Quando hanno aperto la cella era già tardi perchè...
“Quando hanno aperto la cella / era già tardi perché / con una corda sul collo / freddo pendeva Michè” (Fabrizio De Andrè). Tra “custodi” e “custoditi”, c’è spazio per altro? C’è spazio per figure di garanzia e per ruoli indipendenti, capaci di assicurare relazioni più eque e maggiore tutela dei diritti?
articolo - italia - - - L'Unità - Luigi Manconi - A buon diritto - Promemoria per la sinistra
[26/05/03] “Quando hanno aperto la cella / era già tardi perché / con una corda sul collo / freddo pendeva Michè” (Fabrizio De Andrè). Tra “custodi” e “custoditi”, c’è spazio per altro? C’è spazio per figure di garanzia e per ruoli indipendenti, capaci di assicurare relazioni più eque e maggiore tutela dei diritti?
Non è una domanda semplice se riferita al carcere: al luogo, cioè, dove tutte le mediazioni sembrano ardue, dove domina la logica dei rapporti di forza e dove il principio d’autorità si basa sul pieno controllo di una parte a opera di un’altra.
Dentro quel sistema di relazioni così asimmetrico, è possibile introdurre nuove forme di mediazione? Questa difficile scommessa sta dietro l’istituzione del Garante delle persone private della libertà personale, votata all’unanimità dal consiglio comunale di Roma nei giorni scorsi. Ma che relazione c’è tra questa figura istituzionale e la concreta vita reclusa? Per tentare una risposta, consideriamo una notizia sfuggita ai più. È la storia, la fine della storia, di Marco De Simone, impiccatosi a Rebibbia il 1° maggio scorso, dopo aver urlato per una notte e un giorno la sua disperazione. Era arrivato tre giorni prima, destinato alla sezione minorati psichici del carcere romano; una sezione dove i disagi “fisiologici” della reclusione sono aggravati dalle patologie dei detenuti. Non molto tempo addietro, nella stessa sezione dello stesso carcere, Claudio Menna aveva preceduto Marco De Simone nella scelta di togliersi la vita.
Il problema (uno dei problemi) è che - qui come altrove - manca un supporto medico e psicologico, disponibile 24 ore al giorno e in grado di fornire assistenza costante. Per questo motivo, un gruppo di detenuti di Rebibbia ha deciso di sostenere, per tutto il 2003, i costi di un gruppo di sostegno psicologico, formato da professionisti, che intervenga in aiuto dei più deboli, in particolare nel momento del primo impatto con la vita carceraria.
Non va dimenticato, infatti, che quasi il 55% dei detenuti che si tolgono la vita, lo fa nei primi sei mesi di reclusione e oltre il 64% nel corso del primo anno. D’altra parte, è mai possibile che debba essere la buona volontà dei reclusi a supplire a un vuoto istituzionale tanto grave? Ovviamente no: e proprio questo ci fa ritenere che una figura come quella del Garante possa giocare – in questa come in altre circostanze - un ruolo positivo. Possa allentare le tensioni, creare uno spazio di mediazione all’interno del carcere, assicurare al recluso condizioni di detenzione meno afflittive di quelle attuali. Per riuscire in questa azione – è evidente – vanno riconosciuti al Garante poteri ispettivi e di intervento, che lo mettano in grado di prevenire possibili abusi e gli consentano di rendere pubbliche inadempienze e iniquità. Non sarà facile: e, tuttavia, maggioranza e opposizione del consiglio comunale di Roma hanno deciso, come si dice, di provarci: non certo perché il Garante possa essere il toccasana, ma perché sembra una buona strada da sperimentare. In altre città (Firenze, Milano, Genova, Cosenza…) il dibattito è in corso. Vorranno pensarci, magari, anche gli amministratori sardi, riflettendo sulla morte di Ivan Ditriiev, bulgaro di 22 anni, tossicodipendente da 10, suicidatosi con un lenzuolo dopo pochi giorni di reclusione nel carcere di Macomer (la maggior parte dei detenuti che si tolgono la vita, lo fanno come “Michè”). Nelle carceri sarde, è il quarto suicidio in quattro mesi.
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