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La sicurezza sociale non sempre è «civile»

C'è una contraddizione insuperabile tra bisogno di sicurezza e tutela della privacy? Porsi questa domanda, oggi, significa ragionare su una linea sottile, che - senza retorica alcuna - è un confine di libertà. Da un lato, il diritto alla sicurezza, all'incolumità, alla protezione: la possibilità di vivere, lavorare, intrattenere relazioni sociali in ambienti dove il nostro corpo, la nostra persona e i nostri beni non debbano e non possano essere minacciati da condotte criminali. Dall'altro lato, la capacità/possibilità dell'individuo di sottrarsi a forme di controllo improprie, autoritarie, lesive della sua dignità e invasive della sua sfera personale.

articolo - italia - - - L'Unità - Andrea Boraschi, Luigi Manconi - A buon diritto - Promemoria per la sinistra

[22/02/05] C'è una contraddizione insuperabile tra bisogno di sicurezza e tutela della privacy? Porsi questa domanda, oggi, significa ragionare su una linea sottile, che - senza retorica alcuna - è un confine di libertà. Da un lato, il diritto alla sicurezza, all'incolumità, alla protezione: la possibilità di vivere, lavorare, intrattenere relazioni sociali in ambienti dove il nostro corpo, la nostra persona e i nostri beni non debbano e non possano essere minacciati da condotte criminali. Dall'altro lato, la capacità/possibilità dell'individuo di sottrarsi a forme di controllo improprie, autoritarie, lesive della sua dignità e invasive della sua sfera personale. Quella sfera da cui ha origine il concetto stesso di privacy. Un termine che "non riesce a contenerla tutta", quella misura di libertà, come scriveva Stefano Rodotà anni or sono. La vita sociale degli individui si fa sempre più astratta: a rappresentarci e identificarci nel consesso civile vi sono infinite mappature: del nostro corpo, dei nostri stili di vita, dei nostri consumi, delle nostre comunicazioni, e altre ancora. Questo "corpo astratto", disincarnato e digitale, gode attualmente di ben poche tutele e garanzie. Per due essenziali ragioni: perché lo sviluppo tecnologico precede l'aggiornamento normativo; e perché esistono forti interessi commerciali che gravitano attorno alla raccolta, conservazione e organizzazione dei dati personali. Ma, per tornare al nostro interrogativo iniziale, qui ci riferiamo esclusivamente a quei casi in cui le potenzialità offerte dalla gestione digitale di informazioni personali possono essere d'aiuto a chi è titolare dell'ordine pubblico: a chi, cioè, è chiamato, per responsabilità istituzionale, a garantire il diritto alla sicurezza. In questa prospettiva, il governo italiano vorrebbe costituire una banca dati centralizzata del Dna, che raccolga i dati genetici di chi è stato recluso per aver commesso alcune tipologie di reato e degli immigrati irregolari colpiti da provvedimento d'espulsione. Al progetto sta lavorando il Comitato Nazionale di Biosicurezza e Biotecnologia, l'organo istituito ad hoc dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, che opera su due distinti fronti: il primo relativo all'istituzione della banca stessa, il secondo alla riscrittura dell'articolo 224-bis del codice di procedura penale, che disciplina i casi in cui le autorità giudiziarie possono sottoporre un individuo all'analisi coatta del patrimonio genetico. Le fasi finali del lavoro riguardano, in particolare, la definizione delle categorie di persone a cui il Dna verrà prelevato, per poi essere conservato sotto forma di codice numerico. Parallelamente, in Commissione Giustizia della camera dei Deputati, procede un testo che vede d'accordo maggioranza e opposizione e che dovrebbe essere licenziato molto presto: permetterà agli inquirenti, in molti casi senza l'autorizzazione del giudice - ecco il vero punto dolente ! - di prelevare il Dna o il sangue degli indagati, prescindendo dalla loro volontà. Per chi volesse opporsi o sottrarsi al prelievo, il disegno di legge prevede sanzioni fino a quattro anni di reclusione. Quella che si va profilando è, dunque, una schedatura genetica ad ampio raggio. I dati genetici sono, tra quelli definibili come "personali", probabilmente i più sensibili: e fino ad oggi sono stati i più tutelati. Possono essere raccolti con grande facilità (basta un capello, un po' di saliva, un frammento di pelle, una goccia di sangue); forniscono informazioni su tutti gli appartenenti al gruppo biologico della persona alla quale si riferiscono (genitori, figli, fratelli); hanno, per dirla ancora con Rodotà, un'attitudine "predittiva", dal momento che contribuiscono a definire quale potrà essere l'evoluzione della vita di una persona, indicando a quali rischi potrebbe andare incontro e quali malattie potrebbe sviluppare. Molto ci sarebbe da dire sul progetto. Il profilo tecnico della questione (il modo in cui saranno raccolte, classificate, conservate e utilizzate le informazioni genetiche; e, ancora, chi potrà accedervi, in base a quali prerogative, con quali scopi) è assolutamente centrale e ineludibile. Ma, sullo sfondo, c'è una questione etica, giuridica e politica persino più delicata; e riguarda il conflitto tra due diritti - sicurezza e privacy, per l'appunto - non necessariamente inconciliabili, ma di difficile, difficilissima composizione. Da un lato, uno degli impieghi dei dati genetici considerati socialmente "più utili" riguarda la prevenzione del crimine; dall'altro, proprio la definizione di un target specifico, di un gruppo preciso di cittadini da schedare e, dunque, da controllare rischia di produrre una discriminazione (un'etichettatura) potentissima; e rischia di incrinare l'eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, di riprodurre pregiudizi e stereotipi: e infine - più che di prevenire - di orientare. In altre parole, si scheda non per cercare più informazioni, ma per indirizzare pregiudizialmente, e ideologicamente, quella stessa ricerca di informazioni. Per quanto riguarda, poi, la possibilità che questa schedatura divenga coatta, è certo che nella "misura" del potere inquisitorio dello Stato risiede uno dei confini più fragili e scivolosi che corrono tra democrazia e totalitarismo. E l'argomento per cui chi non ha niente da temere non ha neppure niente da nascondere - e, pertanto, nessun motivo per opporsi a schedature di questo tipo; o al controllo delle sue comunicazioni telefoniche e digitali, dei suoi spostamenti, dei suoi consumi, del suo stato di salute, del suo rendimento produttivo… - questo argomento, dicevamo, è stato spesso un temibile strumento di restringimento delle libertà personali. Ma, detto questo, restiamo convinti che quella tra libertà personale e sicurezza pubblica non sia una contraddizione insuperabile: e conviene affrontarla. Partendo, magari, dall'analisi di Robert Castel. Il quale evidenzia come i due sistemi della "sicurezza sociale" e della "sicurezza civile" vanno divergendo paurosamente, almeno da un quarto di secolo. La tendenza in atto in Europa e negli Stati Uniti vede il potere centrale preoccuparsi sempre più dell'incolumità degli individui (e per assolvere a questa preoccupazione si organizza in Stato Controllore, a "tolleranza zero") e sempre meno di quelle garanzie sociali che presiedono alla qualità della vita dei cittadini. E questo porta a ignorare che è esattamente l'indebolimento di quelle garanzie sociale a produrre minacce diffuse proprio contro la "sicurezza" cui ognuno ha diritto; e che la percezione (vera o presunta) del pericolo "fisico" può avere origine nella crescita dei fattori di rischio "sociali" a cui i cittadini sono esposti (disoccupazione, impoverimento, mancata tutela pubblica della salute…).


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