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Storia di un prigioniero siriano

articolo - italia - - - L'Unità - Luigi Manconi - A buon diritto - Promemoria per la sinistra

[10/11/02]

Yousef Wakkas, siriano, ha meno di cinquant’anni, ma è come se ne avesse molti di più: tante sono le esperienze, le conoscenze e le vite che sembra aver vissuto e – ciò che maggiormente conta - che sa raccontare (Fogli sbarrati, Edizione Eks&Tra 2002). Oggi la sua esistenza reale si svolge tra le mura di un carcere, quello di Busto Arsizio, dove ha già trascorso dieci anni per traffico internazionale di sostanze stupefacenti. La storia di Yousef Wakkas, e di molti come lui, consente di dare un nome e un cognome, un corpo in carne e ossa, una biografia personale a quella che, altrimenti, risulterebbe solo una percentuale astratta. I numeri dicono, infatti, che nelle carceri italiane gli stranieri costituiscono ormai circa il 30% dell’intera popolazione reclusa. Una percentuale elevatissima, che fa paura e che sembra confermare tutti i più radicati pregiudizi e quell’equazione velenosa: straniero=criminale. E, invece, le cose non stanno affatto così. E per due ragioni. La prima: provate a trasferire, da un giorno all’altro, una popolazione di vicentini o di sassaresi (parlo per me) nelle periferie degradate di Düsseldorf o di Malmö: vedrete che, infallibilmente, la percentuale di crimini attribuiti a quei vicentini o a quei sassaresi sarà superiore a quella registrata tra i residenti da più generazioni a Düsseldorf o a Malmö. La seconda ragione è altrettanto inequivocabile. I dati dicono che la percentuale di detenuti stranieri, rispetto alla stima dell’intera popolazione straniera, è 15 volte superiore a quella dei detenuti italiani. Ne dovrebbe derivare, a conferma degli stereotipi prima citati, che lo straniero avrebbe una vocazione a delinquere quindici volte superiore a quella del cittadino italiano. Ma il trucco c’è e, per una volta, si vede. Lo straniero “delinque più” dell’italiano per la ragioni prima ricordate, ma i dati di riferimento sono gravemente alterati dal fatto che lo straniero finisce in carcere, e vi resta, assai più dell’italiano che delinque (o che è accusato di farlo). Rispetto al residente, infatti, l’immigrato – nella gran parte dei casi - non conosce la lingua italiana e le legge italiane; non dispone di un avvocato di fiducia; non usufruisce degli arresti domiciliari e delle misure alternative; non ottiene i benefici previsti. Ne consegue, tra l’altro, che – mentre 40 detenuti italiani su cento sono in attesa di giudizio – quella percentuale raggiunge il 60% tra gli stranieri. All’interno di questa popolazione reclusa, c’è Yousef Wakkas e altri come lui. Alcuni hanno intrapreso un faticoso percorso di emancipazione, che passa – in più di un caso – attraverso l’esercizio della scrittura: si vedano i racconti pubblicati nel volume Il doppio sguardo (ADNKronos Libri 2002) e, in particolare, il racconto di Imed Mehadheb, scrittore tunisino recluso nel carcere Le Vallette di Torino. E si segua la recente rubrica “Scritti dal carcere”, curata da Rita D’Amario, sul sito www.libreriadonna.com. Forse non è più vero, come pensava Victor Hugo, che “la storia dei popoli è scritta sui muri delle prigioni”: ma è certo che la scrittura dei prigionieri continua a parlarci, meglio di altre forme espressive, della storia del mondo.


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