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I fantasmi di Portopalo
La più grande tragedia marittima accaduta nel Mediterraneo, dal dopoguerra a oggi, è cosa di cui quasi nessun mezzo di informazione ha trovato modo di occuparsi. Perché è stata “scoperta” troppo tardi; perché non c'era modo di inviare qualche corrispondente o qualche troupe sul luogo della sciagura, almeno non in tempo utile per riprendere un relitto, una salma, per intervistare chi ha tentato di portare soccorso, per dare conto del rammarico delle autorità accorse sul luogo. Non si poteva offrire, in tempo pressoché reale, la rappresentazione dell'emergenza e del dolore che segna molti destini umani.
articolo - italia - - - L'Unità - Andrea Boraschi, Luigi Manconi - A buon diritto - Promemoria per la sinistra
[08/11/04] La più grande tragedia marittima accaduta nel Mediterraneo, dal dopoguerra a oggi, è cosa di cui quasi nessun mezzo di informazione ha trovato modo di occuparsi. Perché è stata “scoperta” troppo tardi; perché non c'era modo di inviare qualche corrispondente o qualche troupe sul luogo della sciagura, almeno non in tempo utile per riprendere un relitto, una salma, per intervistare chi ha tentato di portare soccorso, per dare conto del rammarico delle autorità accorse sul luogo. Non si poteva offrire, in tempo pressoché reale, la rappresentazione dell'emergenza e del dolore che segna molti destini umani.
Questa tragedia si è verificata il 26 dicembre del 1996, a diciannove miglia da Capo Passero, in Sicilia. Duecentottantatre migranti indiani, pakistani e cingalesi persero la vita affogando nelle acque in tempesta, o rimanendo imprigionati nel barcone che li avrebbe dovuti traghettare fino a riva e che oggi giace a centootto metri di profondità. Le immagini rese da una perlustrazione del Rov (Remotely operated vehicle, una sfera di plexiglass subacquea telecomandata e dotata di telecamera) raccontano di un desolato cimitero su un fondale sabbioso, cosparso di scarpe da ginnastica, sari, giacche e ossa.
A quel naufragio qualcuno sopravvisse: uno sparuto numero di “clandestini” fu arrestato in Grecia e raccontò subito della tragedia. E molti familiari e amici, che attendevano gli scomparsi in occidente, per mesi tentarono di far giungere a qualcuno il loro grido d'allarme. Nel maggio del '97 il nostro ministero degli esteri, rivolgendosi alle autorità pakistane che chiedevano chiarimenti, parlava ancora di “presunto naufragio”.
Così quell'incidente nel canale di Sicilia fu da principio un temuto allarme, poi una leggenda; infine, improvvisamente, divenne una certezza imbarazzante.
I protagonisti di questa storia sono molti. Le centinaia di vittime del naufragio; le autorità locali e le istituzioni, che non fecero abbastanza per verificare la loro effettiva sorte; e quanti questa sorte tentarono di nasconderla, riuscendovi, per lungo tempo.
Per mesi i pescatori di Portopalo - si dice - avevano issato con le loro reti cadaveri e resti di corpi umani; e per mesi avevano ributtato tutto in mare, per non dover rendere conto di quella macabra pesca e perdere giorni di lavoro tra verbali, interrogatori e burocrazia. O per non far interdire alla loro attività, chissà per quanto tempo, l'area dove era avvenuto il naufragio. Per anni quella pesca è rimasto il segreto degli abitanti di Portopalo: tutti sapevano, se non altro per evitare un tratto di mare dove il relitto rischiava di distruggere le reti a strascico.
Nel 2001 qualcuno, infine, decise di parlare. I resti di Anpalagan Ganeshu furono travolti dal divaricatore di una rete, un quintale di legno e ferro. La sua carta d'identità plastificata resistette a quest'ultima offesa; un pescatore, uno dei molti custodi del segreto di Capo Passero, decise insolitamente di non ributtarla in acqua. Da allora (solo da allora) si è avuta la certezza che lì, in quel tratto di mare, giacevano i cadaveri di Anpalagan e dei suoi compagni di viaggio.
Su questa storia Giovanni Maria Bellu, inviato de “la Repubblica”, ha scritto articoli importanti e coraggiosi. Ora è uscito un suo libro, “I fantasmi di Portopalo”, che merita di essere letto. Lui, e pochi altri (ricordiamo Livio Quagliata e Enrico Deaglio), hanno recuperato dall'oblio un fatto che non era divenuto notizia.
Il libro e gli articoli di Bellu sono una testimonianza interessante, e non solo perché raccontano un pezzo di verità altrimenti negletta. Essi sono la riprova che le tragedie dell'immigrazione via mare possono essere sottratte a quel modo giornalistico, fatto di stilemi e precise regole narrative, che trasforma le notizie in dati di fatto rispetto ai quale il lettore (o lo spettatore) non ha alcuna possibilità d'intervento, neppure remota; e non è chiamato a schierarsi, né sono interpellate le sue inclinazioni o le sue convinzioni. Le stragi del sabato sera, per intenderci, sono un buon esempio di quei formati giornalistici cui ci riferiamo. Trascinano con loro un logoro richiamo alla prudenza; offrono a un telegiornale l'occasione per inviare le sue telecamere in provincia, ad assistere ai funerali di qualche giovane vittima e al dolore di familiari e amici. Ma le immagini di quelle lamiere sulle nostre strade non comunicano più nulla, se non paura e ineluttabilità. Più spesso assuefazione.
La costruzione giornalistica, evidentemente, non è mai neutra: non solo per i toni che impiega, per il “colore” della narrazione, per la matrice politica che la ispira. Il punto è, piuttosto, l'oggetto che inquadra; e cosa resta, fatalmente, fuori dall'inquadratura. Come per gli incidenti stradali pochi o nessuno raccontano delle strategie produttive dell'industria automobilistica in materia di sicurezza, della relazione che intercorre tra questa industria e gli investimenti pubblici nel comparto della mobilità, delle politiche in materia di sicurezza stradale, così per gli incidenti che da anni si ripetono nel Mediterraneo, per i naufragi dei “clandestini” che tentano di arrivare sulle nostre coste, nessuno (o quasi) tenta di fornire un quadro sufficientemente ampio da rendere il problema nella sua complessità. Le tragedie dell'immigrazione via mare sono divenute, da un punto di vista mediatico, qualcosa di molto simile alle tragedie della strada: un preciso sottogenere giornalistico, in cui anche lo sdegno e l'orrore più sinceri rischiano di divenire cliché. E producono, in ultima analisi, quello stesso senso si impotenza e di angoscia che evocavamo: quasi fossero, anch'esse, ineluttabili. Ma tali non sono. E la tentazione, a questo punto, di esporre una semplice equazione è irresistibile: se è vero che nessun naufragio ha dei mandanti o dei responsabili diretti che non siano i trafficanti di vite umane, è anche vero che più l'immigrazione irregolare viene contrastata e più questa, paradossalmente, diviene una pratica clandestina e rischiosa. Spesso mortale.
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