Dalla parte di Caino
Durante il dibattito sull’indultino, alla Camera dei deputati, i parlamentari leghisti indossavano una t-shirt con la scritta: “dalla parte di Abele”. Compiuto da loro, un simile gesto risulta cupamente sinistro e sottilmente osceno: e, tuttavia, aiuta a comprendere.
articolo - italia - - - L'Unità - Luigi Manconi - A buon diritto - Promemoria per la sinistra
[23/07/03] Durante il dibattito sull’indultino, alla Camera dei deputati, i parlamentari leghisti indossavano una t-shirt con la scritta: “dalla parte di Abele”. Compiuto da loro, un simile gesto risulta cupamente sinistro e sottilmente osceno: e, tuttavia, aiuta a comprendere. A comprendere, se non altro, che distinguere tra vittima e carnefice è sacrosanto: è dovere elementare dell’organizzazione sociale e fondamento del patto che unisce i cittadini: ma non è tutto. Dai tempi della narrazione biblica, molto è cambiato: si è compreso non solo che difendere i diritti di “Caino” è ciò che distingue un sistema democratico dai regimi illiberali, ma anche che – e accettarlo non è stato facile – un po’ di “Abele” è rintracciabile in tutte (o quasi) le carriere criminali. Questo significa “giustificare” chi delinque? attenuarne le responsabilità? attribuirne la colpa alla società? Assolutamente no. Significa contribuire a comprendere la miseria umana per aiutare tutti (gli innocenti e i colpevoli, i quasi-innocenti e i quasi-colpevoli) a emanciparsene. A provare, come è possibile, a emanciparsene. Oggi, il nome di Luciano Carmeli non dice nulla a nessuno. Qualche settimana fa era, alla lettera, la pietra dello scandalo: condannato in appello all’ergastolo in quanto complice (faceva il “palo”) dell’omicidio del gioielliere Ezio Bartocci – a Milano, nel luglio del 1999 – Carmeli era stato rilasciato dal carcere di Opera il 26 giugno scorso. Tossicomane dall’età di 13 anni, malato terminale di cancro, era stato giudicato – come prevede la legge – “incompatibile” con la detenzione e rimesso in libertà. Da qui un clamore assordante e indecente, immediatamente proiettato sulla sfera politico-istituzionale, contro un provvedimento considerato come il “segnale intollerabile” di una giustizia “lassista” e “perdonista”. Il fatto che il Carmeli, senza un alloggio e senza alcuna risorsa, fosse ritornato nel suo quartiere (lo stesso del gioielliere ucciso) aveva creato, comprensibilmente, ulteriore sconcerto. Poi, raggiunto e intervistato da Caterina Pasolini di Repubblica al pronto soccorso dell’ospedale San Raffaele, Carmeli aveva raccontato la sua “vita dentro e fuori”: e a me, leggendo l’intervista, era capitato di pensare che mi facevo coinvolgere troppo dal destino di quel “Caino”. Non casualmente. Anni fa mi ero interessato – insieme a don Luigi Ciotti – di una vicenda simile: quella dei tre malati di Aids di Torino, rilasciati perché “incompatibili” col carcere e che, una volta fuori, avevano compiuto alcune rapine. Lo scandalo fu tale che la legge sull’incompatibilità tra carcere e Aids venne modificata in senso pesantemente restrittivo. Nessuno si curò del fatto che i tre rapinatori, nel giro di pochi mesi, finirono – tutt’e tre – uccisi dall’Aids. Nessuno si curerà del fatto che Luciano Carmeli, 47 anni, tossicomane da oltre 30, è morto, ucciso dal cancro, lo scorso 16 luglio, dopo ventuno giorni di – chiamiamola così – “libertà”. Le parole più appropriate vengono dalla vedova del gioielliere: “Ancora dolore… Ancora lutto…”.
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