Generosita’ necessaria
articolo - italia - - - Il Messaggero Veneto - Franco Corleone - Carcere
[07/01/03] Bene avrebbe fatto il presidente Ciampi, nel suo messaggio, a dire almeno una parola su carceri e condizione dei detenuti.
Il Parlamento avrebbe trovato una ragione in più per adempiere a un dovere assunto solennemente con l’applauso tributato alle parole del Pontefice, che ha chiesto una misura di clemenza con l’obiettivo del reinserimento sociale dei condannati.
Le parole del presidente della repubblica avrebbero avuto un riflesso positivo anche sull’opinione pubblica, sempre dipinta (non si sa con quanta verosimiglianza) in preda a spinte giustizialiste, se non forcaiole, e insensibile ai principi di umanità.
Perché proprio di questo si tratta in primo luogo, di affermare i valori di una società che affronti la scommessa della convivenza con le povertà e con le diversità, rifiutando l’esclusione sociale.
Insomma, lo affermo provocatoriamente ma ne sono profondamente convinto: questo indulto serve, è necessario più per noi cittadini liberi che per gli stessi detenuti, cittadini privati della libertà. Una società che rischia di chiudersi in mille egoismi e particolarismi ha un bisogno estremo, vitale, di un atto, di un gesto di generosità che la redima e la salvi.
Ci sono molti altri motivi per giustificare una misura che a prima vista potrebbe apparire come una negazione della giustizia. I cittadini devono sapere che in nessun paese del mondo la macchina giudiziaria ha un funzionamento perfetto e ineccepibile, tanto meno in Italia, e che proprio la lentezza e gli errori della giustizia generano sfiducia.
Con l’approvazione del nuovo codice di procedura penale, nel lontano 1989, ci illudemmo tutti di poter garantire un processo giusto e rapido, di tipo accusatorio e non più inquisitorio e, quasi come corollario a questa riforma, fu approvato un provvedimento di amnistia e indulto che si voleva fosse l’ultimo. E per togliere alla sola maggioranza la possibilità di usare quelle misure di assestamento del sistema giudiziario e carcerario, con una modifica costituzionale fu prevista la maggioranza qualificata, i due terzi dei componenti delle Camere, per concedere amnistie e indulti. Così, mentre in quarant’anni di vita repubblicana vi erano state decine e decine di tali provvedimenti senza alcuna preoccupazione per gli umori dell’opinione pubblica, da ben tredici anni non vi è più stato un provvedimento di clemenza. E ciò senza che siano state mantenute le promesse e le premesse di quella riforma garantista degli anni 80.
La giustizia come metafora, si potrebbe dire, nel senso che essa si rivela ancora, da oltre dieci anni, la questione discriminante del nostro paese. Della crisi della giustizia è rivelatore in carne e ossa il suo deposito finale, il carcere, che ha tutte le caratteristiche di discarica sociale.
È la nostra inadempienza nel far funzionare i tempi dei giudizi e nel garantire la possibilità del reinserimento sociale dei condannati a rendere ineludibile oggi l’indulto. L’invivibilità delle carceri è dovuta al sovraffollamento e alle condizioni strutturali di molti istituti. Quando parlo di sovraffollamento mi riferisco al fatto che sono troppi i detenuti, non poche le celle o i posti letto; infatti un indicatore efficace dello stato della democrazia di un paese è il tasso di detenzione: quando si alza eccessivamente vuol dire che le politiche di welfare sono inefficaci, che le ferite sociali rappresentate per esempio dalla tossicodipendenza e dall’immigrazione sono affrontate in chiave puramente repressiva e con leggi criminogene.
Se le cose stanno così, il richiamo retorico al sacro principio della certezza della pena si rivela una miserabile ipocrisia.
Qualche anima bella si domanda se l’indulto non sia una misura inutile dal momento che molti torneranno a delinquere e quindi in capo a uno o due anni saremo nelle stesse condizioni attuali. In primo luogo, l’uscita di almeno 15.000 detenuti consentirebbe i lavori di ristrutturazione delle carceri per renderle compatibili con il nuovo Regolamento di esecuzione delle pene, una riforma di civiltà e adeguamento alla Costituzione che, come sottosegretario alla giustizia, ho a suo tempo promosso con grande convinzione. Inoltre, il superamento dell’emergenza consentirebbe a tutti gli operatori penitenziari condizioni di lavoro dignitose; e soprattutto la possibilità di sperimentare un carcere ricco di opportunità e non solo luogo di mero contenimento di carne umana.
Certo, il problema della recidiva esiste, ma occorrerebbe un’analisi seria per individuarne i motivi, dalla difficoltà a trovare lavoro per una persona con il marchio del delinquente alla condizione di tossicodipendenza non risolta dal carcere (e quindi dalla necessità di procurarsi denaro per acquistare la sostanza di cui si ha bisogno) e infine dalla condizione di clandestinità e di marginalità di molti immigrati, regolari o no che siano.
L’indulto come lo immagino io deve assumere il carattere di un volano per il cambiamento, per le riforme; deve rivelarsi un elemento dinamico, di mutamento delle coscienze e dei comportamenti.
E se oggi è all’ordine del giorno questo tema, lacerante solo per le coscienze di forze politiche senza anima, domani sarà di attualità l’amnistia se, solo e quando, si approverà un nuovo codice penale che mandi in soffitta dopo settant’anni il codice fascista Rocco e ridefinisca i reati che davvero mettono in pericolo la società e la democrazia contemporanea, delineando al contempo un sistema di sanzioni alternative al carcere, efficaci e di riparazione sociale credibile.
L’Italia ha bisogno di riconciliazione. Cominciamo dagli ultimi, come avrebbe detto Davide Turoldo.
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