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Magrissime consolazioni: sì, sono stato eletto (e io non posso nemmeno dire: “beati monoculi in terra caecorum”).
Luigi Manconi
 
Politicamente Correttissimo
I revisionisti
Luigi Manconi
La bella biografia politica di Giorgio Napolitano, che Sergio Soave sta ricostruendo sulle colonne del Foglio, offre l’opportunità di alcune glosse che, forse, possono integrare il quadro. Come quelle suggerite da un volumetto di Tobia Zevi appena pubblicato, Il discorso di Giorgio. Le parole e i pensieri del presidente Napolitano, (Donzelli 2013). Si tratta di un’analisi linguistica e politica dei principali discorsi del settennato, fondata sul senso di alcune parole-chiave: Europa, Costituzione, patria, giustizia, futuro, solidarietà, responsabilità. Un lessico presidenziale che viene indagato in profondità di cui sono evidenziate, con scrittura agile, venature inusuali. Proprio l’analisi del linguaggio, della struttura grammaticale e sintattica, e la considerazione del vocabolario napolitaniano, sono decisive per tracciare l’identità culturale del presidente. Il che rende questo libro uno strumento assai utile anche per leggere la più recente attualità politica, come quello scontro, non dichiarato ma teso, tra Napolitano e Silvio Berlusconi a proposito del giudizio sul regime fascista. Il 29 gennaio scorso Napolitano ha scandito queste parole: "Si deve vigilare e reagire contro persistenti e nuove insidie di negazionismo e revisionismo, magari canalizzate attraverso la Rete”. Il Foglio del 31 gennaio commenta, e interpreta, come segue: «Giorgio Napolitano, nel corso della sua lunga vita politica, ha misurato la dimensione delle tragedie che sono state originate non dal revisionismo, ma dalla sua denuncia interessata». Si può concordare. Detta in estrema sintesi: il revisionismo non è un errore in sé dal momento che la ricerca storica è inevitabilmente “revisionista”. Ma il Foglio va oltre: il Presidente della Repubblica non si sarebbe riferito alle parole di Berlusconi, ma solo alla deriva negazionista. Ovvero la menzogna che neofascisti e storici irresponsabili e felloni diffondono, in particolare nella rete, contro la «verità dei vincitori». Vediamo se le cose stanno davvero così.
Il 27 gennaio, all’inaugurazione del Memoriale della Shoah alla stazione di Milano, Berlusconi aveva dichiarato: «Il fatto delle leggi razziali è la peggior colpa di Mussolini che per tanti altri versi aveva fatto bene». E ancora: «L’Italia preferì essere alleata della Germania di Hitler piuttosto che contrapporvisi (...) e dentro questa alleanza ci fu l’imposizione della lotta e dello sterminio contro gli ebrei». Davvero si può pensare che la citazione di Benedetto Croce, fatta da Napolitano due giorni dopo («fra gli atroci delitti che il fascismo stava perpetrando, la fredda persecuzione e spoliazione degli ebrei nostri concittadini») non avesse nulla a che fare con le parole di Berlusconi? Su via. Le leggi razziali vengono considerate da Napolitano, sulla scia di Croce, non come una sorta di incidente o di deviazione da un percorso “per tanti altri versi (..) fatto bene”, bensì uno degli “atroci delitti” del regime. Al netto del clima elettorale, i discorsi di Berlusconi e Napolitano evidenziano nitidamente la contrapposizione tra due figure che incarnano interpretazioni antitetiche della storia nazionale, ma anche due antitetiche identità culturali. Da una parte, Berlusconi, espressione della visceralità del pensiero, che vive come liberatoria la possibilità di esprimere la meno nobile delle idee che ciascuno può concepire e coltivare. Dall’altra, Napolitano che, in un’epoca di grossolanità intellettuale, sceglie di essere rivoluzionariamente ragionevole. Un atteggiamento che si nutre del più elementare dei principi del buon senso (insomma, non è bello parlar bene di Mussolini nel Giorno della Memoria: se non altro perché non fa piacere alle vittime di quella tragedia). Forse la combinazione tra buon senso e Benedetto Croce è la chiave di lettura più idonea per un giudizio storico sul fascismo, capace finalmente di creare mentalità condivisa.
Questo sembra sfuggire al Foglio. Certamente «la comprensione della storia è essenziale, e naturalmente a essa si arriva attraverso approssimazioni e correzioni successive, cioè attraverso critiche e revisioni costanti, che non hanno niente a che vedere con il dogmatismo della storia ufficiale». Come dubitarne? Ma Berlusconi che c’entra? Che cosa, nelle sue parole (e non solo quelle del 27 gennaio), richiama lo sforzo di chi legge, si corregge, di chi si rende conto dei propri limiti conoscitivi mentre indaga il passato? Al contrario, è proprio Berlusconi – ma anche i suoi esegeti, compresi i più raffinati - a impedire di capire se quelle parole sbocconcellate («il fatto delle leggi razziali…») siano il sintomo di una sciatteria interessata e opportunista o, piuttosto, il tentativo di una rivalutazione storica consapevole.
In ogni caso, non è un bel vedere.
il Foglio 12 febbraio 2013
Politicamente Correttissimo
I revisionisti
Luigi Manconi
La bella biografia politica di Giorgio Napolitano, che Sergio Soave sta ricostruendo sulle colonne del Foglio, offre l’opportunità di alcune glosse che, forse, possono integrare il quadro. Come quelle suggerite da un volumetto di Tobia Zevi appena pubblicato, Il discorso di Giorgio. Le parole e i pensieri del presidente Napolitano, (Donzelli 2013).

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Luigi Manconi candidato per il Partito Democratico al Senato
LA SARDEGNA E IL RESTO DEL MONDO
Qualche punto programmatico:
a) Cittadinanza: è necessario superare il modello etnico-territoriale, sul quale si basa la disciplina vigente, in favore di un’idea di cittadinanza “aperta”, connessa all’effettivo inserimento dello straniero nel tessuto sociale, politico, economico del nostro Paese. In particolare, va portata da 10 a 5 anni la durata della permanenza in Italia necessaria per l’acquisizione della cittadinanza da parte dei maggiorenni (come in Francia e in Gran Bretagna). Per i minori, va previsto il diritto a ottenere la cittadinanza per nascita, per i nati in Italia da genitori stranieri dei quali almeno uno vi risieda legalmente per un periodo minimo, nonché, anche in carenza di tali presupposti, in presenza di indici di integrazione quali la frequenza di cicli d’istruzione, la formazione professionale o lo svolgimento di attività lavorativa per un periodo sufficiente;
b) Testamento biologico: è necessaria una regolamentazione “leggera”, che sancisca il diritto all’autodeterminazione del singolo sulle scelte terapeutiche nella fase finale della vita, quale  presidio di garanzia della dignità della persona, prevista dall’art. 32 della carta costituzionale; e quale parametro di legittimità di ogni trattamento sanitario. La Dichiarazione anticipata di trattamento, con efficacia vincolante, deve costituire lo strumento di espressione, da parte di ciascuno, della sovranità su di sé e sul proprio corpo, come ha anche riconosciuto la Corte costituzionale;
c) Tortura:  è necessaria la qualificazione della tortura come delitto proprio (tipico, cioè, del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio), da ricomprendere tra i reati contro la libertà morale, in quanto lesivo in primo luogo della dignità. Va configurato come imprescrittibile, aggravato dall’eventuale morte della vittima e modulato sulla definizione (condivisa a livello internazionale) che ne dà la Convenzione delle Nazioni Unite del 1984.  La previsione di tale reato attuerebbe finalmente l’unico “obbligo di tutela penale” stabilito dalla nostra Costituzione e sinora inadempiuto.
d) Unioni civili: va garantito uno statuto essenziale di diritti, doveri e disciplina giuridica alle forme di convivenza non basate sul vincolo matrimoniale, composte da due persone, anche dello stesso sesso (sul modello della legge tedesca del 2001, per quest’ultima ipotesi). In particolare, vanno estesi alle unioni civili i diritti riconosciuti alla famiglia tradizionale soprattutto nelle materie successoria, sanitaria, penitenziaria, fiscale e previdenziale, sul regime patrimoniale, sullo status giuridico dei figli nati in costanza dell’unione e sul loro affidamento, nonché sull’adozione. In questa sede si potrebbe anche disciplinare il così detto “divorzio breve”, portando da 3 a 1 anno il tempo necessario che deve trascorrere dalla separazione per lo scioglimento del matrimonio.
Luigi Manconi candidato per il Partito Democratico al Senato in Sardegna

LA SARDEGNA E IL RESTO DEL MONDO
Qualche punto programmatico:
a) Cittadinanza: è necessario superare il modello etnico-territoriale, sul quale si basa la disciplina vigente, in favore di un’idea di cittadinanza “aperta”, connessa all’effettivo inserimento dello straniero nel tessuto sociale, politico, economico del nostro Paese. In particolare, va portata da 10 a 5 anni la durata della permanenza in Italia necessaria per l’acquisizione della cittadinanza da parte dei maggiorenni (come in Francia e in Gran Bretagna). Per i minori, va previsto il diritto a ottenere la cittadinanza per nascita, per i nati in Italia da genitori stranieri dei quali almeno uno vi risieda legalmente per un periodo minimo, nonché, anche in carenza di tali presupposti, in presenza di indici di integrazione quali la frequenza di cicli d’istruzione, la formazione professionale o lo svolgimento di attività lavorativa per un periodo sufficiente;

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Passaggio a livello
(neo)-fascisti immaginari
Ubaldo Pacella
E’ stata l’aspirazione recondita di Palmiro Togliatti, l’idea a lungo coltivata da Aldo Moro, l’obiettivo urlato dalle masse studentesche degli anni ’70, ma dove tutti gli altri hanno fallito ecco che Silvio Berlusconi può vantare un indubbio successo: il partito di destra in Italia è sparito.
I sondaggi di questi giorni, per quello che possono valere considerata l’affidabilità dei campioni, indicano che “La Destra” di Storace supera il 2%, Il FLI di Gianfranco Fini sarebbe all’1,5%, sulla soglia del 2% anche Fratelli d’Italia, al di sotto di queste cifre un pulviscolo di movimenti direttamente riconducibili a movimenti di estrema destra.
Il risultato, vedremo tra qualche settimana come andrà a finire,  sarebbe che in Italia, se si esclude il PDL come formazione politica di destra,  restano solo innumerevoli frammenti, che  aspirano a prendere il posto di quello che fu il MSI o Alleanza Nazionale di Gianfranco Fini. Le nuove formazioni politiche per ora viaggiano alla ricerca di un vago consenso politico, costruito più sull’intreccio di interessi di modesti ras locali che su un progetto ben identificabile, anche se di corto respiro. Niente più ricette roboanti per quanto sterili e iper conservatrici. I richiami nostalgici affogati in un miscuglio di apparentamenti o alleanze che mirano alla mera sopravvivenza di qualche personaggio, che suo malgrado, nel ventennio appena passato, ha finito per calcare il proscenio, quando a ben vedere avrebbe forse potuto tutt’al più occupare la ribalta di cabaret come il Zelig televisivo.
I nipotini di Giorgio Almirante al secolo Gianfranco Fini e i suoi già ex colonnelli sono stati capaci di mandare in frantumi il polveroso MSI ( Movimento Sociale Italiano) fondato dai reduci repubblichini del PNF ( Partito Nazionale Fascista) nel secondo dopoguerra, insieme al suo scolorito doppiopetto di AN ( alleanza Nazionale). Un vestito nuovo che tranne il testimonial Fini appariva stretto e poco adatto ai protagonisti della destra italiana.
Oggi tutto questo è svanito nel frullatore di una politica italiana, incapace ad affrontare i drammatici problemi reali del Paese, ma impagabile nel generare trasformismi, nell’inventare conigli che escono dal cilindro per raccogliere gli applausi di una platea sempre più modesta e intristita.
Il vecchio partito di destra, i “ fascisti” come li additavamo qualche decennio or sono, è scomparso. Sdoganati da Berlusconi a metà degli anni ’90, solo per i suoi giusti calcoli elettorali, alla strenua ricerca di un protagonismo velleitario, relegati a livello di spalla dell’inarrivabile comico che, attraverso le sue televisioni, continua a dettare da venti anni l’agenda politica italiana, hanno finito per smarrire ogni spirito di squadra.
Uno sparuto manipolo ha seguito la parabola democratica, modernizzatrice nelle idee, diremmo sempre più istituzionalizzata, del figlioccio prediletto di Almirante quel Gianfranco Fini, cui aveva affidato l’immagine del partito, mentre altri ne custodivano le chiavi. Pochi altri si sono rifugiati dietro sigle di scarsa inventiva, come “Fratelli d’Italia”, per custodire un pacchetto di consensi da spendere per scopi esclusivamente individuali. La gran parte il giorno dopo la presentazione delle liste del PDL è semplicemente scomparsa o evaporata, smarrendo l’unico specchio che poteva far riflettere la loro immagine, dar loro voce, offrire l’occasione per comparire almeno in Tv, considerato che tra la gente il consenso è sempre stato marginale o molto contenuto.
Sapremo tra poco più di un mese quale sarà il destino individuale di alcuni, dopo la prova elettorale, cui tutti guardano con malcelata preoccupazione, perché rischia di certificare non solo la definitiva scomparsa di un partito di destra in Italia, bensì di consumare ogni residua speranza di sopravvivenza di politici, collettori di interessi, dietro consensi assai modesti che finirebbero, nonostante gli apparentamenti concessi da una perversa legge elettorale, per decretarne una triste nemmeno compianta scomparsa.
Ciò che è  evidente è il fatto che  in TV i loro volti sono  dimenticati, dopo più di un decennio di immancabili apparizioni, tra mefistofeliche barbette, battute collezionate con l’instancabile voglia di ammannire giorno per giorno la solita ricettina.
Vedremo chi e  cosa rimarrà, tra qualche mese, di un movimento arroccato in contenuti scarsamente capaci di interpretare le esigenze di larghi strati dell’opinione pubblica. Pochi crediamo saranno i salvati, molti più i sommersi. Una pagina di storia politica, infine, si sta voltando. Si facciano avanti uomini e donne nuove se ci sono, volti diversi, entusiasmi non infiacchiti dalle rendite. Il centro destra in Italia ha bisogno di modernità, quando finirà per oscurarsi la stella berlusconiana vedremo all’opera una nuova generazione. Chissà che dal disfacimento di un seme non nasca un albero rigoglioso.
Febbraio 2013
Passaggio a livello
(neo)-fascisti immaginari
Ubaldo Pacella
E’ stata l’aspirazione recondita di Palmiro Togliatti, l’idea a lungo coltivata da Aldo Moro, l’obiettivo urlato dalle masse studentesche degli anni ’70, ma dove tutti gli altri hanno fallito ecco che Silvio Berlusconi può vantare un indubbio successo: il partito di destra in Italia è sparito.

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Della purezza
Luigi Manconi
"Il puro più puro che epura l’impuro”: questa magnifica massima viene attribuita da alcuni nientemeno che a Pietro Nenni. Storicamente e culturalmente la cosa risulta plausibile: quella che appare oggi come l’insaziabile pulsione di una dinamica  giustizialista che divora se stessa, potrebbe avere, effettivamente, la sua lontana  origine nella voracità con cui un certo minoritarismo di sinistra si dedicò all’autofagia, fino alla consunzione. Il frazionismo, l’infinito scindersi e l’eterno dichiararsi oltre non sono stati e non sono (la storia continua a ripetersi) la mera espressione di accanite controversie ideologiche. Sono stati e sono, bensì, la manifestazione di una rissosità caratteriale e di un estremismo intellettuale, di una nevrastenia umorale e di una coazione mentale, che affligge singoli e gruppi dislocati a sinistra e che pretende di nobilitarsi come intransigentismo etico. Tutto ciò sta dietro quella rivendicazione di “purezza” che, fatalmente, deve immaginare un mondo dove il bene e il male siano nettamente distinti e immediatamente riconoscibili; e dove, per trovarsi dalla parte del bene, basta volerlo e autocollocarvisi. Ne deriva una spirale feroce, dal momento che la “purezza”, essendo per sua natura incomparabile, esige di essere misura di se stessa. Sono io che, puro per volontà e vocazione, decido chi è degno di me e chi è indegno di me. Un esempio solo, ricavato dalle cronache più recenti. Se Salvatore Borsellino è il puro per eccellenza, perché fratello di un uomo ritenuto a ragione una delle fonti della purezza; e se Salvatore è ancora più puro della sorella Rita, sospettabile perché legata a un partito impuro come il Pd, quale sarà il tasso di purezza del partito di Antonio Ingroia, una volta manifestatasi la distanza di quest’ultimo dalla famiglia Borsellino? E se anche Ilda Boccassini, meritatamente uno dei simboli dell’antimafia, mette in discussione la purezza dello stesso Ingroia e ne viene ricambiata con un giudizio negativo su di lei, attribuito al medesimo Paolo Borsellino, risulta chiaro che il richiamo alla purezza si è trasformato nel suo esatto contrario: ovvero in uno strumento di corruzione intellettuale, se non morale. Ora, i supporter di Rivoluzione Civile si affannano a spiegare che no, Ingroia non voleva paragonarsi a Giovanni Falcone, e che Ilda Boccassini ha fatto una forzatura assai malevola, animata da chissà quale antica avversione. Sfugge la sostanza della controversia. Da vent’anni a questa parte, una sinistra minoritaria e affranta, prostrata da molte sconfitte e da altrettante frustrazioni, tende ad affidarsi a figure salvifiche. All’origine fu Antonio Di Pietro (e, sullo sfondo, Francesco Saverio Borrelli e Piercamillo Davigo) che attrasse su di sé le aspettative di una “rivoluzione morale”, proposta come surrogato della mancata rivoluzione politica. Sulla sua scia, una schiera di vendicatori e corifei, magistrati e giornalisti, che evocavano, tutti, scenari apocalittici e missioni palingenetiche, in nome appunto della rivoluzione morale. Ma proprio quel connotato etico - sottratto, dunque, a ogni valutazione pragmatica, e a ogni test razionale – ha alimentato una spirale fatta di sospetti e rivendicazioni, moralismi ed epurazioni, insinuazioni e riparazioni. Ogni puro ha trovato, appunto, uno “più puro” che lo ha epurato. Antonio Di Pietro ha trovato il suo Elio Veltri; Beppe Grillo il suo Antonio Ingroia. Il fenomeno ha assunto le forme grottesche di una spietata selezione morale, che ha bruciato in pochi anni, o mesi, tutti i successivi campioni di virtù. (Chi sarà quello che prenderà il posto di Ingroia dopo che si sarà sviluppata la critica interna nei suoi confronti e si scopriranno le fastidiose macchie che minacciano di comprometterne la purezza?). Qualche anno fa, si verificò un episodio che avrebbe dovuto far aprire gli occhi a molti. Giuseppe D’Avanzo, sulla base di alcuni documenti, accusò Marco Travaglio di cattive frequentazioni in ragione di una vacanza siciliana con un maresciallo della Finanza, condannato per reati di mafia. Ovviamente D’Avanzo non accusava in alcun modo Travaglio di connivenza con organizzazioni criminali: voleva evidenziare, piuttosto, gli effetti perversi della “metodologia investigativa” di Travaglio. Quest’ultimo non volle capire (in realtà sospetto che non capì proprio) e si arrabattò, furente e pedantemente acribioso, affannato e ringhioso, per difendere la propria purezza, sventolando fotocopie di bonifici e di conti di albergo. Fu un’occasione persa, che dimostrò in maniera inequivocabile la sordità intellettuale e, per certi versi, morale del giustizialismo militante; e la sua disperata e disperante regressione culturale. Nemmeno il fatto di subire sulla propria pelle, per una volta, quella scellerata metodologia investigativa – tutta fatta di “singolari coincidenze” e “misteriose combinazioni”, di “guarda caso” e di incroci vertiginosi tra fatti e parentele circostanze e relazioni – aveva prodotto una qualche resipiscenza. È proprio vero: gli dei accecano chi vogliono perdere.
(E sono proprio io a dirlo).
il Foglio 5 febbraio 2013
Della purezza
Luigi Manconi
"Il puro più puro che epura l’impuro”: questa magnifica massima viene attribuita da alcuni nientemeno che a Pietro Nenni. Storicamente e culturalmente la cosa risulta plausibile: quella che appare oggi come l’insaziabile pulsione di una dinamica  giustizialista che divora se stessa, potrebbe avere, effettivamente, la sua lontana  origine nella voracità con cui un certo minoritarismo di sinistra si dedicò all’autofagia, fino alla consunzione.

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Galli della Loggia, i gay e il pensiero dominante di Famiglia cristiana
Luigi Manconi
Dove sta il pensiero dominante? Su Famiglia Cristiana o su Vogue? In estrema sintesi, questo interrogativo di Ernesto Galli della Loggia (Corriere della Sera del 23 gennaio scorso) costituisce la vera posta in gioco nella controversia a proposito della condizione omosessuale e del riconoscimento dei relativi diritti. Per della Loggia la risposta a quel quesito è tanto ovvia da risultare scontata (è Vogue a egemonizzare l’opinione pubblica); per me la risposta a quel quesito è tanto ovvia da risultare scontata (è Famiglia Cristiana a egemonizzare l’opinione pubblica). Certo, messa in questi termini, la contrapposizione appare eccessivamente schematica, eppure evidenzia bene il cuore della questione. In ogni caso, ho la sensazione che tale discussione non sia inutile.

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Passaggio a livello
Un caso sacrosanto di garantismo estremo
Ubaldo Pacella
Diritti intangibili della persona: qualcuno li può violare?
Se fosse vero, sottolineo SE a titoli di scatola, sarebbe molto grave: una intromissione nell’anima e nei sentimenti dell’individuo, che genera troppe perplessità, lascia attoniti, solleva pesanti ombre sui protagonisti dietro le quinte di questa triste vicenda.
Mi riferisco alle accuse gravi e infamanti rimbalzate con tutta evidenza nei giorni scorsi sui mass media italiani a proposito della presunta falsa commozione dimostrata dal prefetto Gianna Iurato in occasione della visita alla casa dello studente dell’Aquila, nel giorno del suo insediamento ufficiale nel capoluogo abruzzese. Conosco la Iurato da molti anni, ne ho sempre apprezzato la trasparenza e la sensibilità, forse per questo le accuse che ho letto in questi giorni mi appaiono insostenibili.

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Il corpo dei Radicali
Luigi Manconi
Marco Pannella ha commesso un errore? Probabilmente si, ma non quello che comunemente gli viene rimproverato. A leggere gli articoli dedicati alla vicenda “Storace-Pannella”, anche nei meno prevenuti si coglie un approccio irreparabilmente condizionato da un equivoco di fondo. Ovvero il fatto che i radicali costituiscano una componente, per quanto irregolare o addirittura eretica, della sinistra. Cosicché sia chi mostrava di apprezzare la mossa di Pannella sia quanti l’avversavano, finivano con il considerarla alla stregua di un “tradimento”. Insomma, di un passaggio di campo e di un trasloco, armi e bagagli, nello schieramento nemico. Ma, perché un tradimento avvenire, si deve attribuire ai radicali una stabile – insediata e strutturata – appartenenza. Il che non è in alcun modo. I radicali non hanno appartenenza, nel senso attribuito a  tale termine dalla scienza politica. Se si sono ritrovati nell’area della sinistra, com’è accaduto quasi sempre (ma appunto quasi) almeno dalla fine degli anni ’60 a oggi, è stato  comunque in ragione di un’infinita capacità di allearsi. Che è cosa assai diversa dall’appartenere, ma anche dal coalizzarsi. Di più: il ritrovarsi a sinistra rispondeva a una logica tutta strumentale-razionale (la più lontana possibile da un’opzione ideologica). In altri termini, l’alleanza era ed è interamente proiettata sul fine da perseguire; e il fine, ancora una volta, nulla ha di ideologico, al punto che può ridursi all’obiettivo più circoscritto e, in apparenza, più modesto (eppure dirompente all’interno di una logica decifrabile, in genere, dai soli radicali). Se così non fosse – ecco dove le pur legittimissime critiche a Pannella rivelano un equivoco, oltre che una assoluta smemoratezza – non si spiegherebbe il fatto che, già alla fine degli anni ’70, il leader radicale partecipasse ai congressi del  Movimento Sociale Italiano allora guidato da Giorgio Almirante. Forse che il suo antifascismo si rivelava, con ciò, meno intransigente? Non lo penso affatto, dal momento che non è in discussione in alcun modo l’adesione più piena ai valori costituenti una concezione anti-fascista (anti-totalitaria). Ciò che davvero conta per i radicali è, piuttosto, la sola coerenza che ritengono meritevole del massimo rispetto: ovvero quella tra mezzi e fini. Ma il mezzo non è valutabile, certo, attraverso i contenuti che incorpora (il tasso di democrazia o di antifascismo o di sinistrismo), bensì attraverso il test della sua lineare e visibile efficacia per il raggiungimento dello scopo. Questo non significa nemmeno “scendere a patti anche con il Diavolo”, perché con il Diavolo (Storace, ma prima Berlusconi e, prima ancora, un’infinita teoria di “impresentabili”: da Ilona Staller a Toni Negri) non si patteggia (o almeno, si pretende di non patteggiare): “con il Diavolo”, invece, si trova un accordo su qualcosa di definito e circoscritto, e solo su quello. Alla radice di tutto questo c’è il fatto che, come si è detto, la collocazione dei radicali lungo il continuum destra/sinistra è – per tradizione storica – orientata verso sinistra, ma sempre indipendente dalla concreta organizzazione partitica di quest’ultima. Dunque, sotto il profilo strettamente politologico, Pannella non ha commesso alcun errore. Lo ha commesso, tuttavia, sotto quello politico. Nel corso degli ultimi quattro decenni, la maggioranza del suo elettorato si è sentito alleato della sinistra: persino quando, nel ’94, si è ritrovato con Forza Italia. Anche se non appartenente alla sinistra, comunque alleato a essa: un alleato  recalcitrante e insoddisfatto, ribelle e trasgressivo, indocile e dissidente, ma un alleato. Ciò è stato sottovalutato da Marco Pannella o, forse, messo nel conto di una costosa e dolorosa pedagogia. In questo caso, il test equivaleva davvero all’atto finale di uno sport estremo. Storace – e non esclusivamente per i militanti/militonti, per gli antifascisti ideologici e per quelli più ottusi – non appare certo “una bella persona” (nemmeno a me). Non solo: anche l’elettorato radicale assai libero ed erratico, respira un senso comune che, in questo caso, non sembra privo di fondamento: il leader della Destra non risulta solo totalmente estraneo ai valori, anche nella versione più essenziale e sobria dei radicali (cosa che di per sé non impedirebbe l’alleanza per un unico e  circoscritto obiettivo), ma ne risulta il nemico più aggressivo. E, se permettete, più triviale. Insomma, Marco Pannella, che ha avuto lo straordinario merito di fare del corpo e delle sue emozioni una risorsa pubblica, senza ridurla a espediente demagogico, questa volta ha sottovalutato la sacrosanta emotività del corpo militante dei radicali.
il Foglio 22 gennaio 2013
Il corpo dei Radicali
Luigi Manconi
Marco Pannella ha commesso un errore? Probabilmente si, ma non quello che comunemente gli viene rimproverato. A leggere gli articoli dedicati alla vicenda “Storace-Pannella”, anche nei meno prevenuti si coglie un approccio irreparabilmente condizionato da un equivoco di fondo. Ovvero il fatto che i radicali costituiscano una componente, per quanto irregolare o addirittura eretica, della sinistra. Cosicché sia chi mostrava di apprezzare la mossa di Pannella sia quanti l’avversavano, finivano con il considerarla alla stregua di un “tradimento”. Insomma, di un passaggio di campo e di un trasloco, armi e bagagli, nello schieramento nemico. Ma, perché un tradimento avvenire, si deve attribuire ai radicali una stabile – insediata e strutturata – appartenenza. Il che non è in alcun modo. I radicali non hanno appartenenza, nel senso attribuito a  tale termine dalla scienza politica.

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Sovraffollamento, carceri a numero chiuso
Luigi Manconi
Che le carceri italiane siano un autentico schifo, nessuno pare metterlo in dubbio. E che, tra le cause di quell’intollerabile situazione, sia determinante l’abnorme sovraffollamento, è constatazione pressoché unanime. In presenza di ciò, pertanto, impedire che altri detenuti patiscano la stessa condizione “inumana e degradante” non dovrebbe essere il provvedimento più naturale del mondo? E stabilire una sorta di “numero chiuso” non dovrebbe costituire la misura più ovvia, oltre che sacrosanta? Eppure, una simile ragionevole ipotesi non viene nemmeno presa in considerazione nel nostro paese. E così, mentre ampio sembra il consenso intorno alle strategie di lungo periodo (in primo luogo: riduzione del numero di atti e comportamenti qualificati come fattispecie penali e riduzione del numero delle fattispecie penali sanzionate col carcere), è assai più controversa la valutazione sulle misure da adottare nell’immediato: come l’amnistia e l’indulto e, appunto, “il numero chiuso”. Si tratta di un ritardo dalle conseguenze gravissime. Tuttavia, grazie al cielo, qualcosa si muove e qualcuno si rimbocca le maniche. È il caso di Edmondo Bruti Liberati, procuratore capo di Milano. Qualche giorno fa, Bruti Liberati ha ricordato come il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa abbia sollecitato “i procuratori e i giudici a ricorrere, nella misura più larga possibile, alle misure alternative alla detenzione”: e ciò “sia in tema di misure cautelari che in fase di esecuzione”. Il procuratore è uomo saggio, e le sue parole sono assai importanti. Per questo sarebbe significativo sapere cosa egli pensi a proposito del numero chiuso. Ovvero il rilascio o la non ammissione in carcere di detenuti fino a quando non vi siano spazi adeguati a una reclusione che rispetti i loro diritti fondamentali. Non si tratta di questione campata in aria. Nel 2009 una Corte federale della California, di fronte a due ricorsi di reclusi contro le condizioni di detenzione, ha intimato al Governatore di ridurre la popolazione carceraria di un terzo entro due anni, altrimenti avrebbe potuto avvalersi del potere di rilascio individuale dei singoli ricorrenti. Ciò in ossequio all’ottavo emendamento della Costituzione statunitense, che vieta le pene crudeli. La Corte federale ha fatto riferimento alle parole dello stesso Governatore, che aveva riconosciuto come il sovraffollamento potesse causare gravi violazioni del diritto alla salute. Da qui un provvedimento che stabiliva un tetto al numero di reclusi. Nel 2011, la Corte suprema degli Stati Uniti, interpellata da un ricorso dello Stato della California, ha riconosciuto la correttezza della decisione di quella corte federale. In quello stesso anno, la Corte costituzionale tedesca si è pronunciata sul ricorso di un detenuto contro la Corte di appello di Colonia, che gli aveva negato il sostegno economico necessario ad attivare un procedimento relativo alle condizioni di carcerazione  cui era costretto. La Corte costituzionale ha richiamato una precedente sentenza della Corte federale di giustizia del 2010: in base a essa, se lo stato di reclusione è “disumano”, una volta che soluzioni diverse si rivelassero improponibili, l’esecuzione di una pena detentiva deve essere interrotta. Questo, in virtù di un principio fondamentale, sancito sia dalla Corte Federale sia dalla Corte costituzionale. Ovvero il valore della dignità della persona umana sempre e comunque: dunque anche in stato di privazione della libertà. Perfettamente d’accordo, il giurista italiano Luigi Ferrajoli: “il sovraffollamento contraddice due basilari principi della nostra Costituzione: quello secondo cui, come dice il 3° comma dell’art.27 “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità” e quello della “pari dignità sociale” di tutti, stabilito dall’art.3 capoverso. Contro una così clamorosa incostituzionalità c’è un solo, urgente rimedio: stabilire per legge il cosiddetto numero chiuso. I detenuti con pene o residui di pena detentiva di minore durata dovrebbero essere destinati, nel numero che eccede la capienza del nostro sistema penitenziario, a misure alternative, come la libertà vigilata o gli arresti domiciliari”. Ben detto.
l'Unità 19 gennaio 2013
Sovraffollamento, carceri a numero chiuso
Luigi Manconi
Che le carceri italiane siano un autentico schifo, nessuno pare metterlo in dubbio. E che, tra le cause di quell’intollerabile situazione, sia determinante l’abnorme sovraffollamento, è constatazione pressoché unanime.

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POLITICA: MARIO MONTI DISSIPARE LA SPERANZA
Ubaldo Pacella
Il modesto panorama politico italiano si è arricchito di un comprimario, una parte più attenta, forse più colta della società ha smarrito un protagonista su cui aveva riposto speranze vere di novità.
La scelta di Mario Monti di presentarsi nell’agone politico italiano, in quella sorta di circo Barnum dell’ovvietà, feudo conclamato di una sciattezza di modi, di formule, di linguaggi appare a qualche osservatore il frutto di una insana mania, che affligge tutti coloro che toccano, anche per poco, il potere politico con le sue liturgie. Una decisione diremmo impulsiva, se non dettata da altre oscure ragioni che solo il tempo potrà svelare o fugare definitivamente.
Ciò che resta oggi sono frammenti di un nobile disegno di trasformazione positiva della società italiana sbriciolato alla prima temperie. La cronaca delle prossime settimane ci dirà se queste sono considerazioni impietose o il distillato di una conoscenza della società italiana, degli individui, dei politici che la rappresentano.
Il presidente Monti scegliendo di presentarsi ai cittadini elettori, nonostante la rendita del laticlavio a vita, dimostra un indubbio coraggio. Scende per libera scelta dal parnaso degli eletti, dalla cerchia ristretta dei  “sapienti” dei tecnici nobili, dei “puri” per rimboccarsi le maniche con la democrazia vera, quella che parla non solo alle elite, alle caste, ai consigli di amministrazione, alla classe dirigente, ammesso che in Italia ve ne sia ancora una, ma alla totalità dei cittadini, ai milioni di persone che a mala pena parlano l’italiano, che trascorrono le serate in casa, ai giovani del muretto o delle discoteche, ai disoccupati disperati, ai perdigiorno, oltre che alle storiche casalinghe di Voghera.
E’ un melting pot molto forse troppo lontano dal cammino adusato del Professore, necessario tuttavia per poter contare qualcosa domani. Ieri potevano valere le riconosciute competenze, la stima dei mercati, l’agenda internazionale, le telefonata con Obama, la persuasione con la Merkel, ma il 24 e 25 febbraio varranno solo i voti conquistati tra un popolo di italiani sfibrato dalla crisi, pessimista, in cerca di sicurezze, disgustato da una politica che per lui ha solo avuto il sapore acre della sconfitta da qualsiasi parte abbia votato in passato, in qualsiasi schieramento in cui possa a malincuore riconoscersi. Saranno solo i voti raccolti nelle elezioni a dirci cosa ne sarà del progetto Monti. La sua “Agenda” appare di fatto superata nei fatti, tant’è che nemmeno il suo estensore la richiama nelle apparizioni in TV. Competenza e moralità, visione internazionale e prestigio rischiano di essere una toga e un tocco lasciati stancamente sulla cattedra, dopo l’inizio formale di un anno accademico. Simulacro vuoto, perché privo del sostegno di tanti studenti e docenti, i soli capaci di dare un senso al ruolo di rettore.
Il progetto di creare nel nostro Paese, martoriato dal populismo, dalle furbizie meschine, dal malaffare come dagli interessi di parte, un raggruppamento politico cattolico-liberale, di alto lignaggio, nobile nelle aspirazioni, radicale nelle scelte, decisivo e decisionista negli interessi collettivi, ispirato, tanto per semplificare, da un lato ai Dossetti e La Pira, dall’altro ai Croce, ai Salvemini, agli Ernesto Rossi, ai Menichella, appare già in frantumi. Corroso e dimenticato nelle estenuanti riunioni, con adusati comprimari come Casini e Fini, per decidere mediocri criteri di redazione di improvvisate liste elettorali, sino a dover disertare un semplice Consiglio dei Ministri, come un Berlusconi qualunque, per discutere per ore con quei piccoli leader di se stessi, per i quali nei mesi scorsi faticava a trovare manciate di minuti, in una agenda allora sì ricca di impegni veri. Il vulnus di essere così smaccatamente venuto meno all’impegno formale proclamato nelle aule parlamentari, non nei salotti bene dei sodali, di volersi tenere lontano da ambizioni politiche, ne fa invero un italiano classico, eppure potrebbe alienargli non poche simpatie tra quella piccola borghesia colta, poco numerosa, per questo da tutti ignorata, che in Monti aveva proiettato l’immagine di un “uomo nuovo” coerente, rigoroso, sino ad essere algido, custode di valori disprezzati nell’agone della quotidianità, non solo politica: la nobiltà d’animo e di spirito, l’indipendenza, il prestigio morale, la fierezza delle idee non mitigate da ragioni di opportunità o di opportunismo.
Il professor Monti inizia a scoprire come la democrazia sia altro dai velluti della politica italiana o internazionale. Necessiti di sporcarsi le mani, in senso metaforico naturalmente, con persone assillate da problemi di ogni giorno, con la ruvida concretezza di chi non è abituato a misurarsi con le idee, con i grandi disegni, con le speranze recondite, bensì più banalmente con un lavoro per i figli, con il mutuo da pagare, con la cassa integrazione in scadenza, con il negozio pieno di mercanzie e vuoto di clienti. La sua lista ha una chiara vocazione elitaria, non si rivolgerà alle masse, tuttavia anche per sedurre laghi strati del ceto medio sono necessarie iniziative nuove ed incisive, che oggi non si vedono. Monti si è politicizzato, preferisce le battute sapide, le definizioni folgoranti agli impegni precisi e determinati in economia, politiche sociali, welfare, occupazione, fisco. Voleva ridurre l’Irpef e si è acconciato a farsi riscrivere la finanziaria da Brunetta e Baretta, un duo da Topolinia più che da mercati internazionali e oggi dai teleschermi dispensa ricette, quasi fosse Bersani, con un misto di buon senso e arrendevolezza alle derive populiste, demagogiche, consolatorie con le quali in politica bisogna fare sempre i conti.
Avremmo voluto un Monti chiaro, cattedratico, concentrato sulle soluzioni di problemi complessi. Forse avrebbe preso qualche voto in meno, ma avrebbe gettato il seme della novità, invece sembra più propenso a farsi guidare da due dioscuri come Fini e Casini che negli ultimi venti anni di politica non hanno mai raccolto un consenso a due cifre, briciole di rappresentanza come quelle di Bertinotti, il rivoluzionario in tweed del salotto di Bruno Vespa.
Vedremo cosa uscirà dalle urne del progetto Monti. Ora dietro alla sua nobile figura eretta ad usbergo dell’ennesimo trasformismo italico si appiattiscono i riciclati della seconda repubblica, magari dirottati nelle liste della Camera per nascondere gli imbarazzi tra la folla dei candidati. I pochi nomi significativi accorsi tra le fila dei montiani ricordano da vicino gli intellettuali candidati, come indipendenti, dal PCI negli anni ’70, per allontanare dall’immagine del partito il ghigno triste di Breznev.
E’ una sfida vera quella che si profila per Mario Monti, dovesse finire come vaticinano i sondaggisti del cavalier Berlusconi sotto il 10%, dietro i Cinque stelle dell’ex comico Grillo, resterebbe ben poco del progetto civile che gli era stato affidato. Le stesse gerarchie cattoliche hanno, in un battito d’ali, mutato il proprio sentire. Quale lezione di politica sociale della Chiesa rappresenta Monti? Che spazio hanno i bisogni del popolo minuti dei fedeli nella sua agenda? Contano come uomini o solo per il proprio conto bancario o postale? Troppi interrogativi per una scelta netta.
Vogliamo azzardare una previsione, sereni che sapremo cospargerci il capo di cenere e non smentire queste  affermazioni qualora fossero negate dai fatti, come in cuor nostro ci auguriamo.  Il montismo rischia di essere l’estremo effimero tentativo di mutare volto alla politica italiana senza cambiare l’anima, il costume, le abitudini, i vezzi della nostra società. Prima di cambiare volto alla politica dobbiamo trasformarci come uomini. I partiti non solo peggiori della società civile, anzi la rappresentano. Se vi sono troppi comprimari è perché essi impazzano tra noi. Non ci sarà un Monti ad emendarci, se non lo facciamo noi in prima persona assumendoci l’onere e la responsabilità delle scelte quelle vere e dolorose: le uniche che fanno crescere.
Passaggio a livello
L'anima e il volto di Monti
Ubaldo Pacella
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Caro Candidato, Caro Leader, Signor Partito

ecco 10 domande “brutte” Sulla bellezza Noi del Comitato per la Bellezza, nato nel 1998 sul nome e sul lavoro di Antonio Cederna, vi chiediamo: 1) Può la Bellezza essere uno dei temi centrali, unitamente alla cultura e, in particolare, alla cultura della tutela, della vostra campagna elettorale, uno dei punti-cardine del vostro impegno politico?

 
Conformismi
Le contraddizioni su nozze gay e “pensiero dominante”, a partire da un articolo di Galli della Loggia
Luigi Manconi
È recentissima la decisione della Cassazione che rigetta il ricorso contro la sentenza della Corte d’Appello, che aveva stabilito l’affidamento esclusivo del figlio minore alla madre, convivente con una donna. Ciò consente di riprendere un tema al quale, qualche settimana fa, il Corriere della Sera ha dedicato ampio spazio. Lo spunto iniziale è stato offerto da un articolo di Ernesto Galli della Loggia del 30 dicembre scorso, che ha riassunto un testo (“Matrimonio omosessuale, omoparentalità e adozione”) del Gran Rabbino di Francia, Gilles Bernheim. Galli della Loggia sottolinea, in primo luogo, “la forte somiglianza di molte delle cose dette da Bernheim con quelle sostenute dal magistero cattolico”: e fa sue le medesime argomentazioni. Quindi conclude che “il punto di vista della religione nel discorso pubblico” è spesso prezioso per “misurare la rottura” che le decisioni dell’autorità pubblica “possono rappresentare rispetto alle radici più profonde e vitali della nostra antropologia e della nostra cultura”. Fin qui siamo nell’ambito di una interessante discussione tra opzioni culturali assai diverse, ispirate a loro volta a differenti sistemi di valori; e quelle espresse da della Loggia e dal Gran Rabbino, così come quelle del magistero cattolico, sono degne della massima attenzione anche da parte di chi non le condivida affatto. Si tratta di posizioni non solo legittime, ci mancherebbe, ma essenziali per il libero confronto, in quanto rimandano a culture che appartengono pienamente allo sviluppo storico della nostra identità; e, infatti, esse godono di ampio spazio pubblico e di adeguati mezzi di comunicazione. Che senso ha, pertanto, presentarle quasi fossero le audacissime tesi di una minoranza perseguitata? D'altra parte, è vero che nel dibattito su questi temi si confrontano opzioni, talvolta aspramente contrapposte, che orientano differenti scelte politiche, suscettibili di determinare importanti conseguenze sulla vita pubblica. È esattamente questa la ragione che dovrebbe rendere meno rigide le posizioni di tutti; e aiutare a comprendere come i tratti essenziali di una possibile morale pubblica, sobria e non invasiva, capace di garantire i diritti di tutti senza mortificare i valori di ognuno, siano ciò che misura la qualità etica di una democrazia. Ebbene, quei tratti di una possibile morale pubblica, in grado di tradursi in alcune norme condivise sulle "questioni di vita e di morte", in Italia sono ancora tutti da conquistare. Tanto più dunque, colpisce la descrizione dello scenario in cui della Loggia colloca il suo apprezzamento per lo scritto del Gran Rabbino.
Il titolo redazionale dell’articolo del Corriere è già eloquentissimo: “le religioni che sfidano il conformismo sui gay”. Dunque, sarebbe quest'ultimo, il "conformismo sui gay", a dominare le opinioni pubbliche delle nostre società. In un simile contesto, le affermazioni del Gran Rabbino rappresenterebbero un atto di “coraggio” contro “il mainstream delle idee dominanti”. E questo è ancora più significativo, nota della Loggia, “per l’Italia, dove è sempre più raro ascoltare voci fuori dal coro” e, quando queste si fanno sentire, vengono messe a tacere dalle solite “vestali dell’Illuminismo”.
C’è da trasecolare. Dunque, il “conformismo sui gay” corrisponderebbe, secondo della Loggia e altri, a un senso comune egemone, in particolare in Italia. Nella stessa Italia, guarda un po’, dove non esiste uno straccio di legislazione sulle unioni civili e non è nemmeno alle viste, per ora, un progetto di riforma, aggiornamento e integrazione delle norme del Codice civile in materia. E il Parlamento non è stato in grado di approvare una legge contro l’omofobia. Fatale che, se la politica tace, sia la giurisdizione a parlare.
Come mai è potuto accadere che “le vestali dell’Illuminismo” così egemoni nel determinare il senso comune e le decisioni pubbliche, non siano state in grado di introdurre norme a tutela della condizione omosessuale? Tutto ciò sembra sfuggire a uno studioso attento e - il che non guasta – gentile e rispettoso delle idee altrui, come della Loggia, nel quale si avverte, sottile e suadente, il compiacimento di ritrovarsi, con sommesso orgoglio, “controcorrente”. Il motivo è semplice: egli è parte, e per molti versi guida, di un mainstream davvero dominante; e, in odio al politicamente corretto, ritiene che questo (“il conformismo sui gay”, per esempio) sia il Pensiero Unico Egemone (PUE). La causa di un simile abbaglio è facilmente rintracciabile: in effetti, quel PUE circola in alcune élites che costituiscono l’ambiente quotidiano che della Loggia si trova a frequentare (università, case editrici, mezzi di informazione, circoli culturali….). Anche chi avversa quel mondo, fatalmente ne fa parte per ragioni sociali e culturali, e rischia di scambiare l’umore che lì si percepisce per lo “spirito del tempo”. Ma non è così. La mentalità condivisa e i sentimenti collettivi sono in prevalenza altri. E nel senso comune c’è spazio, eccome, per l’omofobia, il disprezzo per gli omosessuali e per tutti i diversi, la voglia di discriminazione. All’anima del conformismo sui gay.
il Foglio 15 gennaio 2013
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