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Catania: meno carcere e più misure alternative

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[23/09/04] La Sicilia, 20 settembre 2004 Anche se nell’immaginario collettivo la pena continua ad identificarsi solo con il carcere, è ormai acquisito al nostro ordinamento giuridico (sulla scia di qualificati ordinamenti stranieri e delle più moderne acquisizioni delle scienze criminologiche) il principio secondo cui le esigenze di difesa sociale postulano il ricorso non solo alla tradizionale pena detentiva, ma anche a misure diverse dal carcere, dette appunto misure alternative, che consentono una risposta al delitto più flessibile e, nei congrui casi, più adeguata alla personalità del condannato. La giustizia, ha scritto il cardinale Martini, è la virtù che si esprime nell’impegno di riconoscere e rispettare il diritto di ognuno, dandogli ciò che gli spetta secondo la ragione e la legge. Nel campo penale tale compito si traduce in un delicato e difficile equilibrio tra le esigenze di difesa sociale (a cui lo Stato non può rinunciare) e quelle di riconoscere e rispettare la umanità e dignità del condannato, anche ai fini del suo auspicabile reinserimento sociale. Tale equilibrio, che si coniuga con le esigenze pratiche e di tenuta del sistema, destinato altrimenti a saltare, specie in assenza dei reiterati provvedimenti di clemenza del passato (anche attualmente, nonostante gli effetti, peraltro assai limitati, del così detto indultino, approvato dopo mille esitazioni e polemiche, il numero dei detenuti è ben superiore alla capienza ordinaria degli istituti di pena e, in alcuni casi, al limite della tollerabilità), è affidato alla Magistratura di Sorveglianza, la quale, nonostante l’assoluta insufficienza degli organici (particolarmente accentuata nel nostro distretto, che comprende gran parte della Sicilia orientale), è chiamata ormai ad assicurare non solo la legalità nella esecuzione della pena, ma anche a determinare, in modo pressoché generalizzato, l’inizio e la natura stessa della pena, la quale benché irrogata sempre nella tradizionale forma detentiva, viene in molti casi tramutata dal Tribunale di Sorveglianza, dopo adeguata istruttoria (in cui, accanto alle forze di polizia, hanno un peso rilevante i Centri di servizio sociale) in una misura appunto alternativa, quale l’affidamento in prova al Servizio sociale, la detenzione domiciliare o la semilibertà, che consente in genere la possibilità di espletare una attività lavorativa. Le misure alternative non contrastano con il principio della certezza della pena, come pure talora si sostiene, perché vengono concesse dal Tribunale di Sorveglianza (attraverso un approfondito giudizio di meritevolezza, desunto da molteplici elementi) in sostituzione, totale o parziale, della pena detentiva inflitta con la condanna; comportano, per tutta la durata della pena stessa, limitazioni e controlli, e possono essere, in ogni momento, revocate (con il ripristino della pena detentiva originaria) se il condannato commette ulteriori reati o pone comunque in essere comportamenti ritenuti incompatibili con la prosecuzione della misura. Da questi brevi cenni (che tralasciano, volutamente, problemi particolari, quali quelli dei tossicodipendenti e dei malati in genere) è possibile desumere l’importanza, l’estensione e la delicatezza che assume oggi l’attività della Magistratura di Sorveglianza, nel settore cruciale e spesso dai risvolti drammatici della esecuzione della pena, per cui è auspicabile che ad essa si accompagni, in attesa del necessario aggiornamento degli organici e delle strutture, la più vigile attenzione del legislatore, la comprensione e il sostegno dell’opinione pubblica e l’impegno concreto delle istituzioni centrali e locali e delle associazioni di volontariato, nella consapevolezza che il recupero del condannato è il raggiungimento di un obiettivo costituzionalmente imposto e moralmente doveroso, ed insieme il modo migliore per perseguire la sicurezza sociale, evitando, per quanto possibile, la ricaduta nel delitto. Umberto Puglisi, presidente del Tribunale di Sorveglianza di Catania


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