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articolo - italia - - L'Unità - Luigi Manconi - Libertà Personale

[26/10/02]

I fatti sono questi. Alle 17.15 dell’11 febbraio del 2001, due marescialli dei carabinieri, in servizio presso la Compagnia Roma-Casilina, trovano il 27enne Andrea Panatta morto suicida all’interno della camera di sicurezza di quella stessa compagnia, dove era stato rinchiuso dalla notte precedente. Il giovane, ritenuto responsabile di detenzione a fini di spaccio di sostanze stupefacenti, aveva legato allo “spioncino” della porta la propria cintura dei pantaloni e vi si era appeso, lasciandosi soffocare.

Un suicidio come i molti che si verificano nelle carceri e nei luoghi di detenzione e che, nell’88% dei casi, ricorrono alla stessa tecnica: l’impiccagione. Qui, un dettaglio aggiunge atrocità ad atrocità e segnala possibili e – se confermate – assai gravi responsabilità. Quella cintura non doveva essere in alcun modo a disposizione della persona trattenuta in cella di sicurezza; e, infatti, i carabinieri di vigilanza sostengono che si trovava al di fuori, “su uno sgabello di metallo all’esterno della camera di sicurezza”. Dunque, come è giunta nelle mani di Andrea Panatta?

Da qui l’azione legale dei genitori nei confronti dei militari in servizio presso la Compagnia carabinieri Roma-Casilina e la querela-denuncia, presentata il 9 agosto scorso dall’avvocato Giacinto Canzona, in cui si documenta la “condotta gravemente omissiva dei carabinieri”. D’altra parte, “lo spioncino della camera di sicurezza avrebbe dovuto essere controllato a vista 24 ore su 24”: e la mancata vigilanza ha consentito a Panatta di “utilizzare lo stesso come estremo per attaccarvi la cintura”. La denuncia è ora all’esame della procura della Repubblica di Roma, ma resta - al di là delle decisioni del magistrato – il dato crudele di un giovane di 27 anni, presunto responsabile di un reato (di non grave entità, tutto sommato), che si toglie la vita prima ancora del trasferimento in carcere. Si tratta, a ben vedere, di una ordinaria, ordinarissima realtà. In carcere ci si ammazza 19 volte più di quanto ci si ammazza fuori dal carcere; il 45% dei suicidi non ha ancora subito una condanna definitiva; il 53% ha meno di 35 anni; e – questo è il dato più drammatico – quasi il 55% si toglie la vita nei primi sei mesi di reclusione e quasi il 64% nel corso del primo anno. In altri termini, la scelta del suicidio coinvolge, innanzitutto, i detenuti più giovani, incensurati o con una carriera criminale recente, con imputazioni non particolarmente gravi e con minore dimestichezza con i circuiti carcerari, gli stili di vita e le gerarchie lì dominanti. Coloro, cioè, che non hanno la minima idea del proprio destino e ne temono l’oscurità e l’imprevedibilità. Nel caso di Andrea Panatta, il peso di questa incertezza è stato, forse, determinante.


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