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Suicidi in carcere, le cifre crudeli
«Il 24 marzo 2004, nel carcere di Opera, si è tolto la vita un detenuto paraplegico, costretto su una sedia a rotelle, Andrea Mazzariello». Inizia così l'interrogazione, presentata all'epoca dai parlamentari Augusto Battaglia e Luigi Giacco, che poi prosegue: «il Mazzariello, pochi giorni prima, aveva manifestato al proprio legale la sua disperazione (...) per non essere curato adeguatamente per la malattia di cui soffriva, una stenosi del canale midollare che gli procurava forti dolori. Non gli veniva somministrata la morfina e cercavano di sostituirla con altri farmaci contro il dolore, che gli provocavano ulteriori forti sofferenze. Il Mazzariello, prima di rientrare in carcere per la condanna definitiva, aveva chiesto gli arresti domiciliari per motivi di salute, ma gli erano stati negati.
articolo - italia - - - L'Unità - Andrea Boraschi, Luigi Manconi - A buon diritto - Promemoria per la sinistra
[04/05/05] «Il 24 marzo 2004, nel carcere di Opera, si è tolto la vita un detenuto paraplegico, costretto su una sedia a rotelle, Andrea Mazzariello». Inizia così l'interrogazione, presentata all'epoca dai parlamentari Augusto Battaglia e Luigi Giacco, che poi prosegue: «il Mazzariello, pochi giorni prima, aveva manifestato al proprio legale la sua disperazione (...) per non essere curato adeguatamente per la malattia di cui soffriva, una stenosi del canale midollare che gli procurava forti dolori. Non gli veniva somministrata la morfina e cercavano di sostituirla con altri farmaci contro il dolore, che gli provocavano ulteriori forti sofferenze. Il Mazzariello, prima di rientrare in carcere per la condanna definitiva, aveva chiesto gli arresti domiciliari per motivi di salute, ma gli erano stati negati. Quando il Mazzariello già si trovava ad Opera aveva presentato, tramite i suoi avvocati, un'istanza di differimento della pena per motivi di salute». La vicenda illustrata in quell'interrogazione rappresenta, esemplarmente, ciò che chiamiamo «morte annunciata». In altre parole, il suicidio quale gesto ultimo ed estremo di quei reclusi che versano in condizioni tali da far paventare, ragionevolmente, il rischio di atti di autolesionismo. Sono storie come quella di Marco D.S., di 41 anni, impiccatosi il 1 maggio 2003 nel carcere di Rebibbia: già dichiarato incompatibile col regime carcerario, già internato in ospedali psichiatrici giudiziari, già assolto per incapacità di intendere e di volere; diagnosticato come schizofrenico. Poco prima della sua morte viene trasferito e, dunque, subisce uno stress ulteriore, proprio di molte vicende penitenziarie: ovvero l'impatto con un nuovo carcere e con un nuovo ambiente (sono numerosi i suicidi che si verificano immediatamente dopo un trasferimento). E, ancora, storie come quella di Paride C., uccisosi al Dozza di Bologna il 16 giugno 2003. Dopo il suo ultimo tentativo di suicidio, la settimana precedente il decesso, quando aveva ingerito detersivo, era stato messo in regime di «grande sorveglianza». Guardato a vista da un agente che aveva l'ordine di controllare la cella ogni venti minuti, Paride C. era profondamente addolorato per la morte della compagna, fortemente depresso - gli era stato negato il permesso di partecipare al funerale - e aveva già tentato il suicidio in età giovanile. L'ultimo tentativo si è rivelato fatale.
A partire da storie come queste, e avvalendoci del materiale disponibile (informazioni a mezzo stampa, fonti non ufficiali, colloqui con familiari e avvocati, il prezioso dossier “Morire di carcere” dell'associazione Ristretti Orizzonti), abbiamo provato a ricostruire le vicende relative a quei detenuti, la cui volontà di suicidio era - a nostro avviso - prevedibile.
I “suicidi annunciati” sono stati, nel 2003, il 19,1% di quelli di cui possediamo una certa quantità di informazioni biografiche. Nel 2002 questa percentuale è stata significativamente più alta: il 32,7%, ovvero un suicidio su tre. Si tratta di casi in cui il recluso ha già manifestato, in qualche modo, la volontà di togliersi la vita o ha messo in atto uno o più tentativi di farlo; e di casi in cui le condizioni di disagio psichico e di depressione sono più che evidenti.
Queste percentuali, evidentemente, scontano una qualche imprecisione e vengono presentate per testimoniare una questione saliente e indicare una linea di ricerca, più che per fornire un dato definitivo e certo. Tuttavia, va precisato che, relativamente ai casi registrati nel 2002, sono solo 2 i suicidi per i quali non disponiamo di alcuna nota biografica, mentre la raccolta di informazioni utili si è rivelata più difficile per quanto riguarda il 2003. Nel corso di quell'anno i casi di suicidio “senza biografia”, che non hanno trovato alcuno spazio negli organi di stampa e che risultano solo dalle statistiche del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, sono stati assai più numerosi: ben 20 su 65. Si può ipotizzare che ciò derivi da un progressivo ridursi dell'interesse per le condizioni di vita nelle carceri (e, dunque, che un suicidio in cella “faccia notizia” sempre meno); o che le fonti primarie, gli stessi istituti di pena, stiano adottando una strategia di relazione con il sistema dell'informazione sempre più opaca.
Un'ultima considerazione. Come si registrano casi di suicidio in cui il recluso mostra tutti i segni del suo disagio e della sua “incompatibilità” con la vita carceraria, si ha anche notizia di detenuti toltisi la vita “senza alcun preavviso”: senza, cioè, che la loro condizione risultasse, ai responsabili del carcere o ai compagni di reclusione, particolarmente critica. Detenuti apparentemente ben integrati nella vita quotidiana del carcere, presumibilmente in grado di sopportare i disagi derivanti dalla privazione della libertà personale e che, di colpo, in maniera apparentemente inspiegabile, “crollano”. Ci sembra, questo, l'esempio più significativo, ed estremo, della solitudine di molte vite in carcere. Dietro le “cifre crudeli” dei suicidi c'è, dunque, chi ha palesato la sua sofferenza e la sua disperazione in mille modi e non è stato “salvato”; e c'è chi ha rinunciato a esprimere il suo malessere e non è stato riconosciuto nella sua silenziosa sofferenza: e, ugualmente, non è stato “salvato”. Due forme della stessa sconfitta.
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