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Carceri, qualcosa so di Paolo

Gli ultimi mesi sono stati particolarmente crudeli per quanto riguarda le carceri italiane. Cresce l'affollamento, aumenta il numero dei suicidi e dei casi di “malasanità”; parallelamente si alimenta una polemica grottesca, se è vero che chi ricopre importanti cariche istituzionali continua a parlare delle prigioni come di “alberghi a cinque stelle”. Riportare l'attenzione dell'opinione pubblica sui dati di fatto si fa vieppiù difficile, perché il discorso pubblico è inquinato da troppi fattori emotivi.

articolo - italia - - - Unita' - Andrea Boraschi, Luigi Manconi - A buon diritto - Promemoria per la sinistra

[23/09/04] Gli ultimi mesi sono stati particolarmente crudeli per quanto riguarda le carceri italiane. Cresce l'affollamento, aumenta il numero dei suicidi e dei casi di “malasanità”; parallelamente si alimenta una polemica grottesca, se è vero che chi ricopre importanti cariche istituzionali continua a parlare delle prigioni come di “alberghi a cinque stelle”. Riportare l'attenzione dell'opinione pubblica sui dati di fatto si fa vieppiù difficile, perché il discorso pubblico è inquinato da troppi fattori emotivi. Da anni è in corso una campagna politica e mediale di natura ansiogena, alla quale è difficile non cedere. L'«emergenza sicurezza» è diventato uno dei punti chiave della vita pubblica, nonostante molti dei dati reali, relativi ai fenomeni di criminalità piccola e grande, vadano in direzione opposta. E chi ha brandito questa emergenza lo ha fatto, non senza calcolo, per motivare la retorica della “certezza della pena”, che poi significa una “giustizia inesorabile”. Ma auspicare l'inesorabilità della giustizia vuol dire ridurre questa a un mero apparato sanzionatorio. Eppure, la giustizia dovrebbe essere qualcosa di più. Cavalcare quella retorica significa allora coltivare una grave presbiopia, che induce a preoccuparsi ossessivamente che a ogni reato corrisponda una punizione esemplare; e a trascurare condizioni e criteri di tale punizione. L'importante, insomma, è che una condanna venga emessa. Di cosa succede dopo, non ci si cura. Dall'inizio dell'anno, secondo le prime parziali stime, in carcere si sono tolte la vita 32 persone. Si tratta, per lo più, di giovani, e con reati di scarso rilievo alle spalle. Lo ricordava Adriano Sofri, sul Corriere della Sera, pochi giorni or sono: “(…) di fronte a questo stato di dissipazione di corpi umani per la prima volta, nella storia repubblicana e pre-repubblicana, da 13 anni non c'è stata nessuna misura di clemenza”. L'indultino non può essere considerato tale: una goccia in un oceano, dal momento che ha rimesso in libertà, nell'arco di un anno, poco più di 5.000 detenuti: molti dei quali sarebbero comunque usciti di lì a breve, visto che la misura si applicava solo a condannati con meno di due anni da scontare. Quelli che qui riportiamo sono frammenti di una testimonianza di Graziano Scialpi, recluso nel carcere “Due Palazzi” di Padova, pubblicata integralmente sul sito dell'associazione Ristretti Orizzonti (www.ristretti.it: un sito prezioso, indispensabile non solo a chi si interessi di carcere, ma a chiunque voglia fare politica seriamente). Spiega come la giustizia non può mai dirsi giusta se, oltre ad accertare l'illecito o il crimine, non è in grado di determinare una pena equa e utile alla società (e allo stesso condannato). «Non conoscevo Paolo. Non abbiamo avuto modo di conoscerci. (…) Però, anche se poco, qualcosa so di lui. Appena è entrato in cella mi è sembrato che fosse un pesce fuor d'acqua. Impressione che ha trovato conferma quando mi ha spiegato che stava scontando tre mesi per resistenza a pubblico ufficiale: avrebbe dovuto tornare in libertà il 14 ottobre. In secondo luogo mi sono reso conto che non era messo bene, nel senso che non aveva fonti di sostegno o qualcuno che lo seguisse nella carcerazione. Infine ho capito che aveva notevoli problemi a livello fisico. (…) Sabato mattina (11 settembre), dopo aver bevuto il caffè insieme a me, Paolo si è vestito e, trascinando la gamba sinistra, è andato nella saletta ricreativa, dove è possibile trascorrere le ore d'aria, mentre io sono restato in cella a studiare. Ma, dopo nemmeno mezz'ora, è ritornato, dicendo di non sentirsi bene. Dopo essersi steso sulla branda, si è alzato di scatto ed è corso in bagno, squassato da conati di vomito. Iniziando a preoccuparmi, gli ho chiesto cosa sentisse, se aveva male di stomaco. Lui mi ha risposto che sentiva i sudori freddi, che stava molto male, ma che non era lo stomaco. Rendendomi conto della sua sofferenza, ho chiamato l'agente in servizio al piano, spiegandogli che il mio compagno si sentiva molto male. Dopo aver chiesto l'autorizzazione per telefono, l'agente è tornato per informarsi se Paolo ce la faceva a scendere all'infermeria da solo. (…) Dopo una ventina di minuti è ritornato in cella. Gli ho chiesto cosa gli avesse riscontrato il medico e lui mi ha risposto: Mi ha fatto un'iniezione, mi ha dato delle gocce e mi ha detto di mangiare in bianco. Quindi si è steso sulla branda girandosi e rigirandosi senza trovare pace. (…) Dopo qualche minuto si è addormentato all'improvviso. (…) Subito ha iniziato a russare forte e il suo respiro era sofferente, intervallato da apnee di dieci-quindici secondi. (…) È andata avanti così per una decina di minuti, finché il respiro si è interrotto per 15, 30, 45 secondi. Ho alzato gli occhi e l'ho guardato, cercando un segno che avesse ripreso a respirare senza che me ne fossi accorto, ma Paolo era immobile e i secondi passavano sempre più veloci. Mi sono alzato gli sono andato vicino e l'ho chiamato, ho urlato il suo nome più volte, scuotendolo per un braccio. Poi gli ho tastato il collo, cercando un battito che non c'era. Mi sono affacciato alla porta della cella, gridando all'agente che era lì vicino di chiamare il medico, perché il mio compagno aveva smesso di respirare. Quindi sono tornato da Paolo, gli ho steso le gambe e ho iniziato a praticargli il massaggio cardiaco e la respirazione bocca a bocca. La seconda volta che ho soffiato, dalla sua bocca è uscito un fiotto di rigurgito liquido. Nel frattempo l'agente ha aperto la porta della cella, permettendo di entrare a due lavoranti che si trovavano in sezione. Insieme abbiamo tirato giù dalla branda Paolo, adagiandolo sul pavimento di cemento nudo. Dopo averlo tenuto per qualche momento girato sul fianco, per permettere ai suoi polmoni pieni di liquido di spurgarsi, sono ripresi sempre più frenetici il massaggio cardiaco, la respirazione bocca a bocca, i pugni sullo sterno, mentre altri detenuti si accalcavano sulla porta della cella, affannandosi a dare consigli del tipo: fagli bere un po' d'acqua, tiragli su le gambe, mettigli un po' di aceto sotto il naso. Nessuno voleva accettare la realtà tragica della situazione. (…) Dopo un'eternità, i cinque - sette minuti che sono necessari a percorrere il tragitto dall'infermeria al terzo piano, è arrivato il medico, ha auscultato il muto petto di Paolo e ha dato ordine di metterlo sulla barella. Mentre i ragazzi sollevavano il corpo, il medico ha guardato nel nulla del muro bianco di fronte a sé, mormorando: Lo avevo visto cinque minuti fa…. Poi sono partiti verso l'infermeria. Di Paolo in cella sono rimaste la macchia del rigurgito polmonare sul pavimento, la chiazza sulle lenzuola provocata dal rilassamento della vescica e le sue povere cose che, due ore dopo, ho dovuto mettere in un sacco nero di plastica e consegnare a magazzinieri meravigliati di quanto poco possedesse. Qualcosa so di Paolo. So che aveva lavorato per 25 anni come verniciatore, emigrando anche in Germania, e che i solventi gli avevano corroso i polmoni, rendendolo invalido. So che aveva avuto un grave incidente che lo aveva sciancato, facendogli trascinare la gamba e costringendolo a fare iniezioni per il mal di schiena. (…) So che aveva due figli piccoli che non lo conosceranno. Proprio venerdì sera, non so come, il discorso era caduto sulla morte e lui mi aveva detto: A me interessa vivere solo finché i miei figli saranno maggiorenni. Qualcosa so di Paolo. So che non era un criminale, ma un poveraccio, come ce ne sono tanti. So che non avrebbe mai dovuto entrare in carcere per una condanna di tre mesi. So che, con le patologie di cui soffriva, non avrebbe dovuto finire in carcere nemmeno con una condanna a tre anni». Se a qualcuno tutto ciò appare pietistico o demagogico, beh, è solo affar suo.


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