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Quando la sofferenza non ha senso

articolo - italia - - - L'Unità - Luigi Manconi - A buon diritto - Promemoria per la sinistra

[09/10/02]

Una grande e tragica vicenda familiare e una piccola e grottesca baruffa ministeriale hanno riportato all’attenzione dell’opinione pubblica il tema – terribile e doloroso – del diritto a una morte dignitosa.
Qualche giorno fa, a Parma, un uomo di 42 anni, si è ucciso unitamente al proprio figlio di nove, affetto da atrofia spinale muscolare. Non si è trattato di un caso classico di eutanasia. Piuttosto, un dramma primario e indicibile: la scelta di interrompere una sofferenza che non conosce sollievo; e, dunque, finisce per apparire - a chi non abbia una forte identità religiosa - senza senso. O meglio: senza altro senso che non sia la riproduzione di un’esistenza destinata a perdere, quotidianamente, valore, esperienza, significato.
Nei giorni immediatamente successivi, il presidente e un autorevole membro della commissione per la riforma del codice penale, Carlo Nordio e Fabrizio Ramacci, hanno ipotizzato una normativa destinata a riconoscere il “testamento biologico”. Immediata la replica del ministro della Giustizia, Roberto Castelli, che ha ridimensionato quella commissione (importantissima, fino a un attimo prima) a “strumento tecnico”: e, a scanso di equivoci, ha spiegato che le proposte della commissione “possono essere recepite oppure respinte”.
In realtà, queste due vicende così diverse possono essere accostate in quanto entrambe evocano i dilemmi tragici detti di “fine vita”: le malattie irreversibili e terminali, le sofferenze intollerabili, l’accanimento terapeutico (su tutto questo, un punto di vista originale, diverso da quello di chi scrive, è esposto in un volume importante, appena pubblicato da Comunità: L’etica e la buona morte di Massimo Reichlin).
Ma la capacità di distinguere i diversi problemi è la prima condizione per affrontare una materia tanto incandescente: e, in primo luogo, va detto che, di quella materia, non tutto è riconducibile e riducibile all’eutanasia (che, pure, resta una questione rimossa, da affrontare con pietà e, insieme, con razionalità). Questo vale, innanzitutto, per il “testamento biologico”: ovvero una dichiarazione anticipata di volontà, che consente al cittadino, finché si trova nel possesso delle sue facoltà mentali, di dare disposizioni relative ai trattamenti sanitari per il tempo nel quale tali facoltà fossero gravemente ridotte o esaurite. Uno strumento giuridico nuovo, che preveda indicazioni vincolanti per ogni soggetto implicato nelle scelte mediche riguardanti la persona. Ripeto: non è in discussione l’eutanasia, che può essere esclusa dalla normativa in questione e rinviata a un’altra e specifica legge. Il riferimento è, piuttosto, alla questione dell’accanimento medico e alle terapie e agli interventi chirurgici particolarmente invasivi e dolorosi. La vera posta in gioco, qui, è la possibilità che ogni persona sia concretamente protagonista delle scelte riguardanti la propria salute: e sia messa in grado di accettare, così come di rifiutare, l’intervento medico e ciò che comporta, rendendo il consenso realmente “informato”. E’ bastato che due giuristi (Nordio e Ramacci), fino a quel momento autorevoli e affidabili, prendessero in considerazione tutto questo e, di conseguenza, la possibilità del testamento biologico, perché intervenisse qualcosa di molto simile a una censura d’autorità. D’altra parte, se questo è l’atteggiamento della destra, non è che la sinistra….


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