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Anche il detenuto Tuti ha diritto ai benefici

articolo - italia - - - L'Unità - Luigi Manconi - A buon diritto - Promemoria per la sinistra

[23/10/02]

Non è, certo, uno stinco di santo: e se
qualcuno lo presentasse come tale, il
primo a stupirsene e, probabilmente,
a offendersene, sarebbe proprio lui: il
detenuto Mario Tuti. La sua storia è
tragicamente nota. Tuti viene arrestato
il 28 luglio 1975 per l'omicidio di
due poliziotti, uccisi mentre perquisivano
la sua abitazione, nell'ambito di
un'inchiesta sul Fronte nazionale rivoluzionario
(di aperta ispirazione fascista).
Condannato all'ergastolo, durante
la detenzione uccide Ermanno Buzzi,
riconosciuto colpevole per la strage
di Brescia (maggio 1974). Nel 1987,
Tuti è tra i detenuti che, nel carcere di
Porto Azzurro, durante un tentativo
di evasione, sequestrano per una settimana
un nutrito gruppo di persone
(appartenenti all'amministrazione penitenziaria).
Condannato per l'attentato
ai treni della linea Firenze-Roma
e per quello all'Italicus, Tuti viene assolto
in appello per il primo e, per il
secondo, la cassazione confermerà l'assoluzione
della corte d'assise di appello.
Resta una carriera criminale impressionante
e crudele, che - ad avviso
di chi scrive - è stata duramente (giustamente)
sanzionata.
Come si è detto, Mario Tuti è in
galera dal luglio 1975 (facile fare il
conto) ed è uno dei pochissimi detenuti
politici che non hanno mai usufruito
di alcun beneficio tra quelli previsti
dall'ordinamento, pur avendoli chiesti
da tempo e trovandosi nelle condizioni
per ottenerli. Tuti ha avviato,
da anni, un doloroso ripensamento
sul proprio passato (come testimonia,
tra l'altro, una importante intervistagli,
fattagli proprio sull' "Unità" da
Roberto Roscani, nel marzo del
2000); e si è dedicato a diverse attività,
alcune delle quali di notevole spessore
(in particolare, nel campo dell'informatica,
della scenografia, della musica).
Dunque, ha intrapreso - e da
tempo - quel percorso "rieducativo"
che la Costituzione prevede quale funzione
qualificante della pena.
A confermarlo sono le relazioni e
le testimonianze di direttori di carcere,
educatori, psicologi, ma anche di
agenti e ufficiali della polizia penitenziaria.
E, tuttavia, Tuti non ha mai
ottenuto un permesso, un beneficio,
un'opportunità. La sua storia recente
è quella di un ininterrotto differimento,
di un infinito rinvio, di un eterno
procrastinare.
Eppure, ciò che chiede non è "clemenza";
è, piuttosto, una chance: l'occasione
per dare un senso a quei (quasi)
trent'anni trascorsi in carcere. Può
essere, nell'ipotesi più ottimistica (peraltro
sollecitata due volte dalla direzione
del carcere di Voghera), il lavoro
esterno; possono essere i permessi
premio; può essere, come precondizione
essenziale, la declassificazione: ovvero
il passaggio dalla carcerazione
speciale a quella ordinaria. Sono misure
che dipendono dal ministero,
dall'amministrazione penitenziaria e
dalla magistratura di sorveglianza:
non certo - ed è giustissimo che così
sia - dalla politica. Indubbiamente -
come non ci stanchiamo di ripetere in
queste righe - la questione del carcere
è, in primo luogo, la questione dei
56.537 reclusi senza nome, senza voce
e, spesso, senza avvocato. E, tuttavia
la vicenda, pur così peculiare, di «un»
detenuto può raccontarci molto delle
vicende dell’intera popolazione carceraria.


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