Aumentano i suicidi dietro le sbarre
Nei primi otto mesi dell'anno 39 detenuti si sono tolti la vita: +25%. Ma il Dap tace
articolo - italia - - - Il Manifesto - Matteo Bartocci - Carcere
[21/08/03] Sempre più suicidi nelle carceri italiane. L'allarme, unanime, è lanciato da associazioni come Antigone e dai sindacati di polizia penitenziaria. Gli ultimi dati, elaborati dall'Osapp, Organizzazione sindacale autonoma di polizia penitenziaria, denunciano che solo nei primi otto mesi di quest'anno sono stati 39 i detenuti che si sono tolti la vita, di cui 15 negli ultimi mesi, da giugno a oggi. Un aumento del 25% rispetto all'estate scorsa. Nel 2002 i suicidi in carcere erano stati 52. Ma queste macabre statistiche non sono ufficiali, perché il Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria da oltre un anno e mezzo non rende noti i numeri sull'argomento. Secondo i sindacati, quindi, anche gli atti di autolesionismo e i tentati suicidi sono esplosi, si dice con un aumento del 50%. I motivi di disagio dietro le sbarre non mancano per definizione, ma negli ultimi tempi la situazione, a detta di tutti, è diventata insostenibile. Come dice Leo Beneduci, segretario dell'Osapp, «è ormai evidente che il carcere non funziona. Che si fa in carcere? Che si fa quando si esce? I detenuti vivono in un'assoluta assenza di prospettive». Ma le difficoltà del sistema penale non riguardano solo chi ha subito una condanna. Si riversano anche sul personale di polizia penitenziaria e i direttori. «Il problema del sovraffollamento, - continua Beneduci - non si può risolvere come pensa il ministro Castelli. Costruire nuove carceri sarebbe utile, al limite, solo se non aumentano i detenuti». La polizia penitenziaria, istituzionalmente, dovrebbe essere una sorta di polizia del recupero, che favorisca il reinserimento e la rieducazione del detenuto. Nella realtà finisce per occuparsi di tutto, dai trasferimenti alle manutenzioni, oltre a supplire alla cronica mancanza di altri operatori e figure professionali.
La vera soluzione, non nuova ma invocata anche dall'Osapp, sarebbe il ricorso al carcere solo per i reati più gravi, quelli che destano il maggiore allarme sociale, potenziando l'area penale esterna. Agli eterni problemi delle carceri italiane infatti se ne aggiungono almeno due, dovuti alla politica della Casa delle libertà e dell'ingegner Castelli. Il primo è il taglio finanziario pesantissimo, anche del 40% in due anni, in alcuni settori fondamentali come la sanità, il lavoro esterno, le attività sportive e culturali in carcere, la formazione e l'istruzione dei detenuti. Il secondo è invece di ordine culturale: il guardasigilli vede la condanna penale esclusivamente come una misura repressiva. Un'impostazione ai limiti del premoderno.
Come sottolinea Fabrizio Rossetti, responsabile della Fp Cgil Sicurezza: «Il ministro riduce le questioni carcerarie a parametri di spazi e a quozienti di agenti per detenuto, come si può pensare che abbia una spiccata sensibilità per il disagio di chi in carcere si trova o lavora? Il problema infatti è la direzione politica». Anche la Cgil conferma che i suicidi, come le evasioni del resto, sono in drammatico aumento. Secondo Rossetti le cause della crescita del disagio sono soprattutto due. La prima è l'indultino, la sospensione condizionata della pena recentemente approvata dal parlamento. I detenuti infatti aspettavano da anni un atto di clemenza. Chi opera nel carcere sa e racconta che ne parlavano tra loro tutti i giorni, arrivando anche a forme di protesta pacifiche per ottenerla. Ma hanno ormai capito che il mini provvedimento, oltre tutto osteggiato proprio dalla Lega di Castelli, non soddisferà, se non in minima parte, il loro carico di aspettative. Il secondo aspetto critico sottolineato da Rossetti è il disastro complessivo dell'attuale amministrazione penitenziaria. «Questo carcere uccide la speranza» - afferma - «il governo lo vede come un luogo dove attuare la repressione e sono soprattutto i detenuti più giovani, i più deboli, a risentirne».
I suicidi infatti riguardano quasi sempre detenuti sotto i 25 anni, spesso appena entrati in carcere e in genere negli istituti di primo ingresso come Regina Coeli a Roma. Rossetti denuncia che fino a poco tempo fa esisteva un servizio specifico, chiamato «nuovi giunti», dedicato proprio alla prima fase, quella immediatamente successiva all'ingresso in carcere, dove si veniva seguiti sotto il profilo medico e si forniva anche assistenza psicologica. Anche questo sostegno è venuto meno. Le sbarre soffocano ogni speranza. «Come trovarne, del resto, in celle sovraffollate, spesso con otto persone, senza far nulla per tutto il giorno sette giorni su sette? L'impatto può distruggere», conclude amaro Rossetti.
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