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Il reato di "plagio" non fa bene alla libertà
Aldo Braibanti vive nel ghetto ebraico di Roma. È anziano e solo. Il sussidio che attende dalla legge Bacchelli tarda ad arrivare e, intanto, ha ricevuto un’ingiunzione di sfratto. Aldo Braibanti è un filosofo, ma anche un poeta, un ceramista, un mirmecologo (studia l’etologia delle formiche), un autore di teatro e di programmi radiofonici, un regista cinematografico. Più che la sua opera intellettuale o la militanza nella Resistenza, più che le mostre che hanno portato le sue ceramiche e i suoi collages in giro per l’Europa, di lui si ricorda una condanna per plagio a 9 anni di reclusione, nel 1968.
articolo - italia - - - L'Unità - Andrea Boraschi, Luigi Manconi - A buon diritto - Promemoria per la sinistra
[17/05/04] Aldo Braibanti vive nel ghetto ebraico di Roma. È anziano e solo. Il sussidio che attende dalla legge Bacchelli tarda ad arrivare e, intanto, ha ricevuto un’ingiunzione di sfratto. Aldo Braibanti è un filosofo, ma anche un poeta, un ceramista, un mirmecologo (studia l’etologia delle formiche), un autore di teatro e di programmi radiofonici, un regista cinematografico. Più che la sua opera intellettuale o la militanza nella Resistenza, più che le mostre che hanno portato le sue ceramiche e i suoi collages in giro per l’Europa, di lui si ricorda una condanna per plagio a 9 anni di reclusione, nel 1968. La sentenza che lo condannò, e che segnò uno spartiacque nella storia del diritto e del costume del nostro paese, lo definiva "diabolico, raffinato seduttore di spiriti, affetto da omosessualità intellettuale". La sua colpa era quella di aver vissuto una storia d’amore con un uomo di 24 anni, Giovanni Sanfratello (di nove anni più giovane); il quale, per tale ragione, venne ricoverato dalla famiglia in manicomio, dove rimase due anni, sottoposto a un trattamento di elettroshock.
L’artista piacentino è stato l’unico, nella storia processuale italiana, a cui sia stata comminata una pena in base all’art. 603 del Codice penale: quello che – all’epoca - sanzionava il reato di “plagio”, definito come l’azione di chi “sottopone una persona al proprio potere, in modo da indurla in stato di totale soggezione”. La fattispecie penale, in altre parole, individuava una dinamica relazionale dove un individuo è incapace di autodeterminazione: dunque, non agisce, ma viene “agito” da qualcun altro. Nel 1981 la Corte Costituzionale ritenne illegittima questa norma, poiché priva di quel requisito di “tipicità” che “richiede una puntuale relazione di corrispondenza fra fattispecie astratta e fattispecie reale”. L’intento della sentenza della Corte era quello di “evitare arbitrii nell’applicazione di misure limitative di quel bene sommo e inviolabile costituito dalla libertà personale”. E, infatti, l’idea stessa di libertà personale ha molto a che fare con la capacità degli individui di produrre comportamenti responsabili, fondati sulla piena capacità di giudizio. Il reato di plagio, dunque, ledeva, la sfera delle libertà individuali: e configurava una sorta di “incapacità di intendere e di volere”, che non rispondeva a un profilo patologico o a una momentanea limitazione delle facoltà dell’individuo, bensì alla sua sottomissione ad una “persuasione coercitiva”. Disegnava un’ipotesi di reato affidata a nozioni destituite di valore scientifico; e tanto vaga da risultare uno strumento potenzialmente pericoloso, utilizzabile per “criminalizzare” comportamenti devianti o, semplicemente, di minoranza.
La letteratura scientifica sul “lavaggio del cervello” è ampia. Così come molti sono stati gli esperimenti, tentati da agenzie governative e non, per “ricondizionare” nemici e oppositori: ma la ricerca ha fornito prove inequivocabili sull’impossibilità di convertire un soggetto a comportamenti, atteggiamenti e convincimenti contrari alla sua volontà.
Nel 1990 la sentenza di una corte federale californiana, che ancora oggi fa giurisprudenza, decretò che “le teorie riguardanti la persuasione coercitiva praticata dalle sette religiose non sono sufficientemente accettate dalla comunità scientifica per poter essere ammesse come prove nei tribunali federali”.
Proprio la questione delle sette religiose sembra essere, oggi, al centro delle preoccupazioni (e, ci permettiamo di dire, delle paranoie) di chi vuole reintrodurre in Italia il reato di plagio. Lo scorso marzo la commissione Giustizia del Senato ha approvato il testo di un disegno di legge, che prevede la reclusione da due a sei anni per chi “mediante tecniche di condizionamento della personalità o di suggestione, praticate con mezzi materiali o psicologici, pone taluno in stato di soggezione continuativa, tale da escludere o da limitare grandemente la libertà di autodeterminazione”. La proposta inquieta. L’influenza e la dipendenza psicologica sono condizioni consuete in moltissime forme di relazione; e - lo ripetiamo - non esistono prove scientifiche in grado di provare un potere di condizionamento mentale talmente coercitivo da prevaricare la volontà di alcuno. E, dunque, c’è il rischio – segnalato, tra gli altri, da Lucia D’Arbitrio e dal Conacreis - di penalizzare quelle relazioni che risultano trasgressive o, comunque, non conformi alla morale di maggioranza. E perché mai un giudice dovrebbe disporre della facoltà di decidere – o anche solo di indagare – sulla relazione umana, intellettuale ed emotiva, liberamente contratta da due o più individui adulti?
Scrivere a: abuondiritto@abuondiritto.it
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