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Vietato assumere irregolari, vietato regolarizzare i senza lavoro

articolo - italia - - - L'Unità - Luigi Manconi - A buon diritto - Promemoria per la sinistra

[01/10/02]

Questa è la storia di Yatma Gningue, senegalese di 45 anni, e di molti come lui. Vittime anonime e silenziose di una legge che vieta ai datori di lavoro di assumere chi non sia in possesso del permesso di soggiorno e che, allo stesso tempo, non prevede il rilascio del permesso di soggiorno a chi non abbia la garanzia di un lavoro.
Laureato in lingue, Yatma Gningue ha lavorato come insegnante e traduttore e come titolare di un’impresa di servizi con venti dipendenti. Nel novembre dello scorso anno, dopo una breve permanenza in Francia, giunge nel nostro paese, allarmato per le possibili ritorsioni a seguito della sconfitta elettorale del partito nel quale militava e per il quale aveva ricoperto la carica di consigliere comunale a Rufisque, la sua città. In Italia, Gningue cerca lavoro come insegnante ma, nonostante l’esito positivo del colloquio presso un istituto linguistico di Pavia, non riesce a ottenere l’assunzione perché sprovvisto – come si è detto - di permesso di soggiorno. Da allora, Yatma Gninugue è un irregolare e la nuova legge sull’immigrazione lo condanna a rimanere tale.
Qualche settimana fa, Gningue, assistito da un avvocato di Pavia, ha presentato ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo affinché sia dichiarata la illegittimità delle disposizioni sull’ingresso, il soggiorno e l’allontanamento degli stranieri dal territorio dello Stato, previste dalla legge 189/2002 (la Bossi-Fini, appunto), in quanto ritenute in contrasto con gli articoli 2, 3, 10 e 16 della Costituzione italiana, in riferimento agli articoli 1 e 14 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. In particolare, appare insanabile il conflitto con quella norma costituzionale che tutela il diritto di circolare e soggiornare liberamente nel territorio dello Stato, “salvo le limitazioni che la legge stabilisce in via generale per motivi di sanità o di sicurezza”.
La vicenda richiama - ma senza averne, è ovvio, l’ironia liberatoria - il Comma 22 del romanzo di Joseph Heller e del film di Mike Nichols (era il 1970, ricordate?): quella norma militare che affermava: “chi è pazzo può chiedere di essere esonerato dalle missioni, ma chi chiede di essere esonerato dalle missioni non è pazzo”.
Ma qui, ora, c’è poco da ridere (per la verità, neanche allora…); e la questione non riguarda la singola vicenda di Yatma Gningue, ma l’intera legislazione italiana sull’immigrazione. I dati così estesi della regolarizzazione in corso rischiano di far dimenticare, infatti, il contenuto saliente – e l’ideologia - della nuova normativa: ovvero il fatto che essa consideri l’immigrato, esclusivamente, come forza lavoro. Dunque, la sua presenza in Italia è accettata solo “in cambio” di lavoro, è limitata alla durata del lavoro, termina con la conclusione del lavoro. Lo straniero viene ridotto, pertanto, alla sua attività economica; schiacciato sul suo mestiere; piegato alla sua funzione all’interno del sistema della produzione. E davvero, allora, non è retorico concludere che lo straniero come persona viene annullato per far posto allo straniero come merce (una sorta di mezzo di “produzione di merci a mezzo di merci”).
Non solo. Nella vicenda di Yatma Gningue emerge un altro dato, la cui persistente cancellazione spiega una parte dei pregiudizi nei confronti degli stranieri: a lasciare il proprio paese non è (non è solo, non è principalmente) la “folla lacera” dei “dannati della terra”. A emigrare sono, spesso, i più giovani, i più intraprendenti, i più istruiti e colti: coloro che dispongono di maggiori risorse psicologiche e intellettuali e di maggiore capacità di relazione, di iniziativa, di innovazione. Come, appunto, quel Yatma Gningue che una legge iniqua vuole rispedire al suo paese. O, più probabilmente, nella clandestinità.


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