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Taci, il telefono ti ascolta

articolo - italia - - - L'Unità - Luigi Manconi - A buon diritto - Promemoria per la sinistra

[29/01/03]

La vicenda di Fabio Visca, il conduttore radiofonico “spiato” dal suo stesso computer, è solo l’ultimo episodio di una complessa e inquietante situazione che possiamo classificare come “sorveglianza hi-tech”. E’ stato preceduto, tale episodio, dall’accoglienza, un po’ incuriosità e un po’ preoccupata, riservata agli spot televisivi destinati a promuovere la commercializzazione del videotelefono fisso e del cellulare-che-fotografa (videotelefonino).
Intanto va detto che, a suggerire qualche interrogativo sulle Meraviglie della Scienza e della Tecnica, basterebbe ricordare che i videotelefoni – o come diavolo si chiamano – già comparivano nei fumetti di Flash Gordon oltre 60 anni fa (e, più di recente, in Star Trek, a partire dal 1966); e, dunque, si potrebbe dire: ce ne avete messo di tempo, a raggiungere il geniale disegnatore di Flash Gordon, Alex Raymond. E, come se non bastasse, Franco Carlini, sul “Manifesto”, ha ricordato che nel 1964 “il colosso telefonico americano AT&T propose al mercato un videotelefonino; si chiamava PicturePhone e grazie a un piccolo monitor, incorporato nell’apparecchio di casa o di ufficio, si poteva vedere la faccia dell’interlocutore lontano, e viceversa. Si rivelò un flop clamoroso”.
Ma quello che può fare la differenza è, evidentemente, la diffusione di massa, di questo o quel prodotto tecnologico, e i suoi effetti sociali. Ovvero i mutamenti che produce nella vita di relazione e, in ultima analisi, la minore o maggiore quota di libertà che contribuisce ad assegnare a ciascuno di noi e alle nostre relazioni sociali. Questo è il punto dolente: e solo ora, in Italia, iniziamo a coglierlo. Altrove è maggiore la sensibilità collettiva su temi di tale portata: e dove lo sviluppo dei mezzi di comunicazione e, conseguentemente, di controllo elettronico è più diffuso, crescono l’allarme e la mobilitazione. Negli Stati Uniti e in altri paesi, a mezzogiorno della vigilia di Natale, uomini e donne con il volto coperto hanno rivolto gli obiettivi di macchine fotografiche e telecamere verso gli occhi elettronici (pubblici e privati) che, da tutti gli angoli di tutte le città, quotidianamente ci spiano (negli uffici pubblici e nei centri commerciali, nelle banche e nei condomini, nelle strade e nei musei…). E così, per una volta, le spie sono state spiate, i controllori controllati, i sorveglianti sorvegliati. Solo un gesto simbolico, sia chiaro, e assai esile: e, tuttavia, un primo atto di resistenza, che segnala un problema gigantesco e allude alla possibilità di vigilare “dal basso” su chi ci controlla “dall’alto” (laddove, appunto, sono posizionate le videocamere). Ed è stata l’occasione per comunicare a chi non ne è consapevole (la grande maggioranza dei cittadini) quanto estesa e penetrante sia la rete di sorveglianza dei nostri movimenti: e come quella rete ci avvolga pervasivamente, ci frughi addosso, condizioni i nostri gesti, limiti – in ultima istanza – la nostra autonomia.
Questo sistema di controllo – secondo una valutazione del Garante per la privacy – poteva contare, qualche anno fa, su oltre un milione di videocamere in tutto il territorio nazionale. Oggi, probabilmente, la cifra è raddoppiata. E a questo apparato “pesante”, si aggiunge ora – ecco la novità – il sistema diffuso e parcellizzato degli apparecchi telefonici individuali e mobili, che consentono di farsi riprendere con la propria microcamera, di trasmettere la propria immagine all’interlocutore e di ricevere la sua.
Le conseguenze di tutto ciò potrebbero essere rilevanti: e su molti piani. Su quello culturale e delle relazioni sociali, in primo luogo. La comunicazione umana non sempre è (non sempre vuole essere) diretta ed esplicita. Al contrario: la comunicazione vive di allusioni e omissioni, di silenzi e dissimulazioni. L’inarrestabile diffusione del telefono, in tutte le sue varianti, si deve anche a questo. Non solo permette di comunicare: permette anche di NON comunicare. Ovvero di comunicare attraverso solo una parte di sé (la voce) e non attraverso un’altra parte (il volto, l’espressione, la mimica). Se questo è vero, il videotelefono può costituire un arricchimento della comunicazione - il ricorso a una gamma più ampia di registri – ma anche un limite: la caduta di difese, la sottrazione di spazi, l’imposizione di visibilità. Questo potrebbe produrre più, e non meno, impacci nella comunicazione; più, e non meno, rigidità; più, e non meno, obblighi e vincoli.
Non solo. L’idea di una costante reperibilità e di una permanente esposizione è una sindrome nevrotica: il segno di una socialità invadente e onnipotente, che non moltiplica e diversifica le esperienze e le conoscenze, ma rischia di impoverirle e banalizzarle. E sembra proprio questo il connotato prevalente della super-comunicazione ilare e giovanilistica, illustrata dagli spot dei telefonini di terza generazione.
Ma questo è solo il primo effetto sociale dell’eccesso comunicativo. Un altro, più inquietante, è stato esemplificato da Beppe Severgnini sul “Corriere della Sera”: una società britannica di autonoleggio (EasyCar) riprende il volto di tutti i clienti e pubblica sul proprio sito nomi e fotografie di quanti non restituiscono il veicolo nei tempi previsti. Ecco, allora, che le questioni culturali diventano dilemmi pubblici e conflitti giuridici.
La massima diffusione di strumenti di videosorveglianza si registra dove maggiore è il numero di reati contro la proprietà o dove – ma è la stessa cosa - più acuti sono l’allarme sociale e la sensibilità collettiva sul tema. E questo evidenzia il cuore del problema: ovvero la contraddizione tra privacy e sicurezza. Le ansie suscitate dalla criminalità comune e dal terrorismo nazionale e internazionale sembrano spingere, fatalmente, verso la riduzione drastica delle garanzie personali e verso la “controllabilità totale” del cittadino comune, equiparato – fino a prova contraria - a un potenziale soggetto pericoloso.
Ma un esempio (fatto, di recente, da Stefano Rodotà) dimostra bene quanto sia falsa l’alternativa tra libertà e sicurezza: la riservatezza dei dati dei passeggeri di una linea aerea è essenziale per evitare che un determinato volo venga scelto come bersaglio perché vi viaggiano i fedeli di una specifica religione, identificabili attraverso le abitudini alimentari rivelate dalla richiesta di un pasto. Ecco una situazione – tra le molte citabili – dove riservatezza e incolumità, lungi dal contraddirsi, coincidono perfettamente. Ma basta la limpidezza inequivocabile di questo esempio per risolvere, una volta per tutte, quel dilemma tra libertà e sicurezza? Evidentemente no. E, d’altra parte, le banche dati delle imprese già dispongono di miliardi di informazioni relative ai consumi, alle preferenze, agli stili di vita dei cittadini: e sono in grado non solo di prevederne, ma anche di orientarne, le opzioni di spesa, i risparmi, le strategie sociali. E le stesse abitudini alimentari.
Sembra, dunque, una spirale inarrestabile e che non consente vie d’uscita. Ma proprio per questo è necessario, e urgente, adottare un sistema di garanzie e di tutele, che – proteggendo i dati personali – non comprometta la libertà individuale: di scelta, di movimento, di riservatezza. E così si ritorna alla questione della videosorveglianza. Assai opportunamente, il Garante per la privacy ha stilato un codice che indica limiti precisi e traccia confini rigorosi: dall’obbligo di avvertire della presenza di videocamere al divieto di controllo a distanza dei lavoratori; dalla precisa determinazione del periodo di eventuale conservazione delle immagini all’utilizzo esclusivo delle stesse (i dati raccolti per ragioni di sicurezza o per tutela del patrimonio non possono essere destinati a finalità diverse).
Tutto ciò servirà a qualcosa? E serviranno a qualcosa le direttive e le raccomandazioni adottate a livello europeo? C’è da dubitarne: ma è certo che si tratta di un nuovo e decisivo terreno di conflitto, in genere trascurato dalla sinistra. In gioco c’è, ancora, “la libertà dei moderni”.


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