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articolo - italia - - - L'Unità - Luigi Manconi - A buon diritto - Promemoria per la sinistra

[20/09/02]

Nel settembre del 1995, ricevetti una lettera
da una signora di Pieris (Gorizia), figlia di una
malata di cancro, che lamentava l'impossibilità
di acquistare farmaci a base di derivati della
cannabis. Quei farmaci si erano rivelati efficaci
nel combattere gli effetti collaterali della chemioterapia
e, tuttavia, non risultavano disponibili in
Italia. Ne seguì una discussione pubblica assai
aspra, nel corso della quale medici e farmacologi
assunsero, in genere, posizioni fortemente ostili.
Da allora, la situazione non è migliorata
granchè e quei farmaci continuano a non essere
disponibili nel nostro paese. E, tuttavia, le risorse
della ragione possono, talvolta, intaccare i
pregiudizi ideologici. Così, anche all'interno di
un articolo dal titolo, come dire, flemmatico
(«Spinello bruciacervello»), pubblicato da un settimanale,
la razionalità dei fatti, testardamente,
faceva capolino. In quell’articolo, citando i risultati
di alcune recenti ricerche, si affermava che il
principio della cannabis avrebbe «gli stessi effetti
neurologici della cocaina». Non solo: l’oncologo
Dino Amadori definiva «non consigliabile»
l’uso terapeutico della marijuana, dal momento
che la sostanza non avrebbe effetti superiori alla
codeina e provocherebbe - a causa del prolungato
impiego richiesto - effetti collaterali come
«vertigini, allucinazioni, paranoia, mutamenti
dell’umore». Ma ecco che - quasi di malavoglia -
l’intervistato si lasciava sfuggire, tra i denti, la
seguente affermazione: «Secondo uno studio
compiuto su 1,366 pazienti (…), la marijuana
contiene dei componenti che hanno dimostrato
una certa efficacia contro la nausea e il vomito
causati dalla chemioterapia. Il derivato della cannabis
risulta migliore rispetto ad altri farmaci,
come il Plasil».
Ma esattamente qui sta la questione. Qui e
solo qui. Non interessa, in questa sede, contestare
la tesi sostenuta nell'articolo (la marijuana
come la cocaina), opponendole le numerose ricerche
che giungono a conclusioni opposte. E,
ovviamente, nessuno afferma che la cannabis sia
“innocua”: e nemmeno un cretino sostiene che
«la marijuana cura il cancro». Qui è in gioco,
piuttosto, la riproduzione di un tabù o il suo
superamente. È in gioco, cioè, l’idea - scientifica
e razionale - che una sostanza stupefacente possa
anche fare bene. Ovvero possa limitare una
sofferenza. Il che significa affidare all'individuo,
titolare della sensibilità al dolore e al piacere, la
responsabilità di decidere se affrontare i rischi
che il ricorso a quella sostanza può comportare
(rischi irrisori nel caso specifico della cannabis).
Nel nostro paese, la terapia del dolore è
particolarmente arretrata e la legge in materia di
oppioidi, fortissimamente voluta dall’allora ministro
della sanità, Umberto Veronesi, continua
a incontrare enormi difficoltà burocratiche e ancora
più ostinate resistenze culturali (l’Italia è
ultima in Europa per consumo di morfina come
analgesico).
Nel caso dei derivati della cannabis, la posta
in gioco è più circoscritta, ma altrettanto importante,
sotto il profilo culturale, oltre che medico:
ottenere che si avvii, rapidamente, una sperimentazione
sull’uso terapeutico dei derivati della cannabis
perlomeno nei due casi dove le evidenze
scientifiche ne hanno già dimostrato l’efficacia
(effetti collaterali della chemioterapia, appunto,
e inappetenza nei malati di Aids); e ottenere,
rapidamente, che i farmaci relativi siano introdotti
nel prontuario farmaceutico. È una «lotta
contro il dolore» che ha il senso - profondo e
liberatorio - di un conflitto per “la sovranità
dell'individuo su di sé».


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