia confacente con la dottrina della Chiesa”.
Secondo Pompedda, “questo testamento di vita in previsione dell'incapacità del soggetto a decidere, ci dice che esso deve servire per determinare la volontà del paziente in caso di sua malattia e anche in caso di morte. Questo - ha precisato - corrisponde a un principio fondamentale di ogni diritto umano, cioè che ogni individuo deve poter autodeterminarsi per il trattamento sanitario da subire”. Il cardinale ha sottolineato, inoltre, che “la possibilità di disporre del trattamento sanitario che uno presceglie deve essere alla portata di tutti”. Ben detto.
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