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Un velo di dubbi sulla Francia laica

Rifarsi alla laicità e sostenere la liberalità dello Stato nelle piccole e grandi questioni (nei piccoli e grandi dilemmi, nei piccoli e grandi conflitti), che la convivenza democratica solleva ogni giorno, vuol dire – crediamo – garantire al cittadino un quadro normativo massimamente inclusivo dei suoi comportamenti e dei suoi orientamenti culturali, religiosi, etici. Vuol dire, in altre parole, fare del valore della laicità uno strumento regolatore: un mero strumento regolatore, non un’ideologia.

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[22/12/03] Rifarsi alla laicità e sostenere la liberalità dello Stato nelle piccole e grandi questioni (nei piccoli e grandi dilemmi, nei piccoli e grandi conflitti), che la convivenza democratica solleva ogni giorno, vuol dire – crediamo – garantire al cittadino un quadro normativo massimamente inclusivo dei suoi comportamenti e dei suoi orientamenti culturali, religiosi, etici. Vuol dire, in altre parole, fare del valore della laicità uno strumento regolatore: un mero strumento regolatore, non un’ideologia. In Francia, Jacques Chirac ha accolto il parere formulato dalla Commissione presieduta da Bernard Stasi: e, perciò, “nelle scuole, nei collegi, nei licei l’esibizione di abbigliamenti o segni manifestanti un’appartenenza religiosa o politica” saranno vietati. Vietato indossare il velo per le donne musulmane (nasce da qui la querelle) o indossare la kippah o portare un crocifisso al collo. Si precisa, a tal riguardo, che i simboli vietati sono quelli “ostensibles”, non quelli “discrets”. Decisive, pertanto, le dimensioni dei simboli stessi. Se ne deduce, dunque che, in Francia, lo stato laico ritenga il velo “ostentato” da una studentessa invasivo o lesivo di quella libertà che deve essere garantita ai suoi compagni di scuola e ai suoi professori. Verrebbe da credere che lo si ritenga addirittura offensivo (o potenzialmente offensivo) della libertà di culto altrui, o dell’altrui ateismo o agnosticismo. Da qui, il divieto. Ma una tale conclusione risulta smentita da un passo della relazione della Commissione Stasi (mai nome fu tanto incolpevolmente evocativo di illiberalità): “ripercorrere il corso della storia della laicità e comprendere la ricchezza dei suoi significati, è operare per l’adesione di tutti ai suoi principi”. Se ne ricava, inequivocabilmente, che non è più in gioco la tutela della sensibilità e del credo dei cittadini rispetto all’invasività di certi simboli, siano essi religiosi o politici. Qui, piuttosto, si scambia la regolamentazione liberale della vita civile della repubblica con un surrettizio ateismo di Stato. Si chiede al cittadino di aderire ad una sorta di “ideologia nazionale” o “di Stato” (la laicità, appunto); e di farlo attraverso la rinuncia ai simboli della propria cultura, del proprio credo, dei propro sistema di valori: e, infatti, i “segni” vietati sono, come si è detto, tutti quelli che “manifestano un’appartenenza religiosa o politica”. Lo stato laico, paradossalmente, vieta invece di tollerare, bandisce invece di includere, respinge invece di accogliere. Il simbolo è un oggetto, una cosa, che si assume a rappresentazione di un'altra cosa o di un complesso di cose, o di idee, o di credenze, cui è legato da una relazione di somiglianza o di analogia, culturalmente definita. Il simbolo è, in massimo grado, una convenzione culturale. Al di fuori della quale un velo è solo un foulard, una kippah un copricapo, una croce due legni sovrapposti. Forse è proprio così che uno Stato laico dovrebbe assumere questi simboli: perché nessun potere legislativo, esecutivo o giudiziario – in uno stato democratico e liberale - può essere chiamato a indagare la relazione intima che li lega al credo di chi li indossa.


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