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La demagogia dei risarcimenti impossibili

«Con chi commette atti del genere bisogna buttare via la chiave», dice il ministro per le Riforme, Roberto Calderoli, commentando le sentenza che, accogliendo il patteggiamento in appello, riduce la pena di Ruggero Jucker a 16 anni di detenzione. Jucker è l'autore di un omicidio efferato: nel 2002 uccise con ventidue coltellate la sua fidanzata, Alenya Bortolotto. «La povera Alenya muore per la seconda volta», chiosa ora il coordinatore della segreteria della Lega. E qui, come già in altre occasioni, Calderoli interpreta un umore diffuso, facile e brutale insieme. Quello che vuole che a un crimine violento e spaventevole, come quello di Jucker, corrisponda, inesorabile, una pena altrettanto violenta e spaventevole: esemplare e severa, in ogni caso, e che non ammetta sconti, che non preveda misure alternative alla detenzione e che - soprattutto - non tolleri «buonismi garantisti» di sorta.

articolo - italia - - - L'Unità - Andrea Boraschi, Luigi Manconi - A buon diritto - Promemoria per la sinistra

[24/01/05] «Con chi commette atti del genere bisogna buttare via la chiave», dice il ministro per le Riforme, Roberto Calderoli, commentando le sentenza che, accogliendo il patteggiamento in appello, riduce la pena di Ruggero Jucker a 16 anni di detenzione. Jucker è l'autore di un omicidio efferato: nel 2002 uccise con ventidue coltellate la sua fidanzata, Alenya Bortolotto. «La povera Alenya muore per la seconda volta», chiosa ora il coordinatore della segreteria della Lega. E qui, come già in altre occasioni, Calderoli interpreta un umore diffuso, facile e brutale insieme. Quello che vuole che a un crimine violento e spaventevole, come quello di Jucker, corrisponda, inesorabile, una pena altrettanto violenta e spaventevole: esemplare e severa, in ogni caso, e che non ammetta sconti, che non preveda misure alternative alla detenzione e che - soprattutto - non tolleri «buonismi garantisti» di sorta. D'altra parte, il ministro leghista (e altri con lui) non si limita a interpretare un comune sentire; la sua non è solo la voce di un'Italia «profonda», turbata dai molti fatti di cronaca nera che rimbalzano di telegiornale in telegiornale e di salotto televisivo in salotto televisivo. La sua è, piuttosto, l'arte sinistra della demagogia, nel suo significato originario: ovvero la tecnica discorsiva di chi coltiva e alimenta un clima d'opinione al quale è difficile opporre argomenti razionali. Si pensi alla vicenda di Omar, il complice di Erika nel delitto di Novi Ligure. Già condannato a 14 anni di reclusione, Omar potrà godere di permessi premio e uscire dal carcere, purché presenti un progetto legato ad «attività socializzanti di recupero»: così ha deciso il tribunale di Sorveglianza di Torino, e la cosa ha suscitato sorpresa. C'è, poi, il caso di un minorenne (dibattuto, pochi giorni or sono, a Porta a Porta, ospite il ministro della Giustizia, Roberto Castelli) che, ad Agrigento, uccise un coetaneo per uno sguardo di troppo rivolto a una ragazza, e che, dopo alcuni mesi di detenzione, è stato affidato a una comunità. «La legge sui minori che delinquono va cambiata, altrimenti si dà loro un messaggio deviato: voi godete dell'impunità», ha dichiarato il ministro della Giustizia, aggiungendo che «non c'è dubbio che con queste decisioni i magistrati creano sconcerto». Ad avviso di Castelli sono le norme che devono essere cambiate, perché ispirate ad una «cultura che guarda esclusivamente a chi ha commesso il delitto, ignorando la sete di giustizia dei parenti delle vittime». Per il ministro, dunque, lo Stato è un gestore terzo ed imparziale di una suprema «legge del risarcimento», che - sanzionando e recludendo - risponde alla «sete di giustizia» di chi viene offeso direttamente da un reato tanto grave quanto può essere, come in questo caso, un omicidio. All'impostazione di Castelli, fatalmente, finiscono col dare manforte tutti quei giornalisti che, in casi come questi, si precipitano a intervistare i parenti delle vittime, per chiedere loro cosa ne pensano di uno sconto di pena o di un permesso premio: o, addirittura, della disponibilità al «perdono». Conoscono già la risposta che li attende (la conosciamo tutti): per questo la cercano, la solleticano e la sollecitano, la provocano. Ai parenti e agli amici di chi è stato ucciso, nessuna pena renderà mai la vita di chi non c'è più; né alcuna sanzione potrà mai essere tanto «remunerativa» da pareggiare il danno fatto. La loro indignazione e, tanto meno, la loro disponibilità al «perdono» (sentimento intimissimo e privo di qualunque valenza pubblica) non sono, certo, i parametri che la giustizia può adottare per rispondere a un reato: né per decidere delle condizioni di espiazione della pena di chi, di quel reato, è stato dichiarato colpevole. La reclusione e la pena in generale - in uno Stato di diritto e in un ordinamento liberale - hanno prioritariamente una funzione deterrente: intervengono per scoraggiare il cittadino da possibili condotte criminali; svolgono un ruolo «protettivo» nei confronti del corpo sociale; disincentivano coloro che, avendo già commesso un delitto, potrebbero ripetere il loro crimine, mettendo a repentaglio i diritti o l'incolumità di terzi. Infine, la pena dovrebbe avere un valore «rieducativo»: le forme della sua esecuzione dovrebbero tendere alla «riabilitazione» del cittadino che ha violato la legge. È in base a questi criteri e alla loro combinazione, crediamo, che la magistratura è chiamata a esprimersi sul merito delle modalità di espiazione della pena. Nessuno potrà mai indagare nella coscienza di chi uccide la donna che ama, o di chi toglie la vita a un genitore o a un fratello. Vi è qualcosa, in azioni come queste, che trascende le nozioni più comuni di ciò che è bene e di ciò che è male: qualcosa di insondabile. Ma, davanti all'inconoscibile, almeno una cosa sappiamo: la vita di chi commette reati tanto gravi non può essere decisa sul metro dell'indignazione sociale o del dolore individuale.


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