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Morte e mistero nel carcere di Livorno

Questa è la cronaca di una sconfitta. Oltre un anno fa (25 novembre 2003), in questa stessa pagina, scrivemmo di Marcello Lonzi, morto il 12 luglio 2003 nel carcere delle Sughere di Livorno. Era in prigione per tentato furto e gli rimanevano da scontare quattro mesi di reclusione. Sulla circostanze della sua morte si manifestarono subito molti dubbi. I primi esami autoptici indicarono in una aritmia maligna la causa più probabile del decesso, attribuito a un evento naturale patologico spontaneo (“sindrome di morte improvvisa”). Ma il corpo di Marcello Lonzi riportava ferite, lesioni e traumi che difficilmente potevano essere spiegati dal malore che lo ha ucciso.

articolo - italia - - - L'Unità - Andrea Boraschi, Luigi Manconi - A buon diritto - Promemoria per la sinistra

[30/12/04] Questa è la cronaca di una sconfitta. Oltre un anno fa (25 novembre 2003), in questa stessa pagina, scrivemmo di Marcello Lonzi, morto il 12 luglio 2003 nel carcere delle Sughere di Livorno. Era in prigione per tentato furto e gli rimanevano da scontare quattro mesi di reclusione. Sulla circostanze della sua morte si manifestarono subito molti dubbi. I primi esami autoptici indicarono in una aritmia maligna la causa più probabile del decesso, attribuito a un evento naturale patologico spontaneo (“sindrome di morte improvvisa”). Ma il corpo di Marcello Lonzi riportava ferite, lesioni e traumi che difficilmente potevano essere spiegati dal malore che lo ha ucciso. Sul volto del giovane l’autopsia riscontrò tre ferite non superficiali, prodottesi con tutta probabilità “simultaneamente”; e, sul torace, una escoriazione a forma di V. La relazione di consulenza tecnica medico-legale, predisposta dal Tribunale di Livorno, imputò le ferite sul volto alla dinamica del decesso: Lonzi, secondo questa ricostruzione, sarebbe stato colto da malore e, nella caduta, avrebbe violentemente picchiato il volto contro un termosifone o contro lo stipite della porta. Alla stessa origine viene ricondotta l’escoriazione sul torace, mentre altri rilievi autoptici vengono imputati ai tentativi di rianimazione (ad esempio, la frattura della seconda costola di sinistra in sede iuxta-cartilaginea). L’evidenza e la gravità delle ferite spinsero Maria Ciuffi, la madre di Marcello Lonzi, a indagare sulla morte del figlio, a non accontentarsi delle ipotesi formulate dalla consulenza tecnica medico-legale, a tentare di andare fino in fondo. Così iniziò a raccogliere prove e indizi e quelle voci che, sempre più insistenti, circolavano nel carcere e negli ambienti più prossimi: e che adombravano violenti pestaggi ai danni del figlio. Inoltre fece realizzare una prima autopsia di parte, che sollevava molti dubbi sulla dinamica del decesso. In sostanza: la morte dovuta a cause naturali, per quanto fosse l’unica presa in considerazione, si rivelava un’ipotesi assai debole. Lonzi era un ragazzo sano e di costituzione robusta; le uniche - davvero le uniche - alterazioni rinvenute nella sua fisiologia, giudicate dall’autopsia del tribunale “relativamente modeste”, erano a carico dell'apparato cardiaco (riduzione del calibro di un ramo coronario): ma non furono rilevate occlusioni tali da portare all’infarto del miocardo. L’ipertrofia ventricolare era (ed è rimasta) la causa di morte più accreditata, semplicemente perché non lascia tracce nell’organismo. Dunque, non potendosi dimostrare alcuna patologia letale, per una fisiologia sana e vitale, se ne è ipotizzata una che non avesse bisogno di “prove”. Quanto alle ferite rinvenute sul cadavere, fu proprio la loro entità a sollevare dubbi e interrogativi. Una raggiungeva l'osso sottostante, un'altra penetrava profondamente fino a comunicare con il vestibolo. La perizia di parte si domandava se fosse “compatibile la gravità e profondità di simili lesioni con una mera caduta da fermo”; e chiedeva se non fosse “necessaria una ulteriore spinta o pressione per produrre tali conseguenze”. D’altra parte, le testimonianze raccolte da Maria Ciuffi sostenevano che il figlio, durante l’isolamento, era stato ripetutamente picchiato dalle guardie carcerarie. E, inoltre, che - a fronte della terapia metadonica cui era sottoposto - Marcello Lonzi continuava a “farsi” con il gas delle bombolette da cucina a disposizione dei reclusi. Ma dell'isolamento, delle tensioni e degli scontri che Lonzi aveva avuto con altri detenuti e con il personale penitenziario, Maria Ciuffi non era mai stata informata dalla direzione del carcere: e venne avvisata dell'avvenuto decesso del figlio con dodici (12!) ore di ritardo. La vicenda giudiziaria, nata dalla morte del giovane Lonzi - e, soprattutto, dalla determinazione modesta ed eroica della madre - ha trovato la sua conclusione poche settimane fa, il 10 dicembre 2004, quando il Gip del tribunale di Livorno, Rinaldo Merani, ha archiviato il caso. È lo stesso giudice che, nel settembre scorso, aveva respinto una prima richiesta di archiviazione del pubblico ministero. A suo avviso, il supplemento di indagini avrebbe portato “a escludere ipotesi diverse da quelle che riconducono la morte del Lonzi a cause naturali”. Nell’autopsia accreditata dalla decisione del giudice, il medico legale parla di “un’aritmia maligna instauratasi su una ipertrofia ventricolare sinistra”. Il caso, dunque, al momento è chiuso e appare “risolto”. Resta però da dire - e molto - a proposito delle incongruenze, se non dei veri e propri misteri, di cui è disseminata questa vicenda. Chi volesse documentarsi ulteriormente può cominciare da una ricostruzione puntigliosa e circostanziata degli ultimi istanti di vita di Lonzi e del soccorso prestato dal momento del rinvenimento del suo corpo esanime (http://www.ristretti.it/areestudio/disagio/lonzi/cronaca.htm): già da questa documentazione, che riporta fedelmente le evidenze dibattimentali, risultano molte zone d’ombra. Sia chiaro: non abbiamo motivi per contestare nello specifico il lavoro del tribunale di Livorno: ma la stessa aritmia maligna sin qui ipotizzata potrebbe essere insorta come reazione ai traumi all'origine di quelle stesse ferite: qualora queste non fossero state provocate dalla semplice caduta seguita al malore, ma avessero preceduto quest’ultimo. Qualora queste ferite, in altre parole, gli fossero state inferte. Maria Ciuffi aveva scritto al ministro della Giustizia, si era rivolta ad alcuni parlamentari e aveva conquistato l'attenzione del presidente della Repubblica, che dichiarò di voler seguire la vicenda. Maria Ciuffi cercava una spiegazione a ciò che appariva inspiegabile. Questa spiegazione, infine, è giunta. Rimane solo un punto, uno solo: talmente clamoroso e orrendo da impedire di considerare il caso definitivamente chiarito. Ci riferiamo ad alcune foto che ritraggono il corpo di Marcello Lonzi riverso sul pavimento di una cella sporca, e macchie di sangue ovunque. Mostrano, quelle foto, delle profonde ferite lacero-contuse ed ecchimosi diffuse sul corpo. Sono le immagini di un corpo cui sono stati inferti gravi traumi e colpi pesanti. C'è qualcosa di evidente, di vistosamente evidente, in quelle immagini, che va ben oltre la patologia vascolare che avrebbe ucciso Lonzi. C'è qualcosa di oscenamente violento. Marcello Lonzi sarà anche morto per cause naturali: ma qualcuno è in grado di fugare il dubbio che sia stato colpito ripetutamente, prima della morte? L’11 dicembre scorso l'avvocato Vittorio Trupiano, annunciando un ricorso al Csm e un esposto al Consiglio Europeo di Strasburgo, dichiarava: “questa storia non può e non deve finire qui, farò tutto il possibile perché il caso venga riaperto”. Staremo a vedere. Non ci resta che ricordare che in quel carcere di Livorno, le Sughere (costruito per ospitare 270 detenuti e che la scorsa estate ne conteneva 420), carente di personale, dotato di un impianto elettrico fatiscente, e dove le finestre delle celle non resistono più neanche all'acqua piovana: in quel carcere, dicevamo, nell'ultimo anno e mezzo si sono verificati tre tentati suicidi; e nell'ultimo anno e mezzo si sono tolti la vita quattro detenuti. E poi, nel luglio del 2003, un altro detenuto, stroncato da un malore, è morto. Ma prima, non molto prima, per quanto la ragione e il buon senso ci suggeriscono, aveva subito violenze. Scrivere a abuondiritto@abuondiritto.it


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