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Cominciamo dall'indulto per avere carceri più umane

articolo - italia - - - La Repubblica - Luigi Manconi - Libertà Personale

[24/10/02]

Piero Fassino e Francesco Rutelli devono una risposta: e non tanto ad Alfredo Biondi e a Carlo Taormina, parlamentari di Forza Italia, e nemmeno a Giuliano Pisapia, deputato di Rifondazione comunista. Devono una risposta, innanzitutto e soprattutto, a oltre 57.000 cittadini, italiani e stranieri, presenti nel nostro territorio, ma che non godono delle libertà e dei diritti di cui noi tutti godiamo. Sono i reclusi nelle galere italiane. Quasi la metà di essi - vale la pena ricordarlo ogni volta, con pazienza - sono in attesa di sentenza definitiva e, dunque, secondo la carta costituzionale, innocenti a tutti gli effetti. Chi verrà condannato - giustamente o ingiustamente - dovrà subire, quale pena aggiuntiva, un processo di mortificazione della propria dignità e di progressivo annullamento della propria personalità. Non sono io a dirlo: lo dice chiunque abbia visitato anche una sola cella in vita sua; e lo dice lo stesso presidente del Consiglio (testualmente: «Le condizioni nelle carceri italiane non rispettano la dignità dell' individuo»). Bene, da molte settimane, la maggioranza dei detenuti sta conducendo una lotta totalmente pacifica; e la mobilitazione ha, tra i suoi obiettivi, l' approvazione di un provvedimento di indulto. L' ulteriore articolazione di questa misura è questione successiva: Biondi e Taormina ipotizzano un indulto di tre anni, sempre che non si commetta un nuovo reato nei cinque anni successivi; Pisapia propone la sospensione dell' esecuzione della pena fino a tre anni, revocabile nel caso si torni a delinquere nei sette anni seguenti. Entrambe le soluzioni meritano considerazione ed entrambe rispondono a due esigenze fondamentali. La prima: dare un segnale di attenzione verso quell' umanità dolente e anonima, che non ha voce e non ha rappresentanza, e che vive in quella sorta di "discarica sociale" che è il carcere. Il carcere è, per definizione e per costituzione, una macchina criminogena, che produce e riproduce all' infinito delitto e castigo e, ancora, delitto e castigo. Senza tregua e senza scampo. Per questo, è fondamentale introdurre elementi di pacificazione in quell' universo chiuso: e - soprattutto - è importantissimo trasmettere in quello spazio fisico e mentale - dove domina l' idea che «non c' è nulla da perdere» - la consapevolezza che, invece, non tutto è perduto; che tutti possono avere qualcosa da perdere perché tutti possiedono qualcosa e dispongono di qualcosa. Qualcosa su cui fare affidamento e su cui investire energie e aspettative. L' indulto può rappresentare - simbolicamente e concretamente: molto concretamente - questo. O meglio: una parte di questo. E può costituire (è la seconda ragione che lo rende auspicabile) il più importante strumento - per quanto temporaneo - di riduzione dell' affollamento carcerario e, dunque, di miglioramento della vita dei detenuti. Oggi, la popolazione reclusa sfiora le 58.000 unità: ovvero il 30% in più di quanto previsto. In altre parole, ci sono 130 detenuti per cento posti effettivamente disponibili. E l' affollamento comporta esiguità di spazio, promiscuità, tensione e reciproca aggressività, carenza di servizi e di strutture. Tutto ciò, in dimensioni abnormi e disumane. Perché questa situazione interpella, deve interpellare, Piero Fassino e Francesco Rutelli? Perché tutti abbiamo presente cosa accadde due anni fa. All' epoca, la Chiesa cattolica proclamò il "Giubileo dei detenuti", chiedendo alle autorità pubbliche di tutto il mondo «un segno di clemenza». In Italia, quel «segno» non vi fu, a causa della codardia della classe politica (e Fassino, allora ministro della Giustizia, lo sa bene, perché fu tra i pochi che si adoperò per una soluzione positiva). Opposizione e maggioranza temettero di «pagare», in termini elettorali, le conseguenze dell' approvazione di una misura ritenuta impopolare: e preferirono addebitarsi vicendevolmente la responsabilità del rifiuto. E, così, non se ne fece nulla. All' interno delle carceri, le speranze alimentate dalle parole delle gerarchie ecclesiastiche e dal dibattito sviluppatosi in sede pubblico-politica crearono un clima di attesa. Fatale che l' aspettativa delusa si rivolgesse contro chi aveva investito in essa, i detenuti stessi, traducendosi in una frustrazione ancora maggiore. E le speranze incentivate e disattese innescarono, inevitabilmente, un meccanismo autodistruttivo. La violenza latente non si indirizzò contro terzi (come nelle rivolte degli anni '70 e '80), ma si ripiegò su se stessa. Anche per questo, forse, il picco dei suicidi, dei tentati suicidi e degli atti di autolesionismo si è registrato proprio nell' ultima parte di quell' anno 2000: ovvero quando le speranze di "clemenza" si rivelarono - definitivamente - vane. (Non esiste, ovviamente, una prova scientifica di tale correlazione, ma gli indizi sono molti e convergenti). Quella situazione non deve ripetersi. Biondi e Taormina, del centrodestra, e Pisapia, della sinistra, hanno presentato le loro proposte; e Michele Vietti, sottosegretario alla Giustizia, e Sandro Bondi, autorevole esponente di Forza Italia, stanno operando nella medesima direzione. Sarebbe cosa buona e giusta che il centrosinistra, attraverso i suoi leader, presentasse un suo disegno di legge e si impegnasse affinché la prospettiva dell' indulto diventi, in tempi brevi, norma dello Stato. Si potranno misurare, così, la serietà e l' autenticità delle dichiarazioni garantiste del Polo e - ciò che più conta - rispondere a una domanda di equità, finora trascurata o negata.


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