A Buon Diritto - Associazione per le libertàLogo dell'Associazione
Libertà Terapeutica Libertà Religiosa Libertà Personale
libertà terapeutica come espressione della sovranità dell'individuo sul proprio corpo... il diritto di professare liberamente la propria confessione religiosa... la tutela della libertà personale all'interno degli istituti di pena...
Altri Articoli
Links correlati

Morire di carcere

documento - italia - - A Buon Diritto - - Libertà Personale

[04/09/02]

In carcere ci si ammazza quindici, sedici volte più di quanto ci si ammazzi fuori dal carcere. Se consideriamo, infatti, l'intera popolazione italiana, su diecimila individui si registra un tasso di suicidi corrispondente allo 0.7; se analizziamo la sola popolazione carceraria, troviamo che, su diecimila detenuti, i suicidi sono oltre 12.

Può sembrare un'ovvietà, dal momento che il senso comune suggerisce (non sempre a ragione) che ci si toglie la vita quanto si è disperati: e dove si è “più disperati" che in carcere? Ma se questo è vero, come si spiega che non ci si ammazzi con altrettanta frequenza quando si è malati in maniera estrema e irreversibile? Evidentemente, la "disperazione" è una condizione più complessa, costituita da molti fattori e non riconducibile all'assenza di speranza (che speranza può nutrire, secondo i parametri convenzionali, un malato terminale di cancro?).

In altri termini, si può dire che le ragioni che determinano il suicidio sono tante quanti sono i suicidi; e in genere, proprio perché così "personalizzate", sono imperscrutabili. Si può ipotizzare, tuttavia, che a produrre la crisi e la rottura dell'equilibrio (e a costituire la ragione scatenante di quel processo che porta, infine, a togliersi la vita), è la constatazione che non valga la pena vivere. Tale situazione si riproduce più facilmente all'interno di una cella che in una stanza di ospedale. In quest'ultimo luogo, infatti, resiste quella “consolazione” rappresentata dalla vita di relazione: affetti, legami, sentimenti; e possibilità di comunicazione.

Tutto ciò sopravvive in qualche modo anche in carcere, ma in forma intollerabilmente coatta: i rapporti sono quelli imposti dalla condivisione degli spazi chiusi e dalla promiscuità (si considerino i dati, qui riportati, del sovraffollamento); le forme e i tempi della comunicazione, con l'esterno e con l'interno, sono regolati dall'alto; l’aspettativa di vita riguarda una esistenza prigioniera. Tutto ciò impoverisce e inaridisce: e toglie speranza e vita. E può determinare la decisione di farla finita.

Come si vede dalle tabelle accluse, nel corso dell’ultimo decennio il tasso di suicidi in carcere (rilevantissimo anche nel decennio precedente) ha seguito – con poche variazioni – una curva ascendente, che presenta alcuni picchi (1992, 1993, 1997) e che, negli ultimi 3 mesi del 2000, ha conosciuto una crescita particolarmente acuta (27 casi, ovvero oltre il 40% rispetto all’intero anno: vedi la Tabella 7 bis). Si può ipotizzare che una simile impennata sia correlata a una serie di fattori di non facile interpretazione, a motivazioni soggettive e non “oggettivizzabili” e a cause generali, tra le quali – presumibilmente – l’aspettativa nutrita e la frustrazione patita a proposito di un provvedimento di “clemenza” di cui molto si è discusso nel corso di quell’anno. E, in effetti, più di una volta è sembrato che quella prospettiva potesse effettivamente realizzarsi; e che maggioranza e opposizione trovassero l’intesa per approvare un provvedimento di amnistia e/o indulto. E, dunque, le speranze alimentate dalle parole del cardinale Camillo Ruini e di Giovanni Paolo II (nel luglio e nel novembre del 2000), e dal dibattito sviluppatosi in sede politica, hanno creato un clima di attesa: ma la mancata approvazione di una misura di “clemenza” ha mortificato quell’attesa, ha disperso energie e ha dissipato speranze. Fatale che l’aspettativa frustrata si rivolgesse contro chi più aveva investito in essa: i detenuti stessi.

Altro dato significativo è quello relativo alla discrepanza tra statistiche istituzionali e rilevazione empirica dei dati. Basti pensare che nella comparazione tra le cifre ufficiali e quelle reali e verificate, relative a un grande carcere del Nord, emerge che perlomeno quattro suicidi “sfuggono” alla rilevazione del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Se proiettiamo quello scarto sull’intero universo delle carceri italiane, otterremo una percentuale di suicidi, rispetto alla popolazione reclusa, ancora maggiore. Quello scarto é dovuto a più cause. La prima è di natura generale, collegata al faticoso funzionamento degli apparati amministrativi: ma è altrettanto rilevante il ruolo giocato dalla ritrosia del personale di custodia e di quello medico a “riconoscere” i suicidi e a classificarli come tali. Fino a qualche anno fa, non venivano registrati come suicidi in carcere i decessi avvenuti in ambulanza o in ospedale, anche quando immediatamente successivi al tentativo di togliersi la vita attuato in cella. Oggi non è più così, ma la classificazione come suicidio viene, appena possibile, evitata. Ad esempio, nel caso di un suicidio avvenuto nel carcere di Parma, la relazione ispettiva del provveditorato regionale afferma che la morte sarebbe stata provocata da un “incidente”: il detenuto sarebbe salito su uno sgabello, avrebbe messo la testa fra le sbarre e sarebbe morto soffocato a seguito della caduta per terra. Ancora: nel carcere di Monza, la morte di un detenuto marocchino, dovuta all’inalazione del gas del fornelletto, è stata attribuita a una overdose e non classificata come suicidio.

In ogni caso, come si vede, quello dei suicidi, dei tentati suicidi e degli atti di autolesionismo resta un fenomeno che merita di essere indagato senza reticenze e senza censure.


Sito gestito da
iworks
Scrivi al webmaster
© 2002 A Buon Diritto
Associazione per le libertà
Via dei Laghi, 12 - 00198, Roma
abuondiritto@abuondiritto.it
Tel. 06.85356796 Fax 06.8414268