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Colpito quando era inerme. A Milano polizia sotto accusa
Luigi Manconi
l'Unità 20 aprile 2012
Non è, certo, una buona notizia la conferma, da parte di una Procura, del fatto che un cittadino incolpevole e inerme sia stato “percosso ripetutamente anche con l’uso di corpi contundenti quando era già immobilizzato a terra e non era in grado di reagire ed invocava aiuto”.

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In libreria dal 19 aprile
 
Politicamente correttissimo
I catenacciari
Il caso Iotti e tutte le altre prove della perenne subalternità psicologica della destra italiana
Luigi Manconi
Avete presente quegli equilibrati osservatori, titolari di buone maniere e di abiti ben tagliati, quando sospirano: “ Ah ci fosse in Italia un bipolarismo all’anglosassone”? E in genere così proseguono: da una parte una sinistra riformista, dall’altra una destra moderata … Non so se sarebbe, poi, così bello,  ma in ogni caso siamo assai lontani da un simile scenario. Molte le ragioni. Una, in particolare, è quella che più mi colpisce e addirittura affascina.

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Romanzo mancato
I puerili doppifondi del Grande Complotto e la grande occasione persa dal film su Piazza Fontana
Luigi Manconi
Mi sono accostato al film “Romanzo di una strage” con notevole pregiudizio positivo. Del regista Marco Tullio Giordana ho apprezzato alcuni lavori e i suoi co-sceneggiatori, Stefano Rulli e Sandro Petraglia, sono persone di grande intelligenza e cultura, i migliori di quella generazione. E tuttavia il film mi ha profondamente deluso.

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Brutte maschere
Diliberto è un vanitoso impastato di soviettismo, ma non c’entra niente con terroristi e violenti
Luigi Manconi
Non condivido alcunché della cultura politica di Oliviero Diliberto e del suo partito, il PdCi. Un impasto di soviettismo autoritario, moderatismo burocratico, concezione disciplinare dei movimenti collettivi e della soggettività politica. il tutto sorretto da uno stile autocompiaciuto, che scivola agevolmente nella mondanità del linguaggio. Manifestazione di quest’ultimo atteggiamento sono alcune espressioni retoriche quali: “se ci si può ancora dire comunisti in questo paese” oppure: “se c’è ancora qualcuno di sinistra in Italia”, e altre ancora, proprie di un alternativismo autorassicurante. Sullo sfondo persino le tracce di alcune remote civetterie togliattiane: quasi si fosse all’epoca in cui la militanza culturale e politica di Concetto Marchesi suscitava fierezza nel PCI e stupefatto orrore nei suoi avversari.  Ne risulta una versione del comunismo come cultura d’ordine, non aliena da qualche tentazione reazionaria, di tipo anti-garantista e illiberale. Tutto ciò per dire quanto mi sia simpatico e affine il partito che ha per segretario Oliviero Diliberto. Ma, precisato questo, trovo che quella condotta nei suoi confronti sia stata qualcosa di molto simile a una campagna diffamatoria, che rivela l’ignominia –non esagero- dei suoi autori. Va da se, infatti, che  Diliberto non ha, non dico alcuna tendenza, ma nemmeno la più piccola indulgenza verso il terrorismo politico; non coltiva alcuna simpatia verso i movimenti sociali che presentino tratti illegali;  ne alcun compiacimento verso il ribellismo, il sovversivismo, lo spontaneismo sociale. Dunque non è pensabile alcun ammiccamento, e tanto meno complicità, verso l’insorgenza movimentista: figuriamoci quando minaccia sfracelli o il ricorso alla forza fisica nei confronti degli avversari o, infine, ne auspica la fine violenta. Pertanto, l’episodio della foto accanto alla donna che indossa la t-shirt con la scritta: “ la Fornero al cimitero”, è né più ne meno che un infortunio. Neppure così tanto rovinoso, se non fosse stato gestito nel più goffo e pasticciato dei modi. Una successione di versioni contraddittorie, ma –soprattutto- un atteggiamento elusivo, che si nega e nega l’unica semplice, semplicissima scelta: quella di chiedere scusa per una offesa non voluta. E, invece, ho sentito con le mie orecchie Diliberto, nel corso della trasmissione radiofonica La Zanzara, dire di aver trovato la Fornero “nervosa” e di essersi stupito che il ministro, prima di reagire con parole aspre, non gli avesse fatto “una telefonata”. Dietro un tale puerile atteggiamento, emergono quei difetti propri della politica politicante, più volte qui sottolineati. Innanzitutto, l’incapacità di chiedere scusa, di riconoscere un errore, di ammettere una defaiance. Dietro c’è la difficoltà a comprendere come l’ammissione di una debolezza possa essere –è ovvio, ma evidentemente non per tutti- un’affermazione di forza; e il domandare scusa, oltre che una manifestazione di lealtà, un segno di equilibrio e di sicurezza di se. Non solo: quella inflessibilità, contrabbandata per rigore, e quella durezza, presentata come serietà, costituiscono palesemente una maschera pubblica, quasi l’iconizzazione di virtù plumbee, che alla prova dei fatti risultano, ancor prima che grottesche, desolatamente vuote. Infine, in quel terribilismo tutto mimato e verbale si avverte l’idea che riconoscere un errore, e anche solo ammettere una gaffe un infortunio uno scarto,  possa rappresentare un cedimento di fronte al “nemico”. Ancora una volta, siamo in presenza di un episodio  –in questo caso incruento, fortunatamente- dell’infinita “guerra civile simulata”, che ben conosciamo: dove attori appassiti interpretano in maniera poco convincente sceneggiature zoppicanti. Un malinconico gioco di ruolo per giocatori che stentano a trovare un ruolo.
Il Foglio 27 marzo 2012
Brutte maschere
Diliberto è un vanitoso impastato di soviettismo, ma non c’entra niente con terroristi e violenti
Luigi Manconi
Non condivido alcunché della cultura politica di Oliviero Diliberto e del suo partito, il PdCi. Un impasto di soviettismo autoritario, moderatismo burocratico, concezione disciplinare dei movimenti collettivi e della soggettività politica. il tutto sorretto da uno stile autocompiaciuto, che scivola agevolmente nella mondanità del linguaggio.

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Giovedì 29 marzo alle ore 16,15 Ennio Rega con la sua formazione di musicisti tra i migliori in Italia, sarà in concerto al carcere  romano di Rebibbia.
Il cantautore, da  sempre sensibile a tematiche sociali ed in particolare a quella delle condizioni carcerarie, canterà e suonerà per i detenuti, sostenendo così l’ impegno nella lotta per i diritti civili.
Storie di vita, d’ immigrazione, prostituzione ed  emarginazione sono al centro  della sua opera, Rega proporrà  per l’evento una scaletta esclusiva che raccoglie il meglio della sua produzione, da "Arrivederci Italia" recentemente pubblicato,  a "Concerie" e allo  "Lo scatto tattile".

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Politicamente correttissimo
Marxisti al Foglio
Interessante lettura a liberismo rovesciato del caso articolo 18. Ma si cade nel veterosindacalismo.
Luigi Manconi
Finalmente. Finalmente, con l’editoriale di ieri, Il Foglio affronta –come mai finora nel panorama giornalistico italiano- la questione dell’articolo 18 quale grande problema di classe. Nel senso marxiano del termine, va da sé. Come premessa, Giuliano Ferrara scrive che “i liberisti sono marxisti rovesciati”. Forse, proprio il fatto che sono stato “poco marxista” all’epoca può spiegare perché oggi mi trovo a essere così poco liberista: ma, a esser sinceri, non è che  Ferrara  e la sua enclave politico-culturale, quarant’anni fa, fossero marxisti in termini così ortodossi, come qualcuno oggi vorrebbe. Figuriamoci. Ciò contribuisce a spiegare perché il Ferrara  liberista finisca con l’argomentare in una maniera vetero-comunista e vetero-sindacalista –ancorché “rovesciata”- la propria contestazione verso l’articolo 18, la sua concettualizzazione generale e il suo significato simbolico ultimo. Così Ferrara: “un forte potere d’acquisto dei lavoratori e un mercato generoso di occasione sono le condizioni di base per l’esercizio di un responsabile ed efficace potere sindacale, basta guardare all’America”. Ma un simile ragionamento si fonda su un’idea fabbrichista  ed economicistica del lavoro salariato, che non regge più. E proprio perché sono il sistema della produzione e l’organizzazione del lavoro ad aver subito incalcolabili trasformazioni. In altre parole il sindacalismo al quale sembra  guardare Il Foglio (e al quale Il Foglio vorrebbe che guardasse la Cgil) è quello delle cellule del Pci e delle commissioni interne, egemonizzate dalla Cgil, del secondo dopoguerra. Ma, da allora, pressoché tutto è cambiato e, in particolare, si è assistito al tramonto della grande fabbrica, alla riorganizzazione dell’impresa e alla dispersione degli operai. I fenomeni di ristrutturazione industriale si sono intrecciati con le tendenze al decentramento, e poi alla delocalizzazione, di molte lavorazioni e di interi settori produttivi. È la composizione stessa del lavoro salariato che viene ridefinita. Ciò si realizza, essenzialmente, in una direzione: quella della frammentazione, fino alla polverizzazione, della “comunità operaia”. È questa la prima ragione, non l’unica ma quella fondamentale, del fallimento della politica salariale, di cui il pansindacalismo  è una delle  conseguenza non la causa. Un  fallimento che, in ultima istanza, ha portato alla mutazione descritta dal Foglio: la trasformazione dei  lavoratori “da sfruttati, cioè soggetti di un rapporto sociale che si chiama capitalismo, a oppressi ovvero sudditi di una società che nega diritti”. Il richiamo alle garanzie previste dal sistema dei diritti di cittadinanza, extra-aziendali e universalistici, diventa obbligato per proteggere un salariato (mal salariato), sempre più isolato e sempre meno tutelato, sul luogo di lavoro, dall’unità della linea, del reparto, della fabbrica. E dunque sempre meno dotato di potere contrattuale e di capacità conflittuale nel negoziare –marxianamente, ancora una volta- il prezzo della forza-lavoro e, di conseguenza, il potere d’acquisto del salario. Il lavoratore, in quella condizione di dissoluzione dell’unità produttiva, non può ne difendere adeguatamente il proprio salario ne assicurarsi le garanzie giuridiche e contrattuali che possano contribuire a quella difesa. Esemplare è il ruolo che, via via, è andata assumendo la Fiom, e il suo segretario generale, Maurizio Landini. Il sindacato e il sindacalista più “americani” e più “salarialisti” (al di là delle apparenze), si sono trovati costretti a svolgere  una funzione politica e iper-politica. Come potevano fare altrimenti, considerato che la radice profonda della loro identità economico-salariale e aziendale-contrattuale è stata rimossa brutalmente, attraverso l’esclusione della Fiom dalla stessa vita di fabbrica? Infine, quando Ferrara definisce l’articolo 18 “una posta in gioco poco più che simbolica” dice bene e male insieme. Forse è vero che la difesa di quell’articolo ha oggi una funzione quasi solo “ideologica”, ma guai a dimenticare che intorno a essa si gioca una partita che rimanda al destino sociale del lavoro salariato nel nostro paese. Marxianamente, off course.
il Foglio 20.3.2012
Politicamente correttissimo
Marxisti al Foglio
Interessante lettura a liberismo rovesciato del caso articolo 18. Ma si cade nel veterosindacalismo.
Luigi Manconi
Finalmente. Finalmente, con l’editoriale di ieri, Il Foglio affronta –come mai finora nel panorama giornalistico italiano- la questione dell’articolo 18 quale grande problema di classe. Nel senso marxiano del termine, va da sé. Come premessa, Giuliano Ferrara scrive che “i liberisti sono marxisti rovesciati”.

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Politicamente correttissimo
Il giusto Scalfaro
Giuseppe Uva, nessuno dice più che un cittadino non deve entrare vivo e uscire morto dalla caserma
Luigi Manconi
Oscar Luigi Scalfaro, da queste parti (intendo le pagine del Foglio), non ha mai suscitato grandi entusiasmi. Anzi. Io devo confessare, invece che –pur non apprezzando quasi nulla della sua impostazione politica e culturale- avevo notevole simpatia per lui. Soprattutto da quando mi era capitato di svolgere un ruolo, come dire, di intermediario, tra lui e Fabio Fazio in occasione della partecipazione dell’ex capo dello Stato a una puntata di Che tempo che fa. Ricordo ancora la fanciullesca curiosità e il sommesso divertimento con cui Scalfaro si preparava  a  quell’appuntamento per lui così singolare. Ma c’è, nella vita politica di Scalfaro, un episodio assai significativo, raramente ricordato e che mi torna in mente in questi giorni. Siamo nel luglio del 1985 e da pochi giorni è stato ucciso, in un agguato di mafia nei pressi di Palermo, il commissario di polizia Beppe Montana. Nel corso delle indagini,viene arrestato Salvatore Marino, sospettato di complicità in quell’omicidio. Nella sua abitazione, durante una perquisizione, vengono trovati diversi milioni di lire. Marino viene arrestato e portato in carcere. Da lì, presumibilmente nottetempo,viene prelevato e riportato in questura. Seguono ore e ore di interrogatorio, condotto con metodi e strumenti illegali. A seguito di questo trattamento Marino muore. L’esame medico riscontrerà  insufficienza cardio-circolatoria secondaria a danno polmonare acuto diffuso; sul cadavere trauma ai reni, congestione viscerale, contusioni ai piedi, alle mani, ai polsi. Sul braccio sinistro, i segni di un morso. Nonostante alcuni tentativi di depistaggio, le responsabilità delle forze dell’ordine risultano evidenti. La sera del 5 agosto 1985, arrivano le parole  dell’allora ministro dell’Interno, Scalfaro: «Un cittadino è entrato vivo in una stanza di polizia ed è uscito morto». Dopo di che tutto precipita e, il responsabile degli uomini accusati di aver provocato la morte di Marino, il commissario Ninni Cassarà, viene ucciso, insieme all’agente Nino Antiochia, da un commando mafioso.  È una vicenda tragica come poche altre. Ma le parole di Scalfaro –in quel quadro così teso e confuso-  restano, comunque, nitide e preziose.  E rare, rarissime, se è vero che, né prima né dopo, alcuno ne ha pronunciato di uguali. Eppure, anche oggi, servirebbero, eccome. Per esempio, a proposito della vicenda di Giuseppe Uva, 43 anni, entrato vivo nella caserma dei carabinieri di Varese la notte del 14 giugno del 2008; uscitone con una ambulanza della guardia medica, poi trasferito nel pronto soccorso dell’ospedale di Circolo e,infine, nel reparto psichiatrico di quella stessa struttura. Dove muore. A distanza di quasi quattro anni da quel tragico decesso, una perizia (fatta con incredibile ritardo) mostra  che sui pantaloni di Uva “oltre a sangue sono presenti cellule pavimentose con nucleo che possono essere derivate dalla regione anale o dalle basse vie urinarie”. Ma ulteriori considerazioni medico-scientifiche indirizzano verso la prima ipotesi, la “regione anale”. E in che modo può essere spiegata la presenza di sangue, proveniente da quella regione, sui pantaloni di Uva? Le ipotesi, di fronte all'evidenza dei risultati, non sono molte. Quella suggerita da alcuni, ovvero che il sangue possa derivare dal collasso di emorroidi, non risulta confermata, dal momento che finora tale patologia mai era stata rilevata. Resta l'interrogativo più inquietante: Giuseppe Uva ha subito violenza sessuale? Potrebbero esserci anche altre risposte, che pure al momento non si riesce nemmeno a immaginare. Fatto sta che, da quel 14 giugno del 2008, non un ministro dell’Interno o della Difesa (dal quale, com’è noto, dipende l’arma dei carabinieri), ha ancora pronunciato quella frase: è inammissibile che, in uno Stato di diritto, un cittadino entri  vivo in una stanza ( della polizia, dei carabinieri o di un altro corpo) e ne esca morto. Diavolo d’uno Scalfaro.
il Foglio 13.3.2012
Politicamente correttissimo
Il giusto Scalfaro
Giuseppe Uva, nessuno dice più che un cittadino non deve entrare vivo e uscire morto dalla caserma
Luigi Manconi
Oscar Luigi Scalfaro, da queste parti (intendo le pagine del Foglio), non ha mai suscitato grandi entusiasmi. Anzi. Io devo confessare, invece che –pur non apprezzando quasi nulla della sua impostazione politica e culturale- avevo notevole simpatia per lui. Soprattutto da quando mi era capitato di svolgere un ruolo, come dire, di intermediario, tra lui e Fabio Fazio in occasione della partecipazione dell’ex capo dello Stato a una puntata di Che tempo che fa.

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Il sesso dei disabili e l’abbraccio di una madre
Simone Fanti
Corriere.it 9.3.2012
Ho una confessione da fare… anche i disabili fanno sesso. Eh eh l’ho messa sul ridere, ma la sessualità e la disabilità sono un tabù per la società (Leggete il bel racconto autobiografico di Franco Bomprezzi). Questa volta non scriverò io (ne avevo già parlato qui), lascerò, com’è giusto che sia in un blog, la parola ad Ann, una mamma coraggio e alla sua lettera.

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Giuseppe Uva è stato violentato?
L’atroce sospetto dopo la perizia
Luigi Manconi
Giuseppe Uva subì violenza sessuale, quella notte del 14 giugno del 2008? La vicenda del quarantatreenne morto dopo essere stato trattenuto per oltre tre ore nella Caserma dei carabinieri di Varese, è arrivata a una svolta decisiva. Ripetutamente abbiamo denunciato l'incompletezza delle indagini svolte dalla Procura della Repubblica di Varese e ora, grazie al deposito della perizia ordinata dal giudice sugli indumenti indossati da Uva quella notte, sembra che si possa intravedere un barlume di verità. Una verità che apre scenari inquietanti. Gli elementi conosciuti permettono di riassumere la vicenda come segue. Verso le 2.30 del 14 giugno 2008 Uva e il suo amico Alberto Biggiogero vengono fermati dai carabinieri mentre spostano al centro di una strada delle transenne, bloccando la viabilità. Vengono portati in caserma e insieme ai carabinieri assistono all'operazione 6 poliziotti (l'intera forza di pattugliamento della città per la notte), i quali restano oltre tre ore all'interno dell'edificio. Biggiogero, testimone oculare di tutta la vicenda e autore di un dettagliato esposto-denuncia, racconta i metodi violenti utilizzati dai militari durante il fermo e le successive ora passate dentro la caserma. Oltre alle minacce e alle intimidazioni nei suoi confronti, Biggiogero, che è rimasto nella sala d’aspetto, sente provenire da un'altra stanza le “urla disperate” di Uva e il suono di colpi sordi. In un momento in cui rimane solo chiama il 118 per richiedere un'ambulanza, ma l'operatore con cui parla telefona in caserma per chiedere conferma e i carabinieri negano che ci sia bisogno di un intervento medico, liquidando la questione con un “si tratta di due ubriachi”. Solo verso le 5.30 viene chiamata la guardia medica e alle 6.00 un’ambulanza porta Uva in ospedale con una richiesta di Trattamento sanitario obbligatorio: un dispositivo di legge ideato per persone con malattia mentale che rifiutano le cure. Uva, nonostante mai avesse avuto problemi di salute mentale, viene trasferito nel reparto psichiatrico e trattato con psicofarmaci. La motivazione del Tso è la seguente: durante la permanenza in caserma Uva avrebbe messo in atto pratiche autolesive, lanciandosi contro il muro, sbattendo la testa contro il pavimento, contro i tavoli e contro gli stivali degli uomini che cercavano di tenerlo fermo. Durante il ricovero in psichiatria, alle 10.30 di quello stesso giorno, Uva muore. La descrizione, fatta da Lucia Uva, del corpo del fratello all'obitorio è la seguente: il naso deformato, un bozzo dietro la testa, un livido enorme sulla mano, la schiena e il fianco completamente blu. Ma c'è un dettaglio che più di tutti è rimasto impresso nella sua mente: suo fratello indossava un pannolone. Lucia Uva prende i pantaloni di Giuseppe e si accorge delle grandi macchie rosse nella zona del cavallo e delle tasche posteriori. La prima cosa che fa è togliere il pannolone dal corpo del fratello. E quello che vede è, se possibile, ancora più atroce: un rivolo di sangue esce dall'ano e spostandogli il pene nota i testicoli viola e tumefatti. Da quel momento, per Lucia Uva è impossibile pensare che sia stato Giuseppe ad autoinfliggersi quelle lesioni. Le indagini, decisamente carenti sulla parte relativa alla permanenza di Uva in caserma, si concentrano sui medici e sulla somministrazione degli psicofarmaci ritenuti incompatibili con lo stato etilico di Uva. Del fascicolo aperto contro ignoti a seguito della denuncia di Alberto Biggiogero non si sa ancora niente e Biggiogero, in questi quasi quattro anni, mai è stato ascoltato. Nell'ottobre del 2011 il giudice ha disposto degli accertamenti sui vestiti indossati da Uva quella sera e la riesumazione del corpo per effettuare una nuova autopsia. I primi risultati, discussi nell'udienza del 5 marzo dal perito incaricato dal giudice, non sembrano lasciare spazio a dubbi. Nella parte conclusiva della relazione troviamo scritto che sui pantaloni di Uva “oltre a sangue sono presenti cellule pavimentose con nucleo che possono essere derivate dalla regione anale o dalle basse vie urinarie”. Ma ulteriori considerazioni medico-scientifiche indirizzano verso la prima ipotesi, la “regione anale”. E in che modo può essere spiegata la presenza di sangue, proveniente da quella regione, sui pantaloni di Uva? Le ipotesi, di fronte all'evidenza dei risultati, non sono molte. Quella evidenziata da alcuni, ovvero che il sangue possa derivare dal collasso di emorroidi, non risulta confermata, dal momento che finora tale patologia non era stata rilevata.
Resta l'interrogativo più inquietante: Giuseppe Uva ha subito violenza sessuale? Se sì, questa sarebbe avvenuta o nel corso di quelle ore trascorse in caserma o in quelle successive, passate tra l'ambulanza, il pronto soccorso e il reparto psichiatrico dell'ospedale di Circolo di Varese. Non solo: secondo un’altra perizia, non sarebbero stati i farmaci somministratigli a provocare il decesso, bensì una condizione di stress indotta da “stato di intossicazione etilica acuta; misure di contenzione fisica; lesioni traumatiche auto e/o etero prodotte”, che ha provocato l'arresto cardiaco. I periti, circa i fattori che hanno provocato il forte stress non possono fare ipotesi per “l'assoluta mancanza di documentazione inerente il periodo compreso tra il fermo” e il “conseguente accesso presso il pronto soccorso”. Dunque, a quanto di terribile tutto ciò evoca, si aggiunga il fatto che a queste tragiche ipotesi si arrivi solo ora. Il che solleva dubbi non lievi sulla serietà delle indagini svolte dalla Procura per un tempo incredibilmente lungo.
L’Unità 9 marzo 2012
Giuseppe Uva è stato violentato?
L’atroce sospetto dopo la perizia
Luigi Manconi
Giuseppe Uva subì violenza sessuale, quella notte del 14 giugno del 2008? La vicenda del quarantatreenne morto dopo essere stato trattenuto per oltre tre ore nella Caserma dei carabinieri di Varese, è arrivata a una svolta decisiva. Ripetutamente abbiamo denunciato l'incompletezza delle indagini svolte dalla Procura della Repubblica di Varese e ora, grazie al deposito della perizia ordinata dal giudice sugli indumenti indossati da Uva quella notte, sembra che si possa intravedere un barlume di verità. Una verità che apre scenari inquietanti.

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Comunicato stampa 05 marzo 2012
Manconi: Uva è stato violentato?
Luigi Manconi presidente di A Buon Diritto: “Oggi, nel palazzo di Giustizia di Varese, nel corso del dibattimento sulla morte di Giuseppe Uva, deceduto nell’ospedale di quella città, il 14 giugno del 2008, dopo esser stato trattenuto per circa tre ore nella caserma dei carabinieri di via Saffi, è stato ascoltato il perito del tribunale. Secondo la sua deposizione, le evidenze scientifiche mostrano inequivocabilmente che il sangue presente sui pantaloni indossati da Uva è di origine anale. Questo fatto sconvolgente pone due interrogativi: cosa è davvero accaduto nella caserma dei carabinieri durante quelle lunghe ore quando, secondo un testimone oculare, si sentivano “le urla strazianti” di Uva? Come è stato possibile che per quasi quattro anni l’indagine della Procura non abbia portato ad alcun risultato e abbia ignorato testimonianze e prove che avrebbero potuto consentire l’accertamento della verità?
0685356796
 
Pasolini e la furbizia oratoria
Luigi Manconi
Persino l’Illustre Psicologa, intervistata dal giornale radio, imbarazzata per la richiesta di spiegare cosa diavolo mai stia succedendo in Val di Susa, se la cava richiamando la poesia di Pier Paolo Pasolini. Sui giornali di ieri, va detto, pochi, pochissimi, si sono astenuti dall’evocare i versi de Il Pci ai giovani. Per pigrizia intellettuale o per conformismo politico, fatto sta che, se un manifestante grossomodo “giovane” e un agente in assetto antisommossa si affrontano, ecco scattare un riflesso condizionato. Come un tic ossessivo, viene richiamata la poesia in cui Pasolini avrebbe preso le parti delle forze dell’ordine, in odio ai contestatori. E se si trattasse di uno stereotipo? Su Repubblica Adriano Sofri ipotizza che i molti che ne parlano «non l’hanno mai letta la famosa poesia»: e se la leggessero «si stupirebbero di quello che dice». Ma non basta. Su suggerimento di Davide Ferrario, bravo regista torinese, ho letto – oltre che «per intero» la poesia – quanto lo stesso Pasolini ha detto in proposito.
Sul Il Tempo del 17 maggio ’69 il poeta scrisse che «Nessuno (…) si è accorto» che i versi iniziali erano «solo una piccola furberia oratoria paradossale, per richiamare l’attenzione del lettore (…) su ciò che veniva dopo (…) dove i poliziotti erano visti come oggetti di un odio razziale a rovescio, in quanto il potere (…) ha la possibilità di fare di questi poveri degli strumenti: le caserme dei poliziotti vi erano dunque viste come ghetti particolari, in cui la qualità di vita è ingiusta, più gravemente ingiusta ancora che nelle università. Nessuno dei consumatori di quella poesia si è soffermato su questo e tutti si sono fermati al paradosso introduttivo». Dunque, secondo Pasolini, il senso di quella poesia sarebbe stato ribaltato da letture interessate. Il «paradosso introduttivo» («io simpatizzavo coi poliziotti») era in realtà – parole dell’autore – «una piccola furberia oratoria», destinata a «richiamare l’attenzione del lettore». Ma il tema vero e la sostanza poetica e politica consistevano nell’affermazione che «il potere ha la possibilità di fare di questi poveri degli strumenti». Si capisce che il senso profondo de Il Pci ai giovani era assai diverso da come è stato letto e interpretato. Se ne è ricavata una falsa rappresentazione, mai messa in discussione. Quella poesia è stata ridotta a bandiera di un conflitto insuperabile tra la piccola e media borghesia privilegiata e consumista, che si riconosceva nel movimento detto «del ’68», da una parte; e, dall’altra, il proletariato e il sottoproletariato identificati nell’immigrato meridionale, fattosi poliziotto per sopravvivere.
È accaduto, così, che l’interpretazione offerta dalla fonte più autorevole, ovvero l’autore, è stata ignorata per decenni, a favore di una lettura per così dire «paradossale». Resta un’ultima considerazione: quella interpretazione «antistudentesca» (e reazionaria, in senso letterale) conteneva un piccolo grumo di verità. In altri termini, il poeta Pasolini richiamava quella costante dimensione «fratricida» della lotta italiana per il potere, come già aveva fatto nel ’45 il poeta Umberto Saba: «gli italiani non sono parricidi: sono fratricidi. Romolo e Remo, Ferruccio e Maramaldo, Mussolini e i socialisti, Badoglio e Graziani. Gli italiani sono l’unico popolo (credo) che abbiano, alla base della loro storia (o della loro leggenda), un fratricidio. Ed è solo col parricidio (uccisione del vecchio) che si inizia una rivoluzione».
l'Unità 02 marzo 2012
Pasolini e la furbizia oratoria
Luigi Manconi
Persino l’Illustre Psicologa, intervistata dal giornale radio, imbarazzata per la richiesta di spiegare cosa diavolo mai stia succedendo in Val di Susa, se la cava richiamando la poesia di Pier Paolo Pasolini. Sui giornali di ieri, va detto, pochi, pochissimi, si sono astenuti dall’evocare i versi de Il Pci ai giovani.

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