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Carcere di massima insicurezza

Un'intervista a Nils Christie, autore del libro «Il business penitenziario». Un comportamento è definito deviante all'interno di una strategia di controllo sociale che favorisce la crescita del sistema penale e un peggioramento dello stato di salute della democrazia. Per questo è necessaria una politica di riduzione del danno criminale

articolo - europa - - - Il Manifesto - - Carcere

[10/03/04]

Città meno sicure, microcriminalità e devianza giovanile sempre più feroci, immigrati clandestini pronti a ingrossare le fila del terrorismo internazionale. Su questo mix confuso e perverso di leggende metropolitane e statistiche lette al contrario, il senso comune, i media e l'agenda politica dei partiti e governi delle società occidentali (con qualche rarissima eccezione), hanno alacremente costruito un clima di allarme sociale generalizzato che ha finito con il legittimare tra l'altro la criminalizzazione dei migranti e più in generale l'attuazione di politiche sempre più aspre e repressive in ambito penale. Ciò che colpisce in questo processo non è l'inversione di tendenza delle politiche penali in sé quanto il fatto che questa sorta di economia della paura si sia potuta sviluppare, di norma, in assenza di un documentabile incremento degli atti criminosi registrati e, in alcuni casi, grazie alla trasformazione di azioni e comportamenti in reati perseguibili penalmente. Un'occasione di riflessione su questi temi è data da A suitable amount of crime, titolo dell'ultimo libro di Nils Christie, criminologo norvegese che ha dedicato gran parte del suo impegno accademico e politico a illuminare gli aspetti più oscuri dell'ossessione penitenziaria. Tra i suoi molti saggi sulle politiche e il sistema penitenziario è disponibile in traduzione italiana Il business penitenziario (Eleutera, 1996).

Nel suo Il business penitenziario rivolgeva ai lettori un «avvertimento contro i recenti sviluppi nel campo del controllo del crimine» e, grazie a un'analisi dei sistemi penali in Europa e negli Stati Uniti, mostrava che il carcere non è soltanto una struttura progettata per infliggere legalmente sofferenza e uno strumento di controllo sociale, ma anche un vero e proprio business in continua espansione. Ora è uscito A suitable amount of crime, un libro che in italiano potrebbe essere intitolato «una modica quantità di crimine», alludendo alla terminologia utilizzata nella legislazione sul consumo di droghe...

Molti autori girano per gran parte della vita intorno a uno stesso tema. Si può dire che, da quando ho cominciato a fare ricerca, alcune domande hanno assunto per me un ruolo centrale: qual è il significato del crimine? Che tipo di fenomeno è? Certamente esistono degli «atti deplorevoli», ma il «crimine» esiste? Che cosa intendiamo quando usiamo questo termine, e in quali contesti lo usiamo? Questo fu il tema, già negli anni `50 della mia prima ricerca, uno studio sulle guardie dei campi di concentramento norvegesi. Come percepivano, quelle guardie, le loro azioni? Quei norvegesi che alla fine dell'occupazione nazista furono condannati per maltrattamenti e uccisioni nei campi, come consideravano i propri atti mentre li compivano? Erano crimini, secondo loro? No. E io tentai di descrivere il perché del loro punto di vista.

Successivamente mi occupai di persone condannate ai lavori forzati perché avevano ripetutamente consumato grandi quantità di alcool in luoghi pubblici. Quando non fu più possibile considerarli criminali, si passò a considerarli malati e bisognosi di trattamento. Fenomeni paralleli nel campo delle droghe. Qui la questione divenne: quando una sostanza è una droga? E perché la vendita di alcune droghe è considerata un crimine mentre vendendone altre si diviene onorati membri della Camera di commercio?

Ma se il crimine è così difficile da definire come spiegare il fatto che la popolazione penitenziaria è in aumento un po' dovunque?

Il numero delle persone detenute è spesso considerato come un riflesso della situazione del crimine in un dato paese, ma così non possiamo spiegare perché ci siano grandi variazioni nel numero dei detenuti tra paese e paese e persino nello stesso paese nel corso del tempo. Forse il problema si può trasformare in una spiegazione: dal momento che il crimine non esiste come entità stabile, come concetto si presta bene a un uso flessibile: è come una spugna. Il termine può assorbire molti atti - e molta gente, ovviamente - quando le circostanze lo rendono utile. Ma può anche essere portato a ridurre il suo contenuto, quando ciò sia suitable, cioè opportuno per quelli che hanno la spugna tra le mani. Rendersene conto apre la strada a nuove domande e a una discussione su quando abbastanza è abbastanza, su quale sia una giusta quantità di crimine.

Nel libro chiarisce ancora una volta che le norme non sono, bensì diventano e che il crimine, in fondo, non esiste...

Esatto, credo che possiamo affermare che il crimine non esista: solo gli atti esistono, atti cui spesso si attribuiscono diversi significati in diversi contesti. Quando discutiamo, i nostri «dati» sono gli atti e gli effetti che attribuiamo loro. Per fare un esempio, un limitato tasso di conoscenza reciproca entro un sistema sociale favorisce la possibilità che un atto venga considerato un crimine. Questo ovviamente ha conseguenze sulla percezione di cosa è un crimine e chi sono i criminali. In sistemi sociali con molta comunicazione interna, tu hai molte informazioni riguardo alla gente intorno a te. Invece, tra persone completamente sconosciute l'una all'altra, funzionari ufficiali deputati al controllo diventano l'unica alternativa. Ma alcune categorie di funzionari tendono a produrre crimine per il fatto stesso di esistere.

Il crimine non esiste fino a quando un atto non sia passato attraverso un processo altamente specializzato di creazione di significato. L'istituzione penale si trova in una situazione analoga a quella di Re Mida che trasformava in oro tutto ciò che toccava e perciò finì col morire di fame. Molto di quello che la polizia tocca e tutto quello che le prigioni toccano, si trasforma in crimini e criminali; e possibili interpretazioni alternative degli atti commessi svaniscono.

Il suo ragionamento conduce a considerare il sistema penale, e i discorsi intorno a esso, come una sorta di «termometro» della democrazia; in questo caso, dovremmo domandarci se non rischiamo di prendere definitivamente l'influenza...

In effetti, i sistemi penali hanno un significato profondo: ci danno molte informazioni sugli elementi fondamentali degli stati che rappresentano. Se io avessi il potere di un dittatore e avessi l'urgenza di costruire una situazione di crescita del crimine, probabilmente darei alle nostre società una forma molto vicina a quella che ritroviamo in molti stati moderni. Abbiamo costruito società in cui è facile, ed è anche l'interesse di molti, definire i «comportamenti non voluti» come atti criminali, piuttosto che come esempi di azioni cattive, folli, eccentriche, indecenti o semplicemente indesiderate. Abbiamo anche costruito le nostre società in modi che incoraggiano forme di comportamento indesiderate e al tempo stesso abbiamo ridotto le possibilità del controllo informale...

Possiamo quindi interpretare l'incremento della popolazione penitenziaria contemporaneamente come sintomo della crisi delle democrazie «mature» e come elemento di accelerazione dell'ulteriore disgregazione del loro tessuto sociale...

In pratica, possiamo valutare lo stato di salute di una democrazia in relazione al suo sistema penale e prendendo in considerazione almeno quattro elementi: il tipo di crimini contro cui lo stato agisce; le modalità con cui si decide quando bisogna imporre una pena, le caratteristiche dei soggetti che la subiscono. La crescita marcata delle istituzioni penali rappresenta una seria minaccia alla coesione ed alla inclusione sociale. Finché i cosiddetti «devianti» e quelli il cui comportamento è visto come «criminale» rimangono pochi e lontani, la punizione potrebbe accrescere la coesione sociale di una data comunità. Ma, con una grande popolazione penitenziaria, la metafora che usiamo non è più quella della «devianza» ma piuttosto quella della «guerra».

Gli Usa sono la patria della «tolleranza zero» e di un incremento senza precedenti del numero di persone detenute, provenienti in maggioranza dai gruppi sociali più poveri e di origine afroamericana e latina.....

Il caso degli Stati Uniti, come d'altra parte quello della Russia, è emblematico. Nel mio libro discuto affinità e differenze tra i sistemi di questi due paesi che definisco «big incarcerators», [grandi imprigionatori, ndr]. Qui vorrei richiamare solo un aspetto, e cioè il rischio che l'ipertrofia dei loro penitenziari conduca alla fondazione di un nuovo sistema di lavoro forzato. Il lavoro dei detenuti, che in passato veniva giustificato alla luce delle esigenze del trattamento e di riduzione delle spese di mantenimento delle carceri, assume sempre più i contorni di un vero e proprio business.

Certamente è meglio che i detenuti mangino invece di morire di fame, ed è meglio che lavorino invece di dibattersi nella noia. Ma tra questi aspetti positivi si annida anche un pericolo: le autorità potrebbero trovare molto conveniente combinare il bisogno di controllo delle classi più povere con l'esigenza di manodopera poco costosa. E non si tratta di scenari fantascientifici: recentemente, alcune prigioni all'interno degli Usa hanno dimostrato di poter competere con i paesi del Sud del mondo nell'offerta di manodopera a basso costo all'industria statunitense. Se generalizzata, una tendenza di questo tipo potrebbe indurre gli stati nella tentazione di riproporre una sorta di revival dell'istituzione della schiavitù. E dal momento che la tendenza all'incremento dei detenuti è comune a molti paesi europei, si può pensare che gli Stati Uniti si trovino soltanto un po' più avanti in questa evoluzione.

Un'ultima questione. Se il crimine non esiste, che ce ne facciamo dei criminologi?

Potenzialmente i criminologi possono essere molto pericolosi. E non mi meraviglio del fatto che Foucault fosse molto scettico nei confronti della categoria. Paradossalmente, la criminologia oggi è intrappolata dal proprio successo e dall'espandersi di un'industria del controllo che le richiede sempre più «servizi» e le offre sempre più finanziamenti per ricerca, formazione, conferenze. Alcuni di noi lavorano così vicini al potere e alle istituzioni deputate alla punizione da trasformarsi in tecnici della «erogazione della pena». D'altra parte la contiguità può diventare un'opportunità per capire meglio come vanno le cose e per svelare la natura del sistema.

Il contatto e alcune forme di cooperazione sono in certa misura inevitabili e funzionano in maniera biunivoca: col nostro lavoro, noi possiamo influenzare gli operatori del sistema penale ma nel momento in cui questi assumono alcune delle nostre prospettive, noi assumiamo alcune delle loro. Ci avviciniamo reciprocamente. Loro sono persone che si occupano di erogare pene, cioè sofferenza, e noi lo rendiamo possibile. Dobbiamo avvicinarci, per vedere. Ma avvicinandoci troppo potremmo diventare ciechi. Il problema è quello dell'indipendenza, della presa di distanza: le voci di dissenso, sebbene molto diffuse anche in paesi come gli Usa, non si fanno sentire abbastanza. Quello che diciamo suona così poco pratico, rispetto alla situazione attuale, che molti finiscono con l'imporsi una sorta di autocensura rinunciando a dire, ad esempio, che costruire nuove prigioni non aumenta la sicurezza nelle nostre città. Ma non c'è solo questo. Ci sono crepe nel muro e l'egemonia del mercato non è totale. Nemmeno le istituzioni totali lo sono al cento per cento. Ci sono sempre individui e piccole comunità che trovano forme creative di resistenza. A questi ostinati individui è dedicato il mio libro.


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