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Quesi suicidi in cella
Luigi Manconi  Giovanni Torrente
Una nuova sentenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo ha sanzionato il nostro sistema penitenziario, condannando l’Italia a risarcire sette detenuti di Busto Arsizio e Piacenza: le condizioni della loro reclusione, secondo la Corte, violavano l’articolo 3 della Convenzione europea, che proibisce “la tortura o i trattamenti inumani o degradanti”. Non stupisce. Quella che si consuma nelle carceri è una catastrofe del diritto e dell’umanità e, tra le manifestazioni più crudeli di tale tragedia, emerge il fenomeno dell’autolesionismo.  Su Politica del diritto, la rivista del Mulino diretta da Stefano Rodotà, ora in libreria, pubblichiamo i primi risultati di una ricerca sul tema. In particolare, dopo aver ricostruito la dimensione del fenomeno in una prospettiva nazionale, proponiamo un approfondimento statistico dei fenomeni di autolesionismo e suicidio avvenuti negli ultimi 5 anni in tre regioni campione:  Piemonte, Liguria e Campania.
1. Suicidio e autolesionismo in carcere: le dimensioni del fenomeno.
Il carcere è un luogo dove il rischio che si verifichi un suicidio è tra le 9 e le 21 volte superiore rispetto all’esterno. Quali le ragioni di uno scarto così rilevante? I dati raccolti mostrano come, a differenza di quanto si riscontra fra i cittadini liberi, le variazioni percentuali dei tassi di suicidio fra i detenuti, anche solo da un anno all’altro, siano assai significative. Il dato mostra quindi una relativa autonomia delle dinamiche che portano al suicidio in carcere rispetto alle dinamiche esterne a esso. Ne consegue che il numero dei suicidi nelle carceri pare aumentare sensibilmente in particolari momenti di crisi, per ragioni che sono intrinsecamente legate a processi interni all’istituzione penitenziaria. Quanto detto viene confermato dalla serie storica 1980-2010. In particolare, la lettura della curva dei tentativi di suicidio e dei suicidi realizzati mostra come i tentativi abbiano avuto un tendenziale aumento a partire dalla seconda metà degli anni ’80, con la punta massima raggiunta alla fine degli anni ‘90 ed eguagliata nel 2010. Al contrario, i suicidi realizzati sono aumentati numericamente dal 1993 sino ad oggi, con la punta massima toccata nel 2001 con 69 suicidi. Tuttavia, se confrontiamo numero dei suicidi e popolazione detenuta, si può osservare come la curva raggiunga il suo punto più elevato negli anni ‘80; in seguito, i tassi scendono, seppur con un andamento “schizofrenico”, tale che ad anni tendenzialmente meno preoccupanti, seguono periodi di rapido incremento. All’interno di questa irregolare dinamica, un aspetto va rimarcato. Con riferimento agli ultimi 30 anni, la minor frequenza di suicidi in carcere si verifica nel corso del 1990 e del 2006. In quegli anni, come noto, sono stati approvati dal Parlamento gli ultimi provvedimenti di clemenza. Ed è possibile, quindi, ipotizzare che la speranza offerta da quei provvedimenti, sommata al miglioramento delle condizioni detentive a seguito della riduzione dell’affollamento, abbia stemperato il clima all’interno degli istituti. Abbia favorito, cioè, il contenimento dei comportamenti autolesivi.
2. Il suicidio nelle carceri italiane: le indicazioni di tre studi di caso
Nelle tre regioni oggetto della ricerca i dati mostrano come, nell’arco di cinque anni, si siano verificati 12 suicidi in Piemonte, 6 in Liguria e 39 in Campania. A fronte del numero assoluto di suicidi in Campania, il dato rapportato al totale delle presenze mostra un quadro assai più complesso. Se utilizziamo il rapporto tra  il numero di suicidi e, da un lato, il complesso degli eventi critici, e, dall’altro, il tasso di sovraffollamento delle singole carceri, avremo a disposizione due indicatori del clima di tensione e del grado di vivibilità di ciascun istituto, rappresentato dal sovraffollamento. Il suicidio, all’interno di tali contesti, non appare come un fenomeno isolato, bensì come l’esito estremo di un clima di tensione che si esprime anche attraverso l’elevato indice di gesti autolesivi messi in atto. Pare possibile, quindi, indicare i tratti di quelli che possiamo definire “istituti ad alto indice di tensione” (e di sofferenza). All’interno del senso comune carcerario, diffuso tra gli operatori come tra i detenuti, è immediatamente percepibile la differenza tra istituti conosciuti per la migliore vivibilità e istituti connotati da condizioni massimamente afflittive. Nel gergo carcerario, ciò porta a distinguere le carceri “aperte” da quelle “chiuse”, quelle “a vocazione trattamentale” da quelle con attitudine “custodiale”; e, infine, i penitenziari “punitivi” da quelli “premiali”. A nostro parere, le cause che producono un “istituto ad alto indice di tensione” sono, per un verso, di natura strutturale e, per un altro, di natura organizzativa e ambientale. Resta il fatto che i motivi profondi di quella “tensione” non possono essere dedotti dal mero dato numerico, ma devono essere analizzati attraverso l’osservazione dell’universo di relazioni, scelte organizzative e dati strutturali che contribuiscono a determinare la vita concreta all’interno di un penitenziario.
3. Da dove, quando e perché in carcere?
I dati da noi raccolti permettono di approfondire l'indagine con riferimento a nazionalità, età e posizione giuridica delle persone che si sono tolte la vita. Relativamente alla nazionalità, il dato appare significativo soprattutto in regioni, quali il Piemonte e la Liguria, dove la presenza di stranieri detenuti è più elevata. In entrambe le regioni, in questi cinque anni si è avuta una prevalenza di suicidi tra gli italiani rispetto a quelli tra gli stranieri; e drammaticamente significativi appaiono i dati relativi all'età e alla posizione giuridica. Relativamente alla prima variabile, risulta confermato come i detenuti più giovani mostrino una maggiore tendenza al suicidio. In Piemonte e in Campania, nel corso di questo periodo, non si sono verificati suicidi tra i reclusi appartenenti alla fascia di età 18-24 anni, mentre in Liguria sono stati due su sei  i minori di 24 anni che si sono tolti la vita. Oltre tale soglia, il numero di suicidi aumenta immediatamente superando la percentuale media di persone detenute nella fascia fra i 24 e i 44 anni. Appare significativo, in proposito, il fatto che in Campania e in Piemonte quasi tre quarti dei suicidi abbiano riguardato persone con un'età compresa tra i 25 e i 44 anni, mentre in Liguria la fascia d'età fra i 18 e i 44 anni comprende tutti gli episodi di suicidio registrati negli ultimi cinque anni in quella regione. Il dato più sconcertante nell'analisi dei tratti qualificanti i reclusi che hanno messo in atto il suicidio, riguarda la loro posizione giuridica: in 25 casi su 48, si tratta di persone sottoposte a misura cautelare. In oltre la metà dei casi, quindi, siamo in presenza di soggetti per i quali vale la presunzione di non colpevolezza.
4. Un assaggio di prigione?
Dalle ricerche sul fenomeno del suicidio in carcere, un dato emerge con maggiore evidenza: i primi giorni di detenzione come la fase di maggior rischio per la realizzazione di atti di autolesionismo. In questi anni qualcosa è cambiato nelle pratiche penitenziarie: egli istituti di grande dimensione, ad esempio, è stato creato il cosiddetto Servizio nuovi giunti. Ciò nonostante, in alcune regioni, persiste il fenomeno dei suicidi nei primi giorni di carcerazione. In Piemonte, in particolare,  un terzo dei suicidi è stato realizzato entro 30 giorni dall'arresto. A quanto fin qui detto, va aggiunta qualche considerazione a proposito di quella fase particolarmente delicata nella gestione della popolazione detenuta, rappresentata dai trasferimenti. È frequente che questi ultimi siano attuati a seguito di eventi critici verificatisi nell'istituto di provenienza; o riguardino, comunque, soggetti non graditi o di difficile gestione,  considerati “pericolosi” per l'ambiente. La lettura dei dati relativi ai tempi del suicidio, in relazione al momento dell’ingresso nel carcere dove è avvenuto il fatto, sembrano confermare l'ipotesi del trasferimento come momento particolarmente problematico. Anche in questo caso, ovviamente, il trasferimento non è sufficiente a spiegare tutto. Eppure esso costituisce un segnale di situazioni palesemente critiche, gestite attraverso l'unica soluzione che troppo spesso l'amministrazione sembra in grado di adottare: la rimozione del problema attraverso l'invio di quello che viene considerato il responsabile del problema stesso in un luogo diverso. Non è un caso: la pratica della rimozione sembra, più in generale, dominare il governo della questione carceraria in Italia.
l'Unità 9 gennaio 2013
Quei suicidi in cella
Luigi Manconi  Giovanni Torrente

Una nuova sentenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo ha sanzionato il nostro sistema penitenziario, condannando l’Italia a risarcire sette detenuti di Busto Arsizio e Piacenza: le condizioni della loro reclusione, secondo la Corte, violavano l’articolo 3 della Convenzione europea, che proibisce “la tortura o i trattamenti inumani o degradanti”. Non stupisce. Quella che si consuma nelle carceri è una catastrofe del diritto e dell’umanità e, tra le manifestazioni più crudeli di tale tragedia, emerge il fenomeno dell’autolesionismo.  Su Politica del diritto, la rivista del Mulino diretta da Stefano Rodotà, ora in libreria, pubblichiamo i primi risultati di una ricerca sul tema. In particolare, dopo aver ricostruito la dimensione del fenomeno in una prospettiva nazionale, proponiamo un approfondimento statistico dei fenomeni di autolesionismo e suicidio avvenuti negli ultimi 5 anni in tre regioni campione:  Piemonte, Liguria e Campania.

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Rivoluzione eh
Grillo, Ingroia e quel gustoso dibattito sul senso più profondo del giustizialismo italiano
Luigi Manconi
Qualche giorno fa ho scritto sul Messaggero un articolo a proposito della scelta di Antonio Ingroia di candidarsi alle prossime elezioni alla guida del movimento Rivoluzione civile, suscitando un dibattito piuttosto accaldato sulla mia pagina facebook. Di quelle reazioni, due cose mi hanno colpito in particolare. La prima è che molti, a me dichiaratamente affini su numerose problematiche (diritti individuali e garanzie penali, autodeterminazione su questioni “di vita e di morte”, libertà di movimento e relazioni inter-etniche…), possano essermi così aggressivamente ostili quando formulo un giudizio critico sulla posizione di Ingroia. Ricorrendo a  una formula paradossale, ma non troppo, avevo segnalato, infatti, una qualche specularità tra l’ex pm di Palermo e Silvio Berlusconi. È stato a questo punto che una gentile interlocutrice ha replicato  – ecco il secondo motivo di sorpresa – respingendo l’accostamento per Ingroia, ma evocandolo per “Di Pietro, lui si alter ego di Berlusconi”. Tutto ciò è sommamente istruttivo e per certi versi tragico. Se non per la gran parte dei lettori del Foglio, certamente per me che, una quota di quei fan di Rivoluzione civile, sento come parenti, perlomeno alla lontana. Si tratta di persone che, oltre che in buona fede (ma questo è un riconoscimento che ormai si attribuisce a tutti e che risulta, più che ovvio, ipocrita), sono spesso espressione disinteressata di domande di equità e di libertà, tradotte in movimenti collettivi dotati di sensibilità e di intelligenza. I loro percorsi sociali seguono itinerari autonomi, capaci talvolta di darsi obiettivi di riforma e di elaborare progetti di governo. Ma quei movimenti, così come gli individui che li compongono o che a essi guardano,  sembrano mossi in primo luogo da un bisogno di rivalsa e da un’istanza di risarcimento. In altre parole, singoli e  gruppi si sentono vittime – ed è un sentimento spesso sacrosanto e comunque comprensibile -  di un’ingiustizia assoluta. Vivono e operano come se pesasse su di loro una cappa soffocante, costituita dall’attività passata e attuale  di un sistema che nega verità e  giustizia. E’ come se un regime dispotico, compatto e omogeneo, dominasse le esistenze individuali e la vita sociale, lesionando ciascuno di noi, ledendone i diritti, danneggiandoci nel corpo e nell’anima. Questo fa sì che tutte le istanze, comprese le più legittime, e tutti gli obiettivi finiscano, poi, col venire sussunti (e sacrificati) da quell’unica e prepotente domanda di rivalsa e di risarcimento. Che assume fatalmente la forma del ribaltamento, del rovesciamento totale, della Rivoluzione (civile e, va da sé, pacifica, pacificissima). Da ciò deriva che molte domande sociali, spesso motivate,  e molte esigenze di cambiamento, altrettanto condivisibili, vengano enfatizzate come istanza di  giustizia che, per essere la più concreta possibile, si traduce nella forma della procedura penale: e, dunque, in un discorso pubblico, fatto di accuse e processi, pene e sanzioni, epurazioni e interdizioni. Ulteriore conseguenza è che quel repertorio, meglio che da chiunque altro, debba essere gestito da un amministratore della giustizia. Un Pubblico Accusatore, ecco quello che ci vuole. È questa la radice più profonda del giustizialismo: ciò che ne fa non una semplice deriva del diritto, bensì una variante perversa della politica. In quella prospettiva il pm è l’Angelo vendicatore, insieme laico e tecnico, dell’ingiustizia patita dall’intera società: e, per realizzare ciò, deve essere un Rivoluzionario. È questo che in qualche misura rende inevitabile una certa ispirazione palingenetica dei programmi politici in questione: essi devono promettere di “rivoltare l’Italia come un calzino” (ricordate?). Ma la palingenesi nella tradizione religiosa e nella letteratura devozionale, nella precettistica morale ma anche nella storia delle ideologie, è evento epocale. Che si realizza o a cui si aspira in occasione di grandi e definitivi avvenimenti individuali o universali (ascesi, metanoia, apocalisse ma anche guerra mondiale e colpo di stato). Qui, invece, la palingenesi sperata ha cadenza semestrale, se pensiamo agli anni più recenti la vediamo incarnarsi con una sequenza vertiginosa in Di Pietro, Grillo e, appunto, Ingroia, passando addirittura per de Magistris (si noti, tre procuratori su quattro). Come può accadere che un processo di liberazione sociale passi, con rapidità bruciante, da uno all’altro possibile titolare? È proprio ciò che più impressiona: la palingenesi ha assunto un formato tascabile, prêt-à-porter, multiuso. La parabola di Di Pietro è impressionante e, risulterebbe, se il protagonista ne avesse appena appena consapevolezza, drammatica. L’uomo che ha costituito la sua leadership pressoché interamente su un discorso pubblico, fatto di sospetti e di evocazioni sbirresche, di messaggi intimidatori e di vocabolario da caserma, precipita proprio a seguito di una ridda di sospetti che, infine, gli franano addosso. In pochi mesi, colui che la cupa euforia del web aveva esaltato per aver dato a Berlusconi di “stupratore della democrazia”, viene definito dallo stesso web “alter ego di Berlusconi”. Qualcosa di non troppo dissimile sta accadendo forse a Grillo. Nei panni di Ingroia, me ne preoccuperei.
il Foglio 8 gennaio 2013
Rivoluzione eh
Grillo, Ingroia e quel gustoso dibattito sul senso più profondo del giustizialismo italiano
Luigi Manconi
Qualche giorno fa ho scritto sul Messaggero un articolo a proposito della scelta di Antonio Ingroia di candidarsi alle prossime elezioni alla guida del movimento Rivoluzione civile, suscitando un dibattito piuttosto accaldato sulla mia pagina facebook.

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Morire con le manette:
la storia di Luigi Marinelli
LUIGI MANCONI VALENTINA CALDERONE
Luigi Marinelli muore il 5 settembre 2011 dopo essere stato ammanettato dalla  olizia. Per la famiglia la sua morte è da collegare alla violenza subita durante
l’arresto. Il prossimo 8 gennaio l’udienza che dovrà decidere sull’archiviazione
del caso.
Luigi Marinelli muore il 5 settembre
2011 nella sua abitazione di Roma,
all’Eur, verso le 15.30. Circa un’ora
prima la madre dell’uomo, a seguito
di una lite per una questione economica,
aveva chiamato la polizia. Luigi
Marinelli, 48 anni diagnosticato schizofrenico,
invalido al cento per cento
e consumatore occasionale di sostanze
stupefacenti, aveva chiesto alla madre
un assegno di 10mila euro, soldi
che gli spettavano in quanto parte
dell’eredità lasciatagli dal padre. La
donna, viste le condizioni di salute del
figlio, si era rifiutata, ne era nata una
lite e per questo motivo decideva di richiedere
l’intervento della polizia. Nel
frattempo Vittorio Marinelli, fratello
di Luigi, si recava nell’abitazione della
madre avvertito da quest’ultima. Da
adesso in poi la situazione precipita.
Di fronte alle insistenze del fratello, e
in presenza della polizia, Vittorio convince
la madre a dare i soldi a Luigi.
Questi, preso l’assegno, cerca di guadagnare
l’uscita ma gli agenti glielo
impediscono. Si susseguono momenti
concitati in cui Marinelli viene sbattuto
contro la porta, atterrato e ammanettato.
Dopo poco ha un malore e fa
visibilmente fatica a respirare. Vittorio
Marinelli, che ha assistito a tutta la
scena, chiede che vengano tolte le manette
al fratello per consentirgli di
muoversi ma gli agenti si accorgono
in quell’istante di non avere le chiavi.
Passano lunghi minuti prima che
un’altra volante allertata dai poliziotti
arrivi a casa di Marinelli e possa liberargli
i polsi. Nel frattempo viene chiamato
il 118 e il personale paramedico,
una volta giunto, non può far altro che
constatare il decesso di Luigi Marinelli.
Sul corpo dell’uomo, nel corso
dell’esame autoptico, sono state riscontrate
quattordici lesioni, oltre alla
rottura di alcune costole. Per i medici
incaricati di effettuare l’autopsia,
quelle lesioni sono «di piccole dimensioni,
superficiali e non compatibili (…)
con azioni di costrizioni o comunque
di colluttazione significativamente
veementi». E a loro avviso le fratture
costali «sono state prodotte dopo la
morte o in limine vitae quando, cioè, il
soggetto era in sul morire: vanno cioè
attribuite alle manovre di soccorso e
di rianimazione». Il pubblico ministero
che ha condotto le indagini ha chiesto
l’archiviazione del caso avvalorando
la tesi prospettata dai consulenti
tecnici per i quali «si può escludere
che la morte di Marinelli sia stata causata
dalla postura coattivamente indotta
da parte degli agenti di polizia».
Contro la decisione del Pm, la famiglia
di Marinelli, attraverso l’avvocato
Giuseppe Iannotta, ha presentato opposizione
alla richiesta di archiviazione.
Per l’avvocato, infatti, non è da
escludere una causa di morte da arresto
cardiaco provocata da un forte
trauma toracico, secondario alle manovre
violente di ammanettamento
da parte di un agente. Le dichiarazioni
rese da questi ultimi non coincidono,
soprattutto per quanto riguarda
l’utilizzo delle manette: uno dei poliziotti
intervenuti nell’abitazione di
Marinella dichiara che “gli venivano
subito tolte le manette di sicurezza”.
Questa circostanza, però è stata smentita
oltre che dal fratello e dalla madre
di Marinelli, anche dagli agenti della
volante intervenuti successivamente
e proprio per portare le chiavi delle
manette. Come è ovvio, la posizione
costretta in cui si trovava Marinelli,
ha impedito di praticare nei modi dovuti
«le pur minime manovre emergenziali
di soccorso nei tempi utili e
indifferibili necessari».
Questo fatto, di estrema importanza,
non viene nemmeno citato dai consulenti
che hanno redatto l’autopsia e
inoltre, nessun approfondimento viene
fatto dal Pm sul perché gli agenti
abbiano ammanettato Marinelli. Non
c’era nessun motivo, infatti, per procedere al fermo dato che la sua condotta non configurava alcuna fattispecie di reato. In ultimo, la mancata individuazione del nesso causale tra l’intervento degli agenti e la morte di Marinelli: Se Marinelli non fosse stato bloccato, scaraventato a terra con veemenza e schiacciato da un peso che superava decisamente i due quintali, sarebbe deceduto in quel momento? L’udienza in cui verrà deciso se queste domande hanno un senso, e se maritano una risposta più approfondita di quella ricevuta finora, è fissata per
l’8 gennaio 2013.
Morire con le manette: la storia di Luigi Marinelli
LUIGI MANCONI VALENTINA CALDERONE
Luigi Marinelli muore il 5 settembre 2011 dopo essere stato ammanettato dalla  olizia. Per la famiglia la sua morte è da collegare alla violenza subita durante
l’arresto. Il prossimo 8 gennaio l’udienza che dovrà decidere sull’archiviazione
del caso.

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da Il Messaggero del 30.12.2012
Luigi Manconi
Se Silvio Berlusconi decide per la discesa - la ridiscesa - in campo, e Mario Monti per la salita in politica, Antonio Ingroia sceglie decisamente un’altra via. Lui, nella sfera pubblica irrompe prorompe si butta a capofitto. Ciascuno è coerente con la propria ispirazione: Berlusconi coltiva un’idea agonistica della politica, propria della sfida estrema e del “giudizio di Dio”; il premier dimissionario evoca una concezione alta delle istituzioni, alle quali offrire un pubblico servizio; l’ex procuratore aggiunto di Palermo ha proposto, nella conferenza stampa di ieri, un’interpretazione tutta conflittuale della sua scelta politica. La lettura agonistica e quella conflittuale dei rispettivi ruoli avvicinano Berlusconi e Ingroia, ma – a ben vedere - emerge un altro tratto comune assai più robusto. Il primo entrò in politica gravato da un onerosissimo conflitto di interessi, peraltro mai sciolto; e la politica è stata, per lui, una sorta di snowboard per condurre un ardimentoso slalom tra le inchieste giudiziarie e le peripezie finanziarie. Non è stata solo questo, per carità: è stata anche genuina passione, ma il conflitto di interessi ha segnato, fino a comprometterla definitivamente, la sua attività pubblica. Ingroia inizia il suo percorso politico appesantito da un analogo ingombrante fardello. Solo ieri, ma proprio proprio ieri, indagava su coloro che già oggi sono i suoi avversari politici e, tra questi, l’arcinemico Berlusconi. E va notato che, mentre Piero Grasso si dimette definitivamente dalla magistratura, l’ex Pm di Palermo - qualora la sua lista non raggiungesse il quorum - riprenderebbe la sua funzione, magari da un altro distretto giudiziario, indagando sui bersagli di sempre. In qualche modo tutto era già scritto. L’ex Pm di Palermo partecipa alle elezioni in primo luogo perché la sua attività giudiziaria si trova in una condizione di stallo: che ciò si debba alle resistenze o, peggio, alle complicità della classe politica ( tesi Ingroia) o alla strutturale debolezza di quella stessa attività giudiziaria ( tesi dei suoi avversari), il risultato non cambia. Ingroia sceglie la politica perché si trova in un vicolo cieco e, invece di ricominciare da capo, con nuova lena e nuovi metodi, semplicemente se ne va. Per poi, eventualmente, ritornare. Come possa una simile traiettoria pubblica e i suoi possibili esiti venire presentati quali esempi di “rinnovamento della politica”, è un mistero talmente ineffabile da ammutolirci. Non solo. Il complesso delle dichiarazioni di Ingroia ha confermato che l’etichetta di “giustizialista” spesso attribuita a lui e all’area intorno a lui, non va intesa soltanto nel suo significato più polemico: ovvero quello di una scarsa sensibilità per le garanzie individuali nel processo penale. Quell’etichetta (approssimativa, come tutte le etichette) rischia di avere, se venisse ulteriormente confermata dalle parole e dalle opere del movimento “Rivoluzione civile”, un risvolto morale e, perfino, “filosofico”. Quanto detto da Ingroia, infatti, va in una sola direzione: cogliere, organizzare e proiettare sul sistema politico la voglia di rivalsa sociale, che cova – com’è inevitabile- nel cuore profondo del paese. Pertanto, qui giustizialismo va inteso come domanda di risarcimento per le ingiustizie, vere o presunte, patite; e come pulsione diffusa, fatta di frustrazione e di rancore, che esige di manifestarsi e di farsi politica esattamente per come è, senza mediazione alcuna. Per ora, non uno straccio di programma che possa tradurre tutto ciò in obiettivi perseguibili. Questo non si deve alla comprensibile fretta con cui la lista è stata presentata: bensì alla preoccupazione che un programma articolato finisse col selezionare le domande e gli interessi, invece di proporsi quale contenitore di ogni protesta, come oggi è. Paradossalmente, ma non troppo, è questo un altro elemento di affinità con il primo Berlusconi: Forza Italia e la Casa delle libertà si facevano portavoce di tutte le istanze, appunto, di libertà (da quelle più nobili a quella di occultare i propri beni al fisco). Infine, va evidenziato che, nella conferenza stampa di ieri, il vero bersaglio sono stati Mario Monti, Pierluigi Bersani e Grasso e non il leader del PdL. Tanta animosità nei confronti dell'ex procuratore nazionale antimafia può apparire tanticchia ( per usare il siciliano di Andrea Camilleri, condiviso dai due procuratori) grottesca: una conferenza stampa, destinata a presentare una lista, viene ampiamente dedicata al confronto tra due linee strategiche in materia di contrasto alla criminalità organizzata e alla disanima dei comportamenti di quello che, fino a ieri, era la massima autorità nella lotta contro le mafie. Non stupisce. La lista “ Rivoluzione civile” cerca spazio, inevitabilmente, nel campo del centrosinistra e ai suoi confini estremi. Dunque, sono suoi competitori coloro che quel campo presidiano, sia da posizioni moderate che da posizioni riformatrici. E così - paradosso nel paradosso - il partito di Ingroia, come 5 Stelle, finisce con lo svolgere un ruolo simile a quello che, sull’opposto versante, gioca la Lega Nord. Esito singolare.
il Messaggero 30 dicembre 2012
da Il Messaggero del 30.12.2012
Luigi Manconi
Se Silvio Berlusconi decide per la discesa - la ridiscesa - in campo, e Mario Monti per la salita in politica, Antonio Ingroia sceglie decisamente un’altra via. Lui, nella sfera pubblica irrompe prorompe si butta a capofitto. Ciascuno è coerente con la propria ispirazione: Berlusconi coltiva un’idea agonistica della politica, propria della sfida estrema e del “giudizio di Dio”; il premier dimissionario evoca una concezione alta delle istituzioni, alle quali offrire un pubblico servizio; l’ex procuratore aggiunto di Palermo ha proposto, nella conferenza stampa di ieri, un’interpretazione tutta conflittuale della sua scelta politica.

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LO SCIOPERO DELLA PAURA
(Dedicato a Marco Pannella)
Alessandro Bergonzoni
Sarei capace di fare lo sciopero della fame?E della sete? Non lo so’ credo di si’ ma potrebbe essere letto come una forma di protagonismo e anche in ritardo:in ritardo in confronto a chi come Pannella lo fa’davvero  da un tempo lontano e profondo ,in ritardo in confronto agli anni che ho perso a non considerarlo cosi’ fondamentale (anche se come molti altri ho cercato di capire o di vedere il carcere).Non basta piu’.Non serve piu’ aver fatto il possibile,me lo devo ripetere alla noia,che col possibile le morti  dentro, nostre ,ma soprattutto loro, continuano aumentano si incrementano.Sì, e’ anche retorica certo,retorica di ritorno ,che non farei se non esistesse la retorica di andata,quella di chi dice che non e’ mai il momento per fare una nuova legge ,di chi dice che qualche miglioramento c’e’ stato,che una galera e’ una galera, che il danno creato non puo’ non avere punizione adeguata al reato, che i numeri stanno cambiando...Ma quello che non cambia e’ il sistema metrico  “decimante”,che vede cadere ancora vite e esseri,che vede radere al suolo  chi di adeguato dovrebbe avere il rispetto che non ha dato,la serenita’ che ha levato,le possibilita’ che ha tarpato,l’umanita’ che non ha capito.Come si fa’ ad imparare a forza di sanguinare,come si fa’ a capire dove si e’ sbagliato, se dove si deve vivere e’ sbagliato,se il dove si deve vivere e’ marcito,se dove si sta’ non e’ un posto ne un luogo ma un truogolo...Non sono tutte cosi’ le celle, le prigioni,dicono....E allora quando si comincera’ a dire che nessuna deve essere cosi?Eccezioni e regole: quale la differenza ,quale l’essenza?
Allora propongo non lo sciopero dell indifferenza, troppo demagogico,ne lo sciopero dell indecenza.
Propongo lo sciopero della paura.Non si puo’ piu’ alimentarla ,foraggiarla,allevarla.La paura di conoscere fino in fondo perche’ non sopportiamo di alleviare la tortura( che in Italia non c’e’ come reato ma c’e’ di fatto) della punizione “sporca”, dell infliggere oltre ogni umana sembianza ad una persona il male, tanto per fare ,tanto per lasciare andare.Chiediamo alla nostre paure di fermarsi, di non andare a incunearsi nell’anfratto della vendetta “giusta”,della pena che non puo’ essere buona,della colpa che deve essere espiata solo con alta sofferenza. Diciamolo alla nostra pavidita’ che anche se non ci tocchera’ nessuna galera,  ci sta gia’ toccando,che siamo conniventi nel pensiero nella coscienza nell’anima e nel corpo di chi ha un nostro corpo.Facciamo lo sciopero dell’accidia:smettiamola di non fare,di non fare caso(davanti ai troppi “casi”), di non fare niente, di non fare tutto, di non fare tanto.Il fare “finta di niente” è l’unico fare che non produce ,che non cambia , che non da’, che non fa’ pensare ;ecco, il pensiero:non e’ cosi’ inutile come si crede,non e’ cosi’ leggero da non trasformare.Sento gia’ chi mi dice –“A parole o nelle intenzioni son capaci tutti...”Siamo sicuri che la parola “intenzione”,la parola “pensiero” ,non siano anche concetti portanti e trascendenti,che non siano l’inizio di un nuovo volere,di un contatto- contagio, che arriva fino a chi e’ vessato e violato, e che non arrivi anche a chi deve sentire i nostri pensieri per cambiare il suo, con una legge, con nuove regole?
Siamo cosi’ certi che almeno raccontare  ad un figlio ad un padre ad un amico cosa’ puo’ cominciare a ripensare sul punire e umiliare, non dia frutti ?L’energia di una volonta’ pensata desiderata e chiesta, non sarebbe un ennesimo incipit,una diversa genesi, per scoprirsi convinti che cio’ che accade a chi ha peccato ,non va’ accampagnato con altro peccato? Non sentiamo come
questo concetto possa risuonare fino a far vibrare in maniera diversa, la corda di chi vuole impiccare o strangolare diritti inalienabili ? Certo che si deve anche andare a vedere,dare toccare ,annusare , abbracciare:ma chi non puo’ ,non riesce, non lo senta come alibi per non poter fare il famoso niente:impari a credere che ci sono frequenze importanti (quasi pari al frequentare),che ci sono onde che possono arrivare, partite da ben piu’ dentro, che solo apparentemente sembrano non utili o invisibili.
Facciamo sciopero anche dell’incredibilita’,dell’impossibilita’,dell’inconcepibilita’: a chi pena per esagerazione o menefreghismo, arrivera’ qualcosa di piu’ che  solo pensiero.
LO SCIOPERO DELLA PAURA
(Dedicato a Marco Pannella)
Alessandro Bergonzoni

Sarei capace di fare lo sciopero della fame? E della sete? Non lo so, credo di sì, ma potrebbe essere letto come una forma di protagonismo e anche in ritardo: in ritardo in confronto a chi come Pannella lo fa davvero  da un tempo lontano e profondo, in ritardo in confronto agli anni che ho perso a non considerarlo così fondamentale (anche se come molti altri ho cercato di capire o di vedere il carcere). Non basta più. Non serve più aver fatto il possibile, me lo devo ripetere alla noia, che col possibile le morti  dentro, nostre, ma soprattutto loro, continuano aumentano si incrementano.

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Cialtronismi
Le sparate di Paolo Villaggio,
il caso Petraeus
e la nascita della tragedia
Luigi Manconi
Il titolo di questa rubrica (politicamente correttissimo) dichiara da subito la ragione sociale di un’analisi e di una critica, che fatalmente – lo ammetto  – può assumere i tratti di un tic. Di una vera e propria fissazione culturale. In genere, la rivendicazione del politicamente correttissimo è imposta da ciò che mi appare come il dominio del Cialtronescamente Scorretto (e scorrettissimo). Il florilegio possibile di tali scelleratezze è grandiosamente vario e vasto. Bastino un paio di esempi. Il primo. Alcuni mesi fa, Paolo Villaggio, nel corso della Zanzara (Radio24), così commentò le Paralimpiadi di Londra: «una specie di riconoscenza o di esaltazione della disgrazia». È , va da sé, il giudizio di un comico: certamente intelligente e che fu, decenni fa, straordinariamente bravo. Ma non è l’inizio di una nuova ermeneutica della fatalità del destino, né il manifesto di un originale pessimismo cosmico o  di un neo-cinismo dell’Età del Perfettibile. Piuttosto una battuta, che – nel migliore dei casi - allude a un senso tragico della vita e lo esprime con una tale crudeltà da far immaginare una personale esperienza del dolore. Ma, in poche ore, quella frase diventò un ulteriore vessillo del politicamente scorretto: “un’invettiva contro la retorica dei buoni sentimenti”, “il disvelamento dell’Ipocrisia Dominante” e, addirittura, “la catastrofe del buonismo progressista”. Il secondo esempio riguarda la vicenda del generale David Petraeus, del quale vengono rese note alcune relazioni extra-coniugali. L’informazione viene pubblicata da tutti i giornali e i siti del mondo unitamente alla foto della moglie tradita, la cui scarsa o nulla avvenenza viene letta – prima obliquamente, poi esplicitamente -  come la vera causa dell’incontinenza erotica del coniuge. Una volta che una simile Rivelazione diventa, nell’ammiccamento generale e nella conversazione quotidiana, “la vera verità sul caso Petraeus”, il patatrac è fatto. Secoli e secoli di raffinate complessità psicologiche su contraddizioni eterne (come “fedeltà/tradimento” e “perfezione/imperfezione”) vengono azzerate in un attimo solo. Cosicché il  campionissimo del politicamente scorretto, il professionista dell’anticonformismo à la carte, poté uscirsene con un : “La signora Petraeus è un cesso”. Standing ovation, ola sugli spalti, trionfo sulla rete (e tanti gridolini: ma com’è coraggioso, lui). A conferma del fatto che ciò che si propone come politicamente scorretto non è altro che l’omologazione al senso comune nella sua versione, di volta in volta, più laida o più ordinaria, più indecente o più banale. Si dirà: ma questo è il trash della scorrettezza. Poi c’è la versione alta, quella intelligente e colta, che effettivamente colpisce un deposito di parole e  immagini, ispirate tutte alla volontà di “mettere le mutande al mondo”. E questo tentativo, non giustificato dalle buone intenzioni, oltre a risolversi spesso nel ridicolo, finisce con l’offrire una rappresentazione totalmente alterata della realtà (è quella “cultura del piagnisteo” denunciata da Robert Hughes).  Ma, più propriamente, il politicamente corretto dovrebbe definire una delle culture che informano i processi di civilizzazione del senso comune nelle società democratiche. Ovvero, quell’insieme di valori e di parole conseguenti, di categorie e di atti, che qualificano un’idea di collettività e di relazioni tra i gruppi e gli individui, rispettosa della dignità di tutti e volta al superamento, per quanto possibile, di diseguaglianze, discriminazioni, ingiustizie. Purtroppo, il cialtronismo scorretto ha manomesso a tal punto la mentalità delle élite da far scordare tutto questo, riducendolo solo ed esclusivamente a questione di stile e di linguaggio. Ne è una conferma paradossale un articolo pubblicato su Il, supplemento del Sole 24 Ore. Qui, un autore acuto come Alessandro Piperno conclude un affascinante saggio su Saul Bellow, scrittore della “discordia umana”, citando il suo Mr Sammler che, scampato alla Shoah, si trova di fronte un nazista disarmato: e  “senza neppure pensarci” spara. Bellow: “Uccidere quell’uomo gli aveva fatto piacere. Si trattava di piacere soltanto? Era di più. Era gioia. La chiamereste un’azione tenebrosa? Al contrario, era anche un’azione luminosa”. Così commenta Piperno: “Conoscete uno scrittore in circolazione che potrebbe descrivere la gioia di un omicidio – la giustizia riparatoria di un omicidio – con altrettanto spregiudicato fervore? Io non ne conosco. E apprezzo che, tempo fa, il sindaco di Chicago si sia opposto all’idea di dedicare una piazza a Saul Bellow”.  Ecco, qui Piperno sembra voler esaltare, contro il perbenismo morale e politico, la  scandalosa “gioia di un omicidio”. Può sembrare la più sofisticata celebrazione del politicamente scorretto, ma – per fortuna – siamo in presenza di ben altro. Sappiamo che quel brano di Bellow costituisce il cuore e il paradigma, l’espressione recente di un archetipo e la rappresentazione attuale di una categoria che è così propria dell’animo umano da ricorrere immancabilmente in ogni opera letteraria degna di questo nome. Senza quella combinazione di “tenebroso” e “luminoso”, non vi sarebbe stata la tragedia greca né il grande romanzo borghese. Non vi sarebbe la poesia.
il Foglio 18 dicembre 2012
Cialtronismi
Le sparate di Paolo Villaggio, il caso Petraeus e la nascita della tragedia
Luigi Manconi
Il titolo di questa rubrica (politicamente correttissimo) dichiara da subito la ragione sociale di un’analisi e di una critica, che fatalmente – lo ammetto  – può assumere i tratti di un tic. Di una vera e propria fissazione culturale. In genere, la rivendicazione del politicamente correttissimo è imposta da ciò che mi appare come il dominio del Cialtronescamente Scorretto (e scorrettissimo).

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Così è morto Michele Ferrulli. Un video inedito
di Luigi Manconi e Valentina Calderone.
Michele Ferrulli, 51 anni, il 30 giugno 2011 subisce un fermo di polizia sotto la sua abitazione, in via Varsavia a Milano. Ferrulli si trovava in compagnia di due amici; e insieme ascoltavano la musica che usciva dallo stereo del loro furgone, chiacchieravano e bevevano birra. Erano le 21.30 di una calda serata estiva. I poliziotti intervengono chiamati da qualcuno infastidito dal suono dello stereo e, secondo quanto riferiscono alcuni testimoni, Ferrulli risponde pacatamente alle domande degli agenti e fornisce loro i documenti. In pochi attimi, per ragioni non chiarite, tutto precipita. Michele Ferrulli viene immobilizzato, ammanettato e buttato a terra. I video acquisiti dalla Procura mostrano come Ferrulli, inerme, sia stato colpito più volte con calci e pugni.
La documentazione videoregistrata acquisita agli atti riguarda tre differenti riprese, disponibili da oggi sul sito Unita.it. La prima di queste è stata effettuata dalla telecamera esterna a una farmacia: nella scena si vede Ferrulli accanto al furgone, che parla e ride con gli amici e con uno di loro, poco dopo, accennerà qualche passo di danza. All’arrivo dei poliziotti la situazione sembra essere tranquilla, Ferrulli si avvicina a un cestino per buttare la bottiglia di birra e parla con gli agenti. Uno di questi, negli attimi successivi, dà uno schiaffo a Ferrulli senza che dal video se ne capisca il motivo. Poi si vede l’arrivo di una seconda auto pattuglia dalla quale scendono altri due agenti e, poco dopo, tutti gli uomini scompaiono dall’inquadratura. Gli altri due video sono stati girati con dei telefoni cellulari e mostrano la scena successiva, quella delle percosse subite da Michele Ferrulli. Il primo filmato è ripreso dall’alto di un palazzo, e la scena appare poco distinguibile, mentre il secondo è girato dall’interno di una macchina parcheggiata in prossimità del luogo dove è in corso il fermo. Questo è di sicuro il documento più interessante. L’autrice del video è nell’abitacolo con un’altra donna e insieme commentano ciò che vedono. Le loro parole, tradotte in italiano dal romeno, sono queste: «l’hanno preso per i capelli, non vuole dargli il braccio», «hai visto che cazzotto in bocca?», «guarda come lo picchiano, prima le manette e poi lo hanno massacrato», «ma non gli spezzano i reni? vedi? poverino!», «è morto!», «è morto dici?», «non vedi ha la faccia nera non si muove più». Flebili, e quasi indistinguibili, si sentono le invocazioni di Ferrulli: «aiuto, aiuto, basta». Michele Ferrulli muore per arresto cardiaco sull’asfalto, ancora con le manette ai polsi. Il fascicolo aperto per la sua morte ha rischiato di essere archiviato ma l’acquisizione dei video ha fatto ripartire le indagini. Il giudice per l’udienza preliminare ha rinviato a giudizio i quattro poliziotti, riqualificando il reato da cooperazione in omicidio colposo a omicidio preterintenzionale. E il Gip così scrive nel decreto che dispone il giudizio: gli agenti hanno agito con «negligenza, imprudenza e imperizia, consistente nell’ingaggiare una colluttazione eccedendo i limiti del legittimo intervento, percuotendo ripetutamente la persona offesa in diverse parti del corpo, pur essendo in evidente superiorità numerica». Si tratta di una decisione estremamente importante. In vicende simili, quando cioè non sono presenti ferite mortali agli organi vitali, difficilmente viene riconosciuto il nesso di causalità tra l’intervento, violento come in questo caso, degli agenti e la morte del fermato. Questa volta, invece, il processo partirà dall’ipotesi che gli agenti coinvolti abbiano agito in maniera gravemente sproporzionata e che il loro intervento abbia concorso in maniera diretta a provocare la morte di Ferrulli. La prima udienza si è tenuta il 4 dicembre e a partire dal 23 aprile 2013 saranno ascoltati i testimoni. Nel frattempo il giudice deciderà se ammettere le telecamere all’interno dell’aula, com’è stato chiesto dalla figlia e dalla moglie di Ferrulli.
Clicca qui per accedere al video
http://www.unita.it/italia/cosi-e-morto-michele-ferrulli-br-ecco-il-video-inedito-1.473176
l'Unità 11 dicembre 2012
Così è morto Michele Ferrulli. Un video inedito
di Luigi Manconi e Valentina Calderone
Michele Ferrulli, 51 anni, il 30 giugno 2011 subisce un fermo di polizia sotto la sua abitazione, in via Varsavia a Milano. Ferrulli si trovava in compagnia di due amici; e insieme ascoltavano la musica che usciva dallo stereo del loro furgone, chiacchieravano e bevevano birra.

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Gruppo di lavoro "Undirittogentile"
PER UN DIRITTO GENTILE IN MEDICINA
Una proposta di idee in forma normativa
http://www.abuondiritto.it/upload/files/propostaundirittogentileinmedicina.pdf


 
Beati loro
Luigi Manconi
1. Ciascuno di noi conosce momenti di perdizione assoluta. Senza sprazzi di lucidità e senza forme di autocontrollo. Accade. E in alcune di tali circostanze – devo dirlo – mi è capitato di chiedermi: e se fossi berlusconiano? Non mi interessano in alcun modo le conseguenze direttamente politiche e tantomeno quelle sociali di una simile condizione. Mi interessa, qui, solo ed esclusivamente il suo effetto psichico: e, tra le conseguenze che ciò ha sulla coscienza individuale, lo stato di dipendenza che comporta. Per dipendenza intendo una peculiare forma di sudditanza fisica o psichica (ma anche fisica e psichica) da un singolo o da un gruppo, da un comportamento o da una sostanza, da una combinazione di eventi o da un clima. In altre parole si può dipendere da un amore o da un leader, da una consuetudine o da un manipolatore, da un narcotico o da una passione. Ecco, è da quella tipologia di dipendenza che può derivare –attraverso complesse mediazioni, per carità! -  la condizione di homo berlusconianus. Da secoli sappiamo che il carisma, nella sua origine religiosa come in quella laica, rimanda a una sorta di grazia: qualcosa, cioè, che eccede la dimensione razionale per mobilitare risorse emotive e stati d’animo profondi, influenze sottili e suggestioni tanto impalpabili quanto coinvolgenti, dalla dedizione alla trance. Personalmente – come pressoché tutti, immagino –  sono stato occasionalmente dipendente da qualche potenza esterna (un gruppo politico, una comunità generazionale, una moda, una credenza ideologica …), ma tutto ciò è stato di breve durata e di relativa profondità. Non mi è capitato mai, tuttavia, di innamorarmi di un leader al quale votarmi, e non so se rallegrarmene o immalinconirmene. Forse sarebbe stata, anche quella, un’esperienza degna di essere vissuta. Rimane la curiosità per coloro che continuano a viverla: nei confronti di Silvio Berlusconi, ad esempio. In questo caso, quella dipendenza sembra essere irreversibile, se non per pochi, pochissimi scampati o resipiscenti. E non sembra prevedere forme di auto-aiuto, né strategie di emancipazione, vie d’uscite e terapie di disintossicazione. Quella dipendenza non offre scampo né tregua; e non ha un andamento progressivo e una crescita lineare: si presenta, da subito, in forma parossistica. Come pandemia e come emergenza clinica. Eppure deve essere bellissimo precipitarvici, perdersi in quell’”inconscio mare calmo”, smarrirsi in quella vertigine. Beati loro.
2. “il finto schierarsi contro tutto e tutti, i toni da difensore civico della moltitudine impotente derubata dal sistema, tutto questo apparato retorico estremamente prevedibile, tipico delle fasi di crisi, populista senza costrutto e senza senso, potenza di fuoco antidemocratica, linguaggio squadristico molto italiano, italianissimo. Ma è ovviamente un  fuoco fatuo, che solo a essere ipocriti si può trattare con rispetto contegnoso, considerazione politologica”.
Questa feroce rappresentazione del messaggio berlusconiano - tratteggiata ieri su queste colonne da Giuliano Ferrara - presenta una lancinante contraddizione: dal titolo e dal contesto sembrerebbe proprio che il bersaglio originario del direttore del Foglio fosse non Silvio Berlusconi, ma Beppe Grillo. Ma le righe qui riportate, i sostantivi e gli  aggettivi, le formule e le immagini richiamano, infallibilmente, il berlusconismo. Dunque, l’ipotesi è che si sia verificato quello che, nella critica letteraria, viene definito “effetto-gorgo”. Ferrara ha cominciato a descrivere i connotati essenziali dell’agitazione politica di 5 Stelle, ma poi è precipitato nella stessa  spirale di scrittura da lui creata, ne è rimasto avvinto e avviluppato, al punto da identificarsi totalmente con l’oggetto della sua stessa critica, venendone esaltato fino all’abbandono. E, così, la disanima spietata del grillismo rimbalza sullo specchio che vorrebbe rifletterlo restituendoci i tratti essenziali di quella cultura politica – il berlusconismo -  di cui è un’estrema variabile. Aggiungo che l’analisi di Ferrara non è interamente condivisibile sul piano strettamente tecnico: il canone comico di Grillo, sotto il profilo linguistico e gestuale, è logoro ormai da decenni, al punto che oggi egli non è più né “bravo” né “divertente”, come il direttore del Foglio vorrebbe. E la dimensione politica deteriora ulteriormente il suo copione. Ciò finisce per esaltare quello che è, alla resa dei conti, il più importante tratto unificante della cultura grillina e di quella berlusconiana. Non la trivialità e  nemmeno il populismo, bensì quell’azzeramento della storia e della memoria che è il sostrato di ogni autoritarismo.
il Foglio 11 dicembre 2012
Beati loro
Luigi Manconi
1. Ciascuno di noi conosce momenti di perdizione assoluta. Senza sprazzi di lucidità e senza forme di autocontrollo. Accade. E in alcune di tali circostanze – devo dirlo – mi è capitato di chiedermi: e se fossi berlusconiano? Non mi interessano in alcun modo le conseguenze direttamente politiche e tantomeno quelle sociali di una simile condizione. Mi interessa, qui, solo ed esclusivamente il suo effetto psichico: e, tra le conseguenze che ciò ha sulla coscienza individuale, lo stato di dipendenza che comporta.

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Silvio Berlusconi
Il passato che non passa
Ubaldo Pacella
Un gesto di semplice dignità come quello del presidente del consiglio Mario Monti ha squarciato il velo sulla manovra, a lungo meditata da Silvio Berlusconi. La scena da commedia degli inganni, cui troppi guitti di turno si sono prestati, ha una gestazione ad orologeria: sfilarsi dal governo una settimana prima del pagamento,del saldo IMU, una sorta di mini patrimoniale che avvelena anche i piu ortodossi contribuenti con buona pace del compianto Tommaso Padoa Schioppa. Mossa facilmente prevedibile, perché nessun analista politico o cittadino avveduto avrebbe potuto pensare che una persona come Silvio Berlusconi avrebbe accettato di farsi da parte, men che mai perché cacciato a forza dalle cancellerie europee, per evitare non la bancarotta dell'Italia cui pochi tengono anche nel nostro sofferente Paese, bensì il naufragio della UE provocato dal default italiano.
La politica aveva provato a rianimarsi attraverso le primarie del PD, un indubbio successo di partecipazione, ricco di sviluppi, forse evocativo di qualche novità reale come di scenari meno polverosi e stantii come quelli che ci intristiscono da oltre venti anni, ed opla' una capriola del grande cabarettista manda tutto immediatamente nel dimenticatoio e apre una fase di assillante preoccupazione al Paese, gravida di inquietudine, aspra nelle soluzioni, qualunque esse si determinino con le prossime elezioni politiche.
Mi accingevo a commentare proprio le primarie vinte da Bersani, quando i fatti spazzano via ogni dialettica, relegano la riflessione nei cassetti, seppelliscono la filosofia con le necessita contingenti.
La sfida di Berlusconi, perché non si puo' parlare di ritorno essendo egli stato per un anno, con tutta evidenza il vero convitato di pietra, non e' politica, avviene contro l'Italia. Egli getta la maschera, ben oltre il triste cerone e i lifting che lo illividiscono, per dimostrare che ancora vanta un seguito, che pur da sconfitto sarà una spina del fianco di qualsiasi Governo, siano a che non otterrà qui privilegi che insegue da sempre, salvacondotti o risultati di cassa da spendere nei tribunali, come negli assetti Dell ' emittenza televisiva. L'Italia e gli italiani sono uno strumento o un fastidio per i suoi fini, mai che abbiano la dignità di essere considerati cittadini.
Il disprezzo arrogante dimostrato verso i tristi corifei del suo partito lo dimostra. Solo Gianni Letta e Fedele  Confalonieri sono al riparo da questo giudizio che egli dimostra in ogni gesto, tipico dei sultani orientali, cui si ispira con quel sordido harem oscurato nell' ultimo anno.
Una sfida mortale alla claudicante democrazia italiana, questo rappresenta oggi Berlusconi. Offrire il suo volto per la piu' becera scontata campagna grondante di populismo, anti europea, irridendo i dolorosi sacrifici fatti da milioni di lavoratori e di famiglie in questo anno, per contenere le nefandezze e le conseguenze del fallimento dei suoi governi e della politica economica di Tremonti, scaricando le responsabilità su Mario Monti e i ministri tecnici significa dare una veste ancorché logora a quella parte del Paese che ritiene possibile non onorare gli impegni, che rifugge le cambiali sottoscritte, al pari delle tasse che pur largamente evade, che illude cialtroni, imbelli, profittatori che si puo' continuare così a danno della stragrande maggioranza di cittadini onesti.
Si aggregherà nelle settimane di campagna elettorale una sentina di umori gaglioffi, capace di avvelenare un clima già drammatico come non mai. La caduta di Berlusconi a novembre evoca quella di un altro incitatore delle masse Benito Mussolini il 25 luglio del,' 43 poi venne la repubblica di Salo'. Oggi la roccaforte evocata da Berlusconi si ritaglia nello stesso paesaggio dal Garda, al lago Maggiore, sino alla laguna veneta. Ci aspettano giorni tormentati, ove la politica che con le primarie provava a rialzarsi dalla polvere del disgusto e dell'indifferenza gioca contro un effetto volutamente destabilizzante, contro l'estremo ricatto di un berlusconismo declinante e delirante. Nemmeno Berlusconi pensa di vincere la,partita politica, vuole essere decisivo in quella del ricatto e con questo regala a tutti noi altri anni di iniquità di vergogna, ci allontana da quella coerente dignità che e' il fulcro di ogni democrazia, ove la responsabilità trionfa rispetto agli interessi di parte, basta gettare uno sguardo verso gli Stati Uniti nei quali Obama riconfermato impone la sua agenda. Non siamo un Paese per uomini normali, ci tocca in sorta ancora di conquistare questa dignità.
10 dicembre 2012
Silvio Berlusconi
Il passato che non passa
Ubaldo Pacella
Un gesto di semplice dignità come quello del presidente del consiglio Mario Monti ha squarciato il velo sulla manovra, a lungo meditata da Silvio Berlusconi. La scena da commedia degli inganni, cui troppi guitti di turno si sono prestati, ha una gestazione ad orologeria: sfilarsi dal governo una settimana prima del pagamento,del saldo IMU, una sorta di mini patrimoniale che avvelena anche i piu ortodossi contribuenti con buona pace del compianto Tommaso Padoa Schioppa.

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Politicamente correttissimo
Politica o videopoker
Facile dire primarie. Ma esistono solo due tipi di partito, quello classico e quello carismatico
Luigi Manconi
Ci sono buoni tutti, adesso, a dire: primarie, primarie, primarie. Bastino due esempi. Quello di Beppe Grillo che lancia le sue Parlamentarie online, destinate ad avere – fatalmente – la stessa trasparenza di regole e la stessa qualità di democrazia del Video poker. Ma prendiamo pure il PdL, dove il ricorso alle primarie viene invocato, da alcuni, come la via d’uscita e il toccasana di una situazione a dir poco rovinosa; e dove, per converso, l’ostilità verso quello strumento è manifestata innanzitutto da Silvio Berlusconi, massimamente ostile a ogni cambiamento. Va detto che, quella di Berlusconi, è ancora una volta una manifestazione di “lucida follia”. E, infatti, una delle lezioni delle primarie, valida per l’intero sistema politico italiano, è che esiste uno strettissimo legame tra la forma di mobilitazione determinata dalle primarie e la forma del partito di massa. Quest’ultimo, comunque rinnovato e  per quanto disastrato, resta la pre-condizione e, allo stesso tempo, il destinatario/beneficiario della partecipazione collettiva che le primarie attivano. Se quella struttura del partito di massa semplicemente non esiste, le primarie altrettanto semplicemente non possono farsi. È il caso del PdL. Quest’ultimo è stato, nel corso di tre lustri, indubbiamente un partito; ed è stato un partito vero, fatto di persone in carne e ossa, mosse da interessi e valori, non un partito di plastica, mera costruzione pubblicitaria e, al più, rete di lobbies elettorali. Ma è stato – questo è il punto – pienamente, e si può dire perfettamente, partito personale-carismatico-plebiscitario. Ovvero l’esatto contrario di ciò che prima ho definito la struttura del partito di massa, comunque rinnovata e per quanto disastrata. Quella struttura, derivata interamente dalla forma-partito classica della storia politica continentale e, nella seconda metà del ‘900 italiano, dai modelli della DC e del PCI, è sopravvissuta e resiste tuttora. La pressoché unanimità dei commentatori politici l’ha data per totalmente esaurita o, al più, l’ha considerata uno strascico residuale, e folclorico, del passato; e ha enfatizzato le forme alternative che, via via, si presentavano sulla scena pubblica: dal partito personale a quello liquido, dalla formazione monotematica a quella online. I risultati sono, desolatamente, sotto gli occhi di tutti. I due principali partiti personalistici (quello intestato a Silvio Berlusconi e quello intestato ad Antonio Di Pietro) sono letteralmente allo sfascio; quello liquido resta una variabile minoritaria e in qualche modo accessoria del partito di massa che si fa, diciamo così, più rilassato e sbarazzino: ma che, se ha bisogno della legittimazione di tre milioni di persone in fila davanti alle urne, deve comunque ricorrere alla vecchia, cara militanza. Con il suo delizioso old fashion, che non piacerà a tanti, ma che resta l’unica forma conosciuta di azione pubblico-politica collettiva. Con le sezioni (i circoli), con le relazioni faccia a faccia, con l’attività volontaria, con il proselitismo, con la rete di militanti e dirigenti distribuita sul territorio, con l’aggregazione in sedi comuni e la mobilitazione diffusa, con i coordinamenti comunali, provinciali e regionali. Con la politica, cioè, della più classica tradizione democratica. Potrai metterci tutta la televisione del mondo e tutto il web e tutto il twitter, ma poi lì devi tornare: a un luogo fisico dove le persone confrontano le proprie idee e i propri interessi, si battono per affermarli e per persuadere altri della loro bontà, trovano una sintesi, o, se si vuole, un compromesso, al fine di perseguire un obiettivo comune. Il resto, francamente, è fuffa. O puerile ideologia novista e sottocultura d’accatto. La sola alternativa a ciò, sempre che vi piaccia (a me no, va da sé), è il partito carismatico-plebiscitario, che richiede – non c’è scampo – un titolare di carisma. Berlusconi lo è stato e palesemente non lo è più. Amici e avversari facciamocene una ragione.
il Foglio 4.12.2012
Politicamente correttissimo
Politica o videopoker
Facile dire primarie. Ma esistono solo due tipi di partito, quello classico e quello carismatico
Luigi Manconi
Ci sono buoni tutti, adesso, a dire: primarie, primarie, primarie. Bastino due esempi. Quello di Beppe Grillo che lancia le sue Parlamentarie online, destinate ad avere – fatalmente – la stessa trasparenza di regole e la stessa qualità di democrazia del Video poker.

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La ricchezza e i rischi del partito plurale
Luigi Manconi
Proviamo a sollevare, intanto, uno tra i veli più vaporosi e suggestivi, che aleggiano, in queste ore, intorno al successo ottenuto dalle primarie del centrosinistra. Ovvero: i vincitori sono due. A proposito del gioco del calcio Gianni Brera sosteneva che “il risultato perfetto” sarebbe lo zero a zero. L’unico capace di “celebrare due trionfatori assoluti”. Ma, qui, l’esito è assai diverso da un pareggio: tra Pierluigi Bersani e Matteo Renzi corrono nove punti di differenza. Ne consegue che, in realtà, le primarie hanno indicato un ottimo vincitore e un ottimo sconfitto. Si vedrà, domenica prossima, se tale risultato verrà confermato, ma nel frattempo, questo è il primo dato da assumere. Il secondo è quello che permette di articolare quella valutazione unanimemente positiva sull’ampia affluenza alle urne: la partecipazione, pur differenziata geograficamente e come sempre diseguale tra centro e periferia e tra città e campagna, è risultata assai significativa sull’intero territorio nazionale. Ora, se si tiene presente che l’operazione di voto è stata più complessa e faticosa di quella prevista dalle elezioni politiche, gli oltre tre milioni di cittadini che hanno voluto esprimere la propria scelta, rappresentano davvero un segnale eloquente. Per questo, la reazione di Beppe Grillo appare davvero grottesca (“primarie dei folli”,  “nullarie”, “comparse”, “bromuro sociale”…). È sempre pericoloso disprezzare le libere scelte delle persone: tanto più quando esse rivelano, oltretutto, una forte valenza simbolica. Anche chi voglia considerare conformista e gregario l’atto di introdurre una scheda nell’urna, deve riconoscere che esso è infinitamente più impegnativo e pensato, responsabile e motivato, rispetto a quel solitario click sulla tastiera, col quale si celebrerebbe la politica online. Insomma, sarà pure un gesto consuetudinario o l’esercizio di un “diritto debole”, ma il voto resta, per la grande maggioranza dei cittadini, la più efficace e consapevole espressione di volontà politica. (A parte la rivoluzione violenta che, notoriamente, presenta altre e numerose controindicazioni). Dunque, il dato dell’affluenza merita di essere indagato con ancora maggiore precisione perché potrebbe evidenziare altre interessanti tendenze, oltre quelle alle quali alludono gli altissimi consensi ottenuti da Bersani in tutto il Meridione e da Renzi in alcune tradizionali “roccaforti rosse”. Vale la pena, poi, notare come il successo di Bersani si debba, tra l’altro, al “buon uso di Renzi” che il segretario del Pd ha saputo fare. In altre parole, Bersani ha “giocato Renzi” all’interno della propria strategia: dopo un’iniziale incertezza, è riuscito a sottrarsi al ruolo di bersaglio dell’offensiva “giovanilistica” lanciata dal suo avversario. Quest’ultimo, a sua volta, ha dovuto ridimensionare l’enfasi sulla categoria di “rottamazione”, consunta per esser stata agitata troppo precocemente e troppo corrivamente banalizzata, e Bersani ha saputo comportarsi come se l’imputazione lo riguardasse poco o nulla. Di più: ha saputo assumere all’interno del proprio discorso pubblico alcuni dei messaggi di quel rinnovamento che l’antagonista sembrava aver ridotto a questioni di stile, di linguaggio, di gestualità. In altre parole, il segretario del Pd ha adottato la “mossa del judo” (e di tutte le arti marziali asiatiche), facendo sua la spinta dell’avversario, senza resisterle, ma abbandonandosi a essa e utilizzandone l’energia. D’altra parte, Renzi, sconfitto nei numeri, può dire di aver “contaminato” il partito, introducendovi metodi e messaggi che – al di là del giudizio di merito - segnano una discontinuità; e, seppure ancora lontani dal definire una cultura politica alternativa, rappresentano indubbiamente un fattore di maggiore articolazione e di più ricca complessità dell’identità del Pd. Sia chiaro: quella che ho appena definito come più ricca complessità dell’identità del Pd, che inevitabilmente si riflette sull’intera coalizione di centrosinistra, costituisce un dato positivo sotto molti profili, ma rappresenta anche un fattore di debolezza. Un esempio solo. In materia di mercato del lavoro, nel centrosinistra, e nello stesso Pd convivono, Dio solo sa quanto conflittualmente, le posizioni della Fiom e quelle riassunte dal senatore Pietro Echino. Nel Labour Party inglese nessuno menerebbe scandalo per una contraddizione così acuta: lì, lo spirito di scissione non è distruttivo come nel nostro paese e la coesistenza tra destra sindacale e trotskisti, tra liberal e new left, è tradizione storica consolidata. E questo prevede anche sanzioni disciplinari ed espulsioni, lotte fratricide ed estenuanti negoziazioni, frazionismo esasperato e imprevedibili mediazioni: ma – anche quando porta a momentanee separazioni - prepara nuovi compromessi e inedite alleanze. Una vita di partito indubbiamente irrequieta, con sussulti nevrotici che in certi periodi assumono dimensione patologica, ma che pure garantiscono una qualche stabilità e continuità nel tempo. Sarà capace il centrosinistra italiano di  far suo il “modello inglese”? Che non è quello di una scombiccherata e smandrappata anarchia all’insegna del “liberi tutti”: è, piuttosto, quello di una leadership forte, riconosciuta e legittimata, che può consentire la più ampia pluralità di opinione e organizzazione, perché  dispone del potere di decisione politica. Insomma, la discussione sarà tanto più libera quanto più, una volta formatosi un orientamento di maggioranza, il leader si assumerà la responsabilità di tradurlo in scelte concrete e decisioni vincolanti per tutti. Questa è, va da sé, la prospettiva più favorevole per il centrosinistra e per l’intero sistema politico italiano. In assenza di ciò, molto probabilmente, il centrosinistra eviterà la dissoluzione che minaccia oggi il PdL, ma correrà certamente il rischio della gracilità e della impotenza.
il Messaggero 27 novembre 2012
La ricchezza e i rischi del partito plurale
Luigi Manconi
Proviamo a sollevare, intanto, uno tra i veli più vaporosi e suggestivi, che aleggiano, in queste ore, intorno al successo ottenuto dalle primarie del centrosinistra. Ovvero: i vincitori sono due. A proposito del gioco del calcio Gianni Brera sosteneva che “il risultato perfetto” sarebbe lo zero a zero. L’unico capace di “celebrare due trionfatori assoluti”.

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