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Memorandum sul "delitto della pena" carceraria a uso dei parlamentari distratti
Luigi Manconi
Che ogni delitto abbia la sua pena è scritto nel suo stesso esser delitto: non si dà delitto senza pena, senza la pena della vittima o della comunità che ne viene offesa, così come senza la pena del reo, condannato a una qualche forma di sofferenza legale proprio dal fatto che quella offesa sia qualificata come un delitto. Ma questa associazione tra delitto e pena può essere anche ribaltata, per scoprire che la pena stessa può risolversi in un delitto, in una combinazione di azione e reazione che può condurre in un vortice di violenza senza fine. E’ questa la preoccupazione che ha spinto Franco Corleone e Andrea Pugiotto a raccogliere in volume le relazioni, i commenti e le repliche a un ciclo di incontri tenutisi a Ferrara lo scorso anno e dedicati, appunto, a Il delitto della pena. Pena di morte ed ergastolo, vittime del reato e del carcere (Ediesse, 2012).
«Bisogna aver visto», rammentano i curatori, richiamando il testo di Piero Calamandrei che, nel 1949, apriva un numero speciale de Il Ponte dedicato alle carceri italiane all’indomani della Liberazione (e scaricabile integralmente dal sito della Rassegna penitenziaria e criminologica del Ministero della giustizia all’indirizzo: http://www.rassegnapenitenziaria.it/cop/89.pdf). In quel numero de Il Ponte si trovavano testimonianze e proposte di padri della Patria (da Leone Ginzburg a Giancarlo Pajetta, da Vittorio Foa ad Altiero Spinelli) che delle galere fasciste furono ospiti nel ventennio precedente. Bisogna aver visto e testimoniare quel che si è visto. Questo ha fatto a più riprese il Presidente Napolitano, che nel fondamentale discorso al convegno promosso dai radicali lo scorso anno e pubblicato in appendice a questo libro, pronunciò parole insuperabili sullo stato delle carceri italiane: «una questione di prepotente urgenza». E ancora: «una realtà che ci umilia in Europa e ci allarma, per la sofferenza quotidiana – fino all’impulso di togliersi la vita – di migliaia di esseri umani chiusi in carceri che definire sovraffollate è quasi un eufemismo».
Questa condizione di degrado «non è un’opinione, né un retroscena», scrivono Corleone e Pugiotto: «è un fatto» con cui bisogna fare i conti, anche per non esserne complici. E’ ancora del Capo dello Stato l’appello a rifletterci «seriamente, e presto, da ogni parte». Questo “da ogni parte” ha sollecitato la sensibilità di Andrea Pugiotto, promotore del ciclo di incontri ferraresi da cui nasce il libro e poi dell’appello  dei docenti universitari di Diritto e dei garanti dei detenuti al Presidente della Repubblica affinchè sollecitasse il Parlamento ad azioni conseguenti alla gravità della situazione.
Dal volume emerge un percorso di lettura intorno ai luoghi estremi del carcere, laddove il delitto e la pena cambiano la loro ordinaria consecutio logica: la condizione delle vittime, tra memoria e dolore; la pena di morte e la morte civile dell’ergastolo; i troppo frequenti decessi in stato di privazione della libertà, anche per responsabilità di chi avrebbe dovuto tutelarne l’integrità fisica.
Non mancano, nell’introduzione dei curatori, indicazioni su «le cose da fare, subito», come scriveva Ernesto Rossi nella raccolta de Il Ponte, prima citata e su quelle da fare dopo, per una riforma organica del sistema delle pene. Intanto, però, occorre dare testimonianza di ciò che si è visto e convincere chi voglia ascoltare che si tratta – effettivamente - di una questione di prepotente urgenza.  Oltre al Capo dello Stato, sembrano esserne convinti –provvidenzialmente – altri. Questo giornale, per esempio, e gran parte dei direttori delle carceri; e, poi, moltissimi avvocati e molti magistrati (o ex magistrati, come, se non sbaglio, Gherardo Colombo) e –per dirne una – la Conferenza episcopale italiana. Vi sembra che manchi qualcuno? Beh, sì, esattamente coloro che hanno il potere (e il dovere) di intervenire sul piano legislativo; e che, non a caso, la politologia chiama decisori politici. Con la sola eccezione dei radicali, di un gruppetto di democratici e di qualche temerario esponente del Pdl, il parlamento continua a mostrarsi straordinariamente sordo. E, agitando lo stendardo del benaltrismo  (“ben altri sono i provvedimenti da prendere”) respinge la strategia più semplice e saggia. Ovvero, quella di introdurre in un sistema, reso parossistico dal riprodursi all’infinito dell’emergenza, un po’ di normalità: attraverso due strumenti costituzionalmente previsti come l’amnistia e l’indulto. Per poi, deflazionata e resa fisiologica la situazione, intervenire con le riforme di struttura sempre auspicate e mai realizzate. Ma tutto ciò è troppo ragionevole per esser preso in considerazione.
il Foglio 25 ottobre 2012
Memorandum sul "delitto della pena" carceraria a uso dei parlamentari distratti
Luigi Manconi
Che ogni delitto abbia la sua pena è scritto nel suo stesso esser delitto: non si dà delitto senza pena, senza la pena della vittima o della comunità che ne viene offesa, così come senza la pena del reo, condannato a una qualche forma di sofferenza legale proprio dal fatto che quella offesa sia qualificata come un delitto. Ma questa associazione tra delitto e pena può essere anche ribaltata, per scoprire che la pena stessa può risolversi in un delitto, in una combinazione di azione e reazione che può condurre in un vortice di violenza senza fine. E’ questa la preoccupazione che ha spinto Franco Corleone e Andrea Pugiotto a raccogliere in volume le relazioni, i commenti e le repliche a un ciclo di incontri tenutisi a Ferrara lo scorso anno e dedicati, appunto, a Il delitto della pena. Pena di morte ed ergastolo, vittime del reato e del carcere (Ediesse, 2012).

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Quei giovani ribelli della nuova destra con i simboli del vecchio estremismo
Luigi Manconi
Già il sentir parlare di “ ritorno” può suscitare qualche inquietudine. Come insegna la saggezza popolare, ma anche un proverbio nicaraguense, la seconda volta di una cosa è quasi sempre la peggiore. Tuttavia, a proposito della attuale ripresa dell’ attività neo-fascista a Roma, è giusto l’allarme e, soprattutto, la massima attenzione, ma è altrettanto giusto mantenere i nervi saldi. Il fenomeno è indubbiamente serio e molto seriamente va considerato. Lo si scopre solo ora, ma esso ha radici che rimandano a due decenni fa e, in qualche caso, a un tempo ancora precedente. Parliamo di movimenti che tentano di coniugare, certo in maniera maldestra e talvolta fin sgangherata, tradizione e innovazione. E che, tutti, esprimono una radicale avversione nei confronti della modernità. E di ciò che essa si porta appresso. Il nemico principale – la fonte del Male – e l’origine della crisi economico-finanziaria e, ancor prima, di quella morale è il mondialismo. Quest’ultimo rappresenta la versione tecnocratica e “multiculturale”, economicistica e omologante di quella che viene definita dagli economisti (e da una parte della cultura politica) globalizzazione. La globalizzazione vista dall’estrema destra è innanzitutto distruzione delle identità nazionali (delle patrie), ma anche della civiltà cristiano-occidentale: e, a quell’opera, contribuiscono allo stesso tempo le ambizioni delle istituzioni europee e i processi di “americanizzazione” degli stili di vita e dei consumi collettivi, delle culture di massa e dei valori dominanti. Come si vede, nulla di nuovo: si tratta di tematiche che ebbero la prima sistematizzazione e ottennero i primi consensi già nel periodo tra le due guerre mondiali, ma le enormi trasformazioni successive hanno ridato loro un notevole impulso. Siamo al ritorno, appunto. Agevolato, tutto ciò, dal peso determinante di fattori come l’informatica, che ha dato alla minaccia altrimenti impalpabile e sfuggente della tecnocrazia, una concreta e formidabile immanenza; o come i grandi flussi migratori che hanno contribuito a disgregare le culture tradizionali e a erodere i ceppi etnici originari.  Ma cosa c’entra questo torvo scenario geopolitico, di portata planetaria, con i fumogeni gialli lanciati davanti al liceo scientifico Manfredi Azzarita di via Umberto Boccioni 14, a Roma? C’entra, per più di una ragione. Innanzitutto perché nell’immaginario politico-culturale di un certo estremismo, l’attuale governo italiano incarna puntualmente, in maniera addirittura plastica, l’articolazione nazionale della tecnocrazia allo stato puro. Governanti non eletti dal popolo e privi, nella gran parte dei casi, di qualunque precedente esperienza politica; competenze di natura prevalentemente tecnica, rivendicate con fierezza e valorizzate come prima e principale risorsa di governo; estrazione professionale in ambienti economici internazionali e all’interno dei più potenti circoli del credito e della finanza. Questa fisionomia, diciamo così, sociologica dell’attuale ceto di governo risulta esaltata dalla congiuntura economica, che enfatizza lo scarto tra quell’esecutivo e le condizioni sociali ed economiche del paese. Non a caso, la contestazione nei confronti del “governo dei tecnocrati” in quanto tale trova notevoli consensi anche in alcune aree della sinistra minoritaria (e non considero, ovviamente, quella di ispirazione terroristica che pure ha negli organismi sovranazionali il nemico giurato). In ambito giovanile e studentesco, la sinistra minoritaria – non troppo diversamente da quella che fa riferimento a Pd e Sel – sembra aver adottato, in tutta Italia, un profilo sostanzialmente pacifico, concentrato su un programma di riformismo radicale: obiettivo principale, la controriforma Gelmini. A destra, lo stesso bersaglio viene collocato dentro lo scenario di cui si è detto, dove precipitano i riferimenti ideologici e gli apparati culturali delle organizzazioni neo-fasciste “adulte” alle quali sono collegati i ragazzi con i fumogeni. In particolare, Terza posizione e Forza Nuova. Quest’ultima è all’origine di Lotta studentesca e ne ispira la fisionomia: una concezione rigidamente tradizionalista, tutta affidata a, si fa per dire, valori ultra-conservatori, che mettono insieme un’idea gerarchica dell’organizzazione sociale e la difesa della cultura cattolico-occidentale.  A sua volta, Terza posizione (il cui nome intendeva evocare una collocazione radicalmente nuova) è tra le organizzazioni che concorrono alla nascita di Casa Pound, e, attraverso questa, a Blocco Studentesco. Un movimento che nel corso di appena 6 anni riesce a ottenere notevoli successi tra gli studenti medi e universitari, conquistando un significativo numero di eletti all’interno degli organismi rappresentativi. Casa Pound è oggi un’organizzazione presente in decine di città italiane, che aspira a collocarsi in uno spazio pubblico “oltre la destra e la sinistra”, ma che rivela una solida matrice fascistoide. In altre parole, quel movimento non è stato in grado di elaborare una cultura politica minimamente originale se non, appunto, nel riproporre antichi concetti del pensiero autoritario della prima metà del 900 e suggestioni anticapitaliste e anti-imperialiste riverniciate da un linguaggio trendy. Un restyling che non è stato sufficiente a impedire numerosi episodi di intolleranza e anche di aggressione fisica della quali il minimo che si possa dire è che Casa Pound non ne ha preso le distanze in modo convincente. Ma la vicenda di questo movimento è assai significativa per un’altra ragione. La sua contraddittoria identità non ha convinto la figlia del grande poeta a cui il movimento si intitola, ma indubbiamente ha confuso un certo numero di intellettuali italiani. Quasi che l’alternativa fosse tra il dare l’assalto armato alla loro sede o legittimarli politicamente, si è assistito a una troppo rapida e superficiale concessione di credito, dentro a una più ampia tendenza alla banalizzazione della storia. Il che è molto interessante perché rifiutare quella falsa alternativa dovrebbe portare a una conseguenza che è propria dei sistemi democratici: la rigorosa distinzione delle diverse opzioni politiche e il loro pacifico confronto, che non prevede né la reciproca aggressione né la corriva omologazione. Dietro tutto ciò, c’è persino qualcosa di peggio. E ancora una falsa alternativa: quella tra un antifascismo celebrativo e retorico e l’enfasi su una presunta memoria condivisa (tra chi fu fascista e chi fu antifascista e tra chi si ispira ai primi e tra chi si ispira ai secondi). Mentre, va da sé, l’antifascismo, coniugato a una forte opzione anti-totalitaria, conserva oggi la sua validità.  E la ricerca di un insieme di valori comuni tra tutti coloro che credono nel sistema democratico non attenua l’entità della frattura che lacerò l’Italia della prima metà del secolo scorso; e non attenua, di conseguenza, la memoria di essa. Tanto più che viviamo in un paese dove a un bel tomo può saltare in mente, una mattina, di intitolare un aeroporto a Benito Mussolini. Come se in Germania avessero dedicato ad Adolf Hitler la nuova stazione ferroviaria di Berlino.
il Messaggero 24.10.2012
Quei giovani ribelli della nuova destra con i simboli del vecchio estremismo
Luigi Manconi
Già il sentir parlare di “ ritorno” può suscitare qualche inquietudine. Come insegna la saggezza popolare, ma anche un proverbio nicaraguense, la seconda volta di una cosa è quasi sempre la peggiore. Tuttavia, a proposito della attuale ripresa dell’ attività neo-fascista a Roma, è giusto l’allarme e, soprattutto, la massima attenzione, ma è altrettanto giusto mantenere i nervi saldi. Il fenomeno è indubbiamente serio e molto seriamente va considerato.

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Ecco il video trasmesso a Che tempo che fa luinedì 22 ottobre

http://www.rai.tv/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-72d4fb0d-dfe3-43e0-af68-2a6add60d918.html

 
I conti del 41 flop
La posta in gioco della "trattativa". Ora l'Unità rivela che il grisbì dello Stato-mafia non esisteva
Luigi Manconi
Ieri, sull’Unità di Claudio Sardo (sempre più interessante e sempre più “sul pezzo”), è stato pubblicato un articolo a firma di Claudia Fusani, tanto lineare quanto sorprendente e, per certi versi, dirompente. Il tema è, ancora una volta, quello della presunta trattativa Stato-mafia: questione delicatissima e ricca di conseguenze, ma ancor più di nodi ingarbugliati e dilemmi laceranti. Il problema – come già nella vicenda, diversissima ma affine per alcuni aspetti, del rapimento di Aldo Moro – è quello dei limiti (giuridici, politici e morali) della possibilità di negoziazione e mediazione dello Stato nel rapporto/conflitto con i propri nemici. Ma, quando non vi siano prove certe di tradimento e intelligenza col nemico, la questione è tutta politica. Ovvero quale prezzo lo Stato può pagare per mettere i propri nemici nella condizione di non nuocere o per limitarne la potenza criminale o per ottenere la tutela di alcuni beni preziosi (la vita di un ostaggio, la protezione di una comunità, la riduzione della capacità di violenza …)? Come si vede, dilemmi terribili e che vanno al cuore dei processi di legittimazione dell’autorità statuale: sia per quanto riguarda il monopolio del potere e dell’uso della forza, sia per quanto riguarda la tutela dell’incolumità dei propri cittadini. Sia chiaro: non sono in grado di affermare se la trattativa vi sia o non vi sia stata; e se, qualora effettivamente intrapresa, vi siano stati atti di collusione con la criminalità organizzata, tali da configurare precise fattispecie penali. Ma so che, a distanza di due decenni, e per ciò che finora abbiamo appreso, e per le differenti conclusioni tratte dalle diverse procure, l’intera questione andrebbe valutata con criteri esclusivamente politici. Ora, in questo quadro storico-investigativo interviene una importante novità. Claudia Fusani, sull’Unità, spiega tutto molto bene, partendo dall’analisi critica di ciò che –nelle ricostruzioni della procura di Palermo, nelle anticipazioni finora emerse,  e, ancor più, nella mitologia che ne è derivata – costituirebbe la posta in gioco di quella stessa trattativa. Ovvero, la mancata proroga della misura del 41 bis per 520 detenuti appartenenti alla criminalità organizzata di stampo mafioso. La sospensione del 41 bis per centinaia di reclusi altamente pericolosi sarebbe stata la contropartita richiesta – all’interno di quel negoziato – dall’ organizzazione mafiosa; e a quella sospensione, l’allora Ministro della Giustizia Giovanni Conso sarebbe arrivato sia perché direttamente coinvolto nell’ operazione sia perché sottoposto a pressioni da diversi soggetti (e, tra essi, l’allora Capo dello Stato Oscar Luigi Scalfaro). Ora emergono alcuni elementi, evidenziati dall’attività della Commissione parlamentare antimafia, che meritano la massima attenzione. Il 12 marzo scorso, il sostituto procuratore di Firenze Nicolosi, nel corso della sua audizione, ha dichiarato che la revoca del 41 bis sarebbe stata “indifferente rispetto ai desiderata di Cosa Nostra: non c’era praticamente nessuno a cui potesse interessare”. È un’affermazione, come detto, dirompente rispetto ad un diffuso senso comune che si è depositato in questi ultimi anni; certo, altre procure (quella di Palermo e, in qualche misura, quella di Caltanisetta) contestano quella valutazione: ma già questa radicale divergenza di opinioni tra gli inquirenti segnala la difficoltà di giungere a conclusioni nette quali quelle che sembrano oggi prevalere. A ciò si aggiunga un altro dato, ancora più significativo. A beneficiare della mancata conferma del 41 bis sarebbero stati 520 detenuti e, su questo dato impressionante è stata costruita molta della capacità di suggestione nei confronti dell’opinione pubblica che il tema della trattativa richiama. Ma proprio qui casca l’asino. L’elenco dei 520 è stato sottoposto a una meticolosa disamina da parte dei consulenti della Commissione antimafia e, ancor prima, da parte del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, che nel gennaio del 2011 inviò una relazione in merito alla Procura di Palermo. È emerso, così, che di quei 520 beneficiari, appena uno su 12 (44) avrebbe avuto rinnovata, in una fase successiva e a una ulteriore e rigorosa verifica, la misura del 41 bis. E di quei 44 meno di una decina rivelerebbero “un elevato profilo criminale”. Tale valutazione risulta confermata da quella precedente indagine, a opera del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, che viene resa nota oggi dall’Unità. In altre parole, sia il Dap che i consulenti della Commissione antimafia concordano nel ritenere che il 41 bis, allora adottato per la prima volta, venne applicato con eccessiva larghezza e in maniera assai estensiva. E sembra che, tra coloro ai quali il 41 bis fu sospeso per decisione del Ministro Conso (334), appena 23 fossero siciliani. Il che, certamente, non annulla, ma senza dubbio attenua, la rilevanza dell’interesse della mafia per la loro declassificazione e per il loro ritorno a un regime carcerario ordinario. E va ricordato che, per 8 di essi, fu lo stesso Conso successivamente a ripristinare il “carcere duro”. In conclusione, sembra di potersi dire che, ancora una volta, la matematica valga più della retorica.
il Foglio 16 ottobre 2012
La posta in gioco della "trattativa". Ora l'Unità rivela che il grisbì dello Stato-mafia non esisteva
Luigi Manconi
Ieri, sull’Unità di Claudio Sardo (sempre più interessante e sempre più “sul pezzo”), è stato pubblicato un articolo a firma di Claudia Fusani, tanto lineare quanto sorprendente e, per certi versi, dirompente. Il tema è, ancora una volta, quello della presunta trattativa Stato-mafia: questione delicatissima e ricca di conseguenze, ma ancor più di nodi ingarbugliati e dilemmi laceranti.

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La traversata di Grillo è come un bagno di Giovanardi a Milano Marittima
Luigi Manconi
Non fateglielo sapere, a Beppe Grillo, ché sennò quello se ne adonta (e quando quello se ne adonta sono guai). Non fategli sapere che, con la sua epica impresa (la traversata a nuoto dello Stretto di Messina), è diventato uguale sputato al modello cui, palesemente, tende. Il modello rappresentato, cioè, dagli uomini politici della prima Repubblica. L’anno fatale fu il 1978, quando l’allora ministro della Pubblica Istruzione, il democristiano Mario Pedini, sotto lo sguardo compiaciutissimo di Maurizio Costanzo, si esibì al pianoforte nel corso di una puntata di Bontà Loro, eseguendo non so più se Il piccolo montanaro o uno Chopin minore. L’evento fu registrato nella categoria “eccentricità e bizzarrie” e tutto sembrò finire lì, ma il suo senso profondo era, in realtà, epifanico. Basti pensare che, a distanza di qualche anno, Pippo Baudo fece il passo ulteriore, provocando la slavina che avrebbe prodotto, infine, una irresistibile valanga. Nel corso di Domenica In, Baudo, mentre intervistava Oscar Mammì, parlamentare del Partito Repubblicano Italiano, gli chiese quali fossero i suoi gusti e i suoi hobby: e quando Mammì raccontò di amare molto il windsurf, con un gesto imperioso della mano il conduttore fece introdurre un windsurf, come dire, in carne e ossa. Dobbiamo presupporre, ovviamente, che tutto in televisione sia artificio e che, dunque, quella gag fosse stata non solo preparata ma anche attentamente provata; eppure a distanza di decenni, ho ancora nella mente lo sguardo attonito di Mammì. Baudo gli si rivolse: ci faccia vedere come impugna il boma. E lo sventurato rispose. È probabile che anche quell’episodio venne sottovalutato, ma ormai l’irreparabile era accaduto. Era iniziata, cioè, l’era della Umanizzazione della Politica, e ancora ne patiamo le conseguenze e ne paghiamo lo scotto. Cosa c’è dietro? C’è, e c’era già allora, la percezione di un fenomeno che non è nato, certo, uno o due decenni fa, ma che risale addirittura alla fine degli anni ’70. Stiamo parlando del famoso distacco tra Cittadini e Ceto Politico; e del fatto che, fin da allora, un certo numero di appartenenti a quello stesso ceto ritenne di poter correre ai ripari attraverso una strategia che opponeva, al Distacco, l’Avvicinamento. Ciò implicava un effetto perverso: se la distanza era l’esito del prevalere della dimensione politica (burocratica, lontana, separata), il rimedio doveva essere la scoperta e la valorizzazione dell’altra dimensione: quella Umana. Ecco, sta qui, la causa della tragedia. Il ceto politico sembra ignorare che la sua propria e peculiare funzione, quella più strettamente politica, è, alla resa dei conti, la sua espressione migliore. Per quanto possa risultare mediocre e opaca e scarsamente produttiva, quell’attività è comunque quanto di meglio le donne e gli uomini che hanno fatto dell’azione pubblica una professione, sono in grado di esprimere. Il resto è – com’è naturale e giusto – banalissima umanità, tanto degna e significativa e meritevole di attenzione, se ricondotta esclusivamente alla sfera privata. Ma tanto squallida se trasformata in messaggio pubblico. Per il cittadino, in altre parole, l’ambito familiare, il ruolo di genitore o di figlio, la vita di relazione, i gusti e le preferenze del ceto politico sono tutti presupposti come incontrovertibilmente normali: diventano interessanti solo se e solo quando contraddicono uno stereotipo o rivelano una sorpresa. Solo quando, cioè, il politico si rivela, a qualunque titolo, “un mostro”. In tutti gli altri casi, siamo alla fenomenologia dell’ordinario (o del Senza Pretese). Ed ecco che, in questi ultimi 35 anni, abbiamo dovuto assistere – attoniti – all’esibizione di uomini attempati in braghette bianche, inseguire un pallone, mai frequentato negli anni dell’adolescenza; indossare costumi da bagno ascellari e manovrare enormi racchettoni; costringere figli innocenti a percorrere, mano nella mano, passeggiate interminabili; cantare al karaoke “stasera mi butto/mi butto con te”; pedalare faticosamente su lucenti biciclette per raggiungere il ristorante a 50 metri da casa; indossare bomber Pop 84 e scarpe Camper, jeans délavé e chiodo, camicie fucsia e il nastrino rosso con scritto: Recuerdo de Bahia. Insomma, il normalissimo squallore che appartiene a tutti noi. Ma l’abbigliamento è stata solo una delle modalità espressive di questo avvilente processo di “umanizzazione”. Si sono visti parlamentari, fino a ieri convinti che Edson Arantes do Nascimento fosse il re della bossa nova o l’aiutante di Vanna Marchi, proclamare solennemente che “il modulo 3-5-2 in realtà non esiste”. E poi manifestare la passione più sfrenata per gli haiku giapponesi e i limerick anglosassoni. Insomma, in questi decenni, è stato tutto un precipitare, sulla testa degli incolpevoli cittadini, di una pioggia battente dei più differenti e comunque insignificanti e spesso imbarazzanti lati umani del ceto politico: dalla partecipazione alla maratona di Berlino alla produzione del barolo di mezza collina. Un capitolo particolare, e abnorme, è stato quello dell’ esposizione-ostensione del corpo. Quello stesso corpo che, fino a tutti gli anni ’70, era stato occultato o, in ogni caso, messo al riparo, è diventato, allo stesso tempo, ostia consacrata e tabernacolo della politica. Materia e simbolo della sfera pubblica che si incarna nella vita quotidiana. È stato un percorso lungo che ha avuto il suo massimo profeta e il suo fulgido testimonial in Silvio Berlusconi: nella sua fantastica potenza orgasmica (vera o presunta) così come nella sua drammatica convivenza con il cancro, nella sua strenua, davvero all’ultimo sangue, battaglia contro la caduta dei capelli e delle guance e nella sua aspirazione – seria, serissima - all’immortalità. Il corpo del sovrano, ma anche quello dei suo ciambellani, cortigiani e consiglieri, è diventato insieme medium e messaggio, risorsa e fine, strumento e programma politico (di salute, benessere e, chissà, felicità). Beppe Grillo, in cuffietta celeste e mutande scure non richiama, come qualcuno ha creduto, il Mao Tze Tung, che nel 1966 si immerse nello Yanzi, per complesse ragioni geopolitiche. Ricorda, piuttosto, il Carlo Giovanardi che alle 11.23 del 26 luglio 2007, si bagnò nelle acque di Milano Marittima.
il Foglio 12 ottobre 2012
La traversata di Grillo è come un bagno di Giovanardi a Milano Marittima
Luigi Manconi
Non fateglielo sapere, a Beppe Grillo, ché sennò quello se ne adonta (e quando quello se ne adonta sono guai). Non fategli sapere che, con la sua epica impresa (la traversata a nuoto dello Stretto di Messina), è diventato uguale sputato al modello cui, palesemente, tende.

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Il partito dei senza valori
Luigi Manconi
Ormai quasi nessuno più lo ricorda, ma ci fu un tempo in cui anche Pietro Mennea fu “dipietrista”.                  L’uomo che, per diciassette anni, detenne il record del mondo sui 200 metri, persona così intelligente da essere uno dei rarissimi che non si sono acconciati a fare le telecronache delle imprese sportive altrui, fu europarlamentare  dal 1999 al 2004. Eletto nella lista dell’Italia dei Valori, passò ben presto a quella di Forza Italia. È di una qualche utilità ricordarlo oggi perché, mentre le cronache parlano delle molte e spesso efferate peripezie giudiziarie dell’Idv, va sottolineato un connotato, forse ancora più significativo, della natura di quel partito. Insomma, prima ancora delle malefatte per le quali alcuni suoi esponenti sono indagati, di quello strano agglomerato rappresentato dall’Italia dei Valori, è altro che colpisce: la sua, come dire, volatilità. Il fenomeno che troppo bonariamente viene definito “cambio di casacca” e che costituisce un  male endemico del nostro parlamento, deve molto alla straordinaria capacità degli eletti nelle liste dell’Idv di congedarsi, con rapidità spesso fulminea, dal partito d’origine per passare ad altri che offrono maggiori comodità (traducete come meglio vi pare quel “comodità”). Interi gruppi, a livello di parlamento europeo ma anche di consiglio comunale, si sono sfaldati in pochi mesi, producendo esodi che assomigliavano, più che a faticosi percorsi di liberazione, a scomposte corse verso il carro dei vincitori. Instabili maggioranze di centro-sinistra sono state messe a repentaglio e infine travolte dall’intelligenza col nemico e, poi, dal passaggio di fronte di esponenti dell’Italia dei Valori che scoprivano  inopinatamente che il loro posto era “altrove”. Sergio De Gregorio e  Domenico Scilipoti sono solo gli eroi eponimi – alla lettera: che danno il nome al fenomeno- di un flusso incessante e nevrotico da un partito all’altro, da una coalizione a una lobby, da un gruppo di interesse a una ventura individuale, sempre all’insegna di quel “movimiento movimiento”, che fu lo slogan filosofico-pallonaro di Helenio Herrera. Negli anni ’70 e ’80 un esponente delle Democrazia Cristiana, tutt’ora in attività e in ottima forma, venne soprannominato Tarzan, per la sua abilità nel saltare da una corrente di partito all’altra. Oggi, il suo, appare come un ingenuo e  quasi dilettantesco esercizio di duttilità politica, se confrontato con gli spericolati equilibrismi  e le audaci performance – fino a “un salto mortale e mezzo rovesciato con tre avvitamenti e mezzo, in posizione libera”, da piattaforma olimpica – di molti degli attuali transfughi. E, tra quest’ultimi, gli uomini dell’Idv offrono un repertorio cangiante di scorribande e tradimenti,di uscite laterali e di fughe attraverso porte girevoli. Se a ciò si aggiungono quei congedi da Di Pietro motivati da ragioni politiche (furiose le liti con Elio Veltri, Achille Occhetto e Giulietto Chiesa), ma che pure rivelano conflitti di natura economica, si avrà il quadro di un partito dove tutto appare labile ed evanescente. E dove proprio le erraticità dei confini e la fragilità delle forme organizzative agevolano, non solo la “sindrome da Grand Hotel” (Gente che viene , gente che va), ma anche la costituzione, sotto la superficie declamatoria dell’azione pubblica,  di interessi, anche patrimoniali, di singoli e di piccoli gruppi. Da qui le numerose disavventure giudiziarie, non solo recenti. L’elenco degli indagati, ma anche dei condannati, presenti nelle liste di Di Pietro o da quest’ultimo appoggiati nel corso di elezioni (spesso locali), è impressionante. Chi crede inflessibilmente nel principio di non colpevolezza fino a condanna definitiva, può resistere a pie’ fermo, ma certo resta turbato nel leggere il curriculum di uno come Riccardo Leone, candidato nel 2004 alle comunali di Foggia. E la cosa non può essere liquidata come un caso periferico o un accidente del destino, perché sono decine le vicende simili: e soprattutto perché quel Vincenzo Salvatore Maruccio, arrestato l’altro ieri, oltre ad essere capogruppo e segretario  regionale  dell’Idv, é anche avvocato di Di Pietro e socio di Sergio Scicchitano, indagato per false fatturazioni, e titolare dello studio presso il quale l’ex pubblico ministero ha il domicilio professionale.  Ma cosa c’è dietro questa inaudita impostura, che ha portato il partito della Legalità e della Moralità a coltivare tanta illegalità e tanta immoralità? C’è, io credo, un paradosso sommamente istruttivo. L’Italia dei Valori è un partito senza storia e senza memoria, senza una cultura e senza un’ideologia, totalmente estraneo non solo rispetto alle grandi famiglie politiche europee (cristianodemocratici e socialisti, liberali e ambientalisti), ma anche a qualunque identità riconoscibile, fatta di valori stabili e riferimenti ideali.
Il programma politico e  il messaggio pubblico dell’Idv si riducono alla lotta contro la corruzione e per la legalità. Ma ciò, se non rimanda a un’esperienza storica e a un progetto futuro, a modelli sociali e a obiettivi definiti, è destinato fatalmente  a restare mera agitazione. Se la lotta contro la corruzione e per la legalità non ha memoria di passati avversari e di recenti alleati, se non si traduce in un’idea sia pure pragmatica  e circoscritta della società e del suo funzionamento, e se non fa riferimento a principi riconoscibili (eguaglianza  e libertà, ma potrebbero essere merito e selezione o  altri ancora), rimane un urlo. In una fase di forte tensione parlamentare, nel momento dello scontro più acceso con Silvio Berlusconi, Di Pietro, per enfatizzare la propria opposizione all’allora Premier, gli si rivolse così: “Lei è lo stupratore della democrazia”. Grandi consensi, e qualche gridolino entusiasta, sul web, ma in realtà si trattava di una disperata dichiarazione di impotenza. Alla forza residuale ma ancora vischiosa di Berlusconi, Di Pietro opponeva un urlo sempre più roco, un alzare il volume nella ricerca esasperata della tonalità più acuta e dell’accusa che si voleva più feroce. Insomma, un partito nato come re-azione all’oltraggiosa impunità di parte del ceto politico, non è stato capace di dotarsi di una cultura e di un programma, ed è rimasto riflesso condizionato  e gesto di autodifesa. Proprio per questo, per il suo essere mera gestualità e puro vocio, risulta ancora più vulnerabile: e permeabile alle incursioni degli opportunisti e dei malfattori. A ciò si aggiunga che l’Idv è partito iper-personale. Il suo gruppo dirigente è assai più ridotto di quello di tutti gli altri partiti presenti in parlamento e, più di questi, totalmente etero-diretto dal Capo. Sta qui una ulteriore ragione di quella che appare una crisi irreversibile. Un partito, come si è detto, senza memoria e senza cultura politica, tutto concentrato sul carisma, oggi in declino, del leader, privo di qualunque forma di democrazia interna, e destinato, inevitabilmente, a diventare una lobby tra le altre.
il Messaggero 12 ottobre 2012
Il partito dei senza valori
Luigi Manconi
Ormai quasi nessuno più lo ricorda, ma ci fu un tempo in cui anche Pietro Mennea fu “dipietrista”.                  L’uomo che, per diciassette anni, detenne il record del mondo sui 200 metri, persona così intelligente da essere uno dei rarissimi che non si sono acconciati a fare le telecronache delle imprese sportive altrui, fu europarlamentare  dal 1999 al 2004. Eletto nella lista dell’Italia dei Valori, passò ben presto a quella di Forza Italia.

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Sallusti non è un caso
Questurini
Il testacoda manettaro del Giornale su Sallusti e la snobistica indiferenza del Fatto per i fatti

LUIGI MANCONI
1.“Sallusti in galera/I delinquenti fuori” Il Giornale del 27 settembre.
Va da sé: nessuno deve andare in carcere per le sue idee, nemmeno se aberranti. Per queste ultime valgono le sanzioni morali e, nel caso, quelle proprie del codice civile. Dunque, tutti con Alessandro Sallusti come un sol uomo e perinde ac cadaver. Ma è possibile che a tutta quella bella gente del Giornale non venga in mente che  la mobilitazione per la tutela della libertà di Sallusti meriti un respiro almeno un po’ più ampio della sola tutela della sola libertà del solo Sallusti? E che quella stessa sacrosanta battaglia non risulterà rafforzata, certo, se si accartoccerà in una pulsione corporativa; e se si immeschinirà in una rivalsa manettara e forcaiola?

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Sallusti non è un caso
Ubaldo Pacella
Sallusti  ovvero le caste in Italia non finiscono mai
Il caso sollevato nei giorni scorsi dalla condanna del direttore del Giornale  Alessandro Sallusti dimostra una volta di più come nel nostro Paese la riflessione approfondita, la correttezza della notizia, l’equilibrio siano elementi rari, quasi sconosciuti, mentre prevalgano le mode travestite da movimenti di opinione, più ancora la difesa della casta, in massima parte quella dei giornalisti. Costoro si arrogano a torto il diritto di ergersi a censori dei costumi, gongolano allorché  possono vestire i panni di  novelli Robespierre, ma guai se qualcuno in punta di piedi, o di penna, dimostra i loro errori marchiani o veniali, non fa differenza.

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Care amiche e cari amici,
su richiesta dei familiari di Francesco Mastrogiovanni, A Buon Diritto ha deciso di far conoscere uno dei documenti più strazianti e più "istruttivi" sulla privazione della libertà nel nostro paese. Qui non si parla di carceri, né di Centri di identificazione e di espulsione e nemmeno di caserme, bensì di un luogo civilissimo come dovrebbe essere - come tutti ci aspettiamo che sia - un ospedale. Ebbene, nei reparti psichiatrici di numerosi ospedali italiani si consuma tutt'ora - e si ripete da un secolo - una forma terribile e degradante di violenza nei confronti di pazienti inermi. Qualcosa di molto simile alla tortura. Ci riferiamo all'uso di quello strumento che è il letto di contenzione come mezzo di contenimento nei confronti di chi sia affetto da una qualche manifestazione di disagio mentale. E parliamo, in particolare, di Francesco Mastrogiovanni, maestro elementare di 58 anni, mai diagnosticato come infermo di mente, ma con occasionali comportamenti che potevano apparire, agli occhi di qualcuno, "bizzarri": e regolarmente occupato, apprezzato e stimato, in un'attività professionale assai delicata quale l'insegnamento in una scuola elementare. Per aver violato alcune regole del codice della strada, guidando la sua auto in una zona pedonale (ma anche sulla veridicità di questo episodio esistono forti dubbi), Mastrogiovanni subisce una misura di Trattamento sanitario obbligatorio (Tso). Trasferito nel reparto psichiatrico dell'ospedale di Vallo della Lucania, il 31 luglio 2009, viene immediatamente legato - con cinghie ai polsi e alle caviglie, a un letto di contenzione. Qui rimarrà "imprigionato" per oltre 82 ore, fino a quando morirà. Nel corso di questo tempo infinito, e di questa infinita agonia, una telecamera collocata nel reparto, riprende l'intero svolgimento dei fatti: il progressivo deperire di Mastrogiovanni, tenuto per quasi 4 giorni senza cibo né acqua, senza alcuna assistenza terapeutica e nell'indifferenza di almeno 18 tra infermieri e medici, che non muovono un dito, non offrono aiuto, non prestano soccorso. Il processo per i rinviati a giudizio (medici e infermieri accusati di sequestro di persona, falso ideologico e morte come conseguenza di altro delitto) è in corso e il 2 ottobre inizierà la requisitoria del pubblico ministero. Osservatori e familiari sono fortemente preoccupati, allarmati per come è andato il processo finora e timorosi che il suo esito allontani, piuttosto che avvicinare, la verità. Da qui la decisione - assai difficile e sofferta  - di far conoscere quel terribile documento che testimonia, minuto dopo minuto, il compiersi di una agonia. E' una visione a tratti intollerabile ma, ancor prima e ancor più, è intollerabile che quella agonia sia stata determinata da scelte amministrative e sanitarie, compiute da persone in carne e ossa, e non certo volute dal caso o da una imponderabile disgrazia. Per questo abbiamo deciso, in collaborazione con L'Espresso.it, di mandare in onda l'orrore. http://speciali.espresso.repubblica.it/interattivi/franco-mastrogiovanni/index.html
Che almeno si sappia.
Luigi Manconi
Valentina Calderone
Valentina Brinis
Cecilia Aldazabal
Care amiche e cari amici,
su richiesta dei familiari di Francesco Mastrogiovanni, A Buon Diritto ha deciso di far conoscere uno dei documenti più strazianti e più "istruttivi" sulla privazione della libertà nel nostro paese. Qui non si parla di carceri, né di Centri di identificazione e di espulsione e nemmeno di caserme, bensì di un luogo civilissimo come dovrebbe essere - come tutti ci aspettiamo che sia - un ospedale. Ebbene, nei reparti psichiatrici di numerosi ospedali italiani si consuma tutt'ora - e si ripete da un secolo - una forma terribile e degradante di violenza nei confronti di pazienti inermi. Qualcosa di molto simile alla tortura.

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La lacerazione
Perchè la contraddizione, pur riconosciuta, tra Quagliariello ed Englaro resta un dialogo mancato
Luigi Manconi
Qualche settimana fa, nel corso della trasmissione L’Infedele di Gad Lerner ( La 7), si è assistito ad una faticosa conversazione- o meglio: un dialogo mancato- tra Beppino Englaro e Gaetano Quagliariello, senatore del Pdl. Quest’ultimo è il parlamentare che, nei minuti immediatamente successivi alla morte di Eluana Englaro, urlò nell’aula del Senato: “Eluana non è morta, è stata ammazzata”. Quagliariello a confronto diretto -credo per la prima volta- con il padre di Eluana, ha introdotto quella che poteva essere una considerazione importante, dicendo pressappoco:” la mia frase era adeguata alla drammaticità della situazione. La mia posizione, così radicalmente critica nei confronti della famiglia Englaro e dei suoi sostenitori, era comunque parte di una contraddizione lacerante, che rimanda a fondamentali dilemmi etici. Ero una componente integrante, cioè, di quel conflitto tra diverse opzioni morali, fatto emergere dalla vicenda di Eluana Englaro ”. Per una volta, pur collocandomi in una posizione esattamente opposta a quella del senatore del Pdl, mi trovo a concordare con lui, sia pure solo astrattamente: si può stare dentro quella “scelta tragica”, anche con posizioni totalmente alternative e partecipando della stessa dolente passione e della medesima sofferta consapevolezza. Ma perché, nella circostanza ricordata( la trasmissione di  Lerner), quella primaria ed essenziale condivisione  tra opposti (Englaro e Quagliariello), non funzionava e non poteva funzionare? Esattamente per una irriducibile incomunicabilità dei rispettivi linguaggi. La frase urlata nel corso della seduta parlamentare (“Eluana non è morta, è stata ammazzata”) aveva, in ragione dell’ambiente (il Senato), ma anche dei comprimari (la faccia di Maurizio Gasparri, figuriamoci, e non solo la sua) e in ragione di quanto era accaduto in precedenza( e che sarebbe accaduto poi), una tonalità fatalmente tutta e solo politica- e non della migliore politica- e tutta e solo mondana. Al di là delle intenzioni, e delle stesse emozioni di Quagliariello. Per capirci, prendiamo per buona la sintesi da me prima proposta delle parole del senatore nella trasmissione di Lerner. L’essere partecipe di una contraddizione profonda, che divide le opinioni pubbliche, ma che determina incertezze e suscita dilemmi anche all’interno dei singoli soggetti e nei loro vissuti, presuppone una sorta di comunanza emotiva. Ovvero un sentimento condiviso (che non può essere definito se non di fraternità), che si può ritrovare solo all’interno di uno spazio originario e protetto, elementare e semplice: uno spazio umano che non può sopravvivere alla pre-potenza della politica, al sovrappeso degli interessi di parte, alla gravosità delle concezioni ideologiche. Il Quagliariello che ha urlato quella frase in Senato e che ne ha dato l’interpretazione autentica nel corso dell’Infedele , non era un essere umano innocente che si rivolgeva ad un altro essere umano altrettanto innocente ( Beppino Englaro). Quagliariello si portava e si porta appresso l’irresponsabile, e forse inconsapevole, oscenità di Silvio Berlusconi (Eluana “ è una persona che potrebbe anche avere un figlio”), le grossolanità - Dio la perdoni- di Eugenia Roccella, le temerarie affermazioni simil-teologiche di Francesco D’Agostino e di Monsignor Elio Sgreccia e quei disegni di legge nichilisti, che la fantasia di legislatori autoritari e illiberali andavano e vanno elaborando.  Insomma, il testo di Quagliariello era ed è letteralmente sovra determinato e sopraffatto dal paratesto e, dunque, il senatore del Pdl, finchè è senatore del Pdl, non può far parte di quella contraddizione  lancinante eppure condivisa- che  accomuna molti, al di là delle posizioni di merito- perché risulta fatalmente un soggetto esterno. Mi si può replicare: anche Beppino Englaro subisce il condizionamento del paratesto( di quella parte della politica, dei mass-media, della scienza e delle religioni che lo sostiene); e, infatti, la sua azione  si è svolta, per una quota significativa, nella sfera pubblica, finalizzata a ottenere il riconoscimento giuridico dell’obbligo morale assunto nei confronti della figlia e dell’insopprimibile facoltà dell’individuo di decidere di sé stesso. E ciò ha reso  Beppino Englaro- per tutti coloro che non sono accecati dalla faziosità- una figura “ umana, troppo umana” : e proprio perché trasmetteva la sensazione nitidissima che quell’atto, con il suo peso tragico, corrispondesse  alla sola forma possibile - in quelle condizioni- di amore genitoriale. Ecco, in Englaro, l’elemento originario, quello della pura natura umana, dei sentimenti costitutivi l’identità profonda, hanno prevalso su tutto il resto: anche su quel paratesto rappresentato da quanti- con errori e deformazioni, talvolta-  stavano dalla sua parte. In altre parole Englaro si è mosso, sì, nella “ zona grigia” tra privato e pubblico, in quell’area vulnerabilissima dove le interferenze esterne possono produrre danni incalcolabili, ma l’ha fatto con saggezza; e operando affinché, da quella “zona grigia”, si possa uscire con poche e semplici norme, ragionevoli e compassionevoli. Non con quell’obbrobrio di legge che, ancora una volta, viene brandita come una spada.
il Foglio 25 settembre 2012
La lacerazione
Perchè la contraddizione, pur riconosciuta, tra Quagliariello ed Englaro resta un dialogo mancato
Luigi Manconi
Qualche settimana fa, nel corso della trasmissione L’Infedele di Gad Lerner ( La 7), si è assistito ad una faticosa conversazione- o meglio: un dialogo mancato- tra Beppino Englaro e Gaetano Quagliariello, senatore del Pdl.

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Caso Cucchi, nuove radiografie:
è scontro sulle prove del depistaggio
di Stefano Sofi
Le lastre ritrovate in agosto all’ospedale di Marino. La sorella Ilaria: finalmente possiamo ricostruire la verità
«Possibile che nessuno se ne sia accorto prima? Quella parte di osso è stata sottoposta a decine di indagini e non è mai emerso nulla di diverso da quanto si è sempre sostenuto». Ladomanda che si pone l’avvocato Fabio Perugini, difensore di alcuni degli imputati per la morte di Stefano Cucchi, è paradossalmente la stessa che assilla i famigliari del giovane romano arrestato il 15 ottobre del 2009 e morto in carcere sei giorni dopo. «Avremmo risparmiato tempo, evitato tante polemiche e forse anche la superperizia disposta dal pm sarebbe stata inutile» dice Ilaria Cucchi, la sorella di Stefano che si sta battendo come una leonessa per ottenere la verità.
Le radiografie pubblicate ieri su questo giornale dimostrano la presenza di una seconda frattura sulla colonna vertebrale di Stefano e in queste ore stanno sparigliando le carte. «Hanno messo in campo l’artiglieria pesante» ironizza l’avvocato Perugini. «È un’ulteriore prova che il pestaggio c’è stato eccome» replica l’avvocato Fabio Anselmo, legale dei Cucchi.
La nuova lesione che viene evidenziata dalle lastre ora a disposizione degli esperti incaricati dalla Procura, si trova alla stessa altezza della colonna (L3) ma sul lato opposto della frattura sulla quale finora i periti si sono dati battaglia. E’ molto più recente dell’altra che è datata 13 novembre 2003 provocata da una rovinosa caduta del giovane geometra. Sebbene le cause della morte di Stefano siano state individuate in un’altra, ben più grave frattura al bacino, la datazione della seconda lesione che emerge da quelle lastre, allontana ancora di più le posizioni di accusa e difesa.
«A differenza di quella rilevata nel 2003 che era interna, questa non solo è più recente ma è esterna e quindi più che compatibile con il pestaggio. Una frattura da colpo diretto» afferma l’avvocato Fabio Anselmo. «Non c’è una seconda lesione - ribatte l’avvocato Diego Perugini - altrimenti sarebbe stata rilevata nelle decine di analisi che sono state fatte e sulla datazione dell’unica frattura certa non ci sono dubbi, risale al 2003».
«Negligenza dei medici» sostengono i periti della Procura. Ma tra le altre accuse per la morte di Cucchi, ad alcuni degli imputati (sei medici, tre infermieri e tre agenti di polizia penitenziaria) viene contestato anche il reato di lesioni lievi. Accertare se ci sia stato il pestaggio e di quale entità non è un aspetto secondario. «Un trauma diretto e recente alla vertebra» sostengono del resto i superperiti nominati dalla III Corte d’Assise che stanno valutando le cause della morte di Stefano Cucchi. Queste nuove radiografie a loro disposizione potrebbero costituirne la prova definitiva?
Ma da dove saltano fuori queste nuove lastre e come mai non sono state trovate prima? «Mi sento di dover ringraziare il pm per aver disposto queste ulteriori ricerche, ora finalmente siamo in grado di ricostruire la situazione» dice Ilaria Cucchi. Le radiografie sono infatti il frutto di una disposizione del pm del 13 agosto scorso: sono state trovate negli archivi dell’ospedale di Marino. «Ma a noi, il pm le ha rifiutate - spiega la sorella di Stefano - così come finora ci è stato impossibile ottenere la trascrizione di quanto affermò il nostro legale durante l’udienza preliminare quando chiese che venissero cambiati i capi di imputazione e la trascrizione delle telefonate alla centrale operativa del 112 nella notte dell’arresto di Stefano».
Polemiche a parte, i tempi della superperizia - la cui consegna era inizialmente prevista per il 19 settembre - si allungano. Secondo indiscrezioni, i periti intenderebbero ripartire da zero nell’esame dei reperti e della documentazione. Se da una parte la verità sulla tragica morte di Stefano Cucchi è ancora lontana forse con il ritrovamento di queste radiografie qualche passo in più potrebbe essere stato fatto.
il Messaggero Lunedì 24 Settembre 2012
Caso Cucchi, nuove radiografie:
è scontro sulle prove del depistaggio
Stefano Sofi
Le lastre ritrovate in agosto all’ospedale di Marino. La sorella Ilaria: finalmente possiamo ricostruire la verità
«Possibile che nessuno se ne sia accorto prima? Quella parte di osso è stata sottoposta a decine di indagini e non è mai emerso nulla di diverso da quanto si è sempre sostenuto». Ladomanda che si pone l’avvocato Fabio Perugini, difensore di alcuni degli imputati per la morte di Stefano Cucchi, è paradossalmente la stessa che assilla i famigliari del giovane romano arrestato il 15 ottobre del 2009 e morto in carcere sei giorni dopo. «Avremmo risparmiato tempo, evitato tante polemiche e forse anche la superperizia disposta dal pm sarebbe stata inutile» dice Ilaria Cucchi, la sorella di Stefano che si sta battendo come una leonessa per ottenere la verità.

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Esclusiva/ Cucchi, svolta nell'inchiesta
Nuove prove: due le fratture alla schiena
Il geometra romano detenuto per droga e morto in carcere tre anni fa. Esaminata dai periti la frattura del 2003. Ignorata quella più recente
Luigi Manconi
Si annuncia una novità davvero importante nella vicenda relativa alla morte di Stefano Cucchi. Una novità tale da poter imprimere una svolta decisivaal processo sulla tragica fine del trentunenne geometra romano deceduto mentre si trovava nel reparto detentivo dell'ospedale Sandro Pertini, il 22 ottobre del 2009. Forse è accaduto che due fratture presenti sul corpo di Cucchi, una risalente al 2003 e una appena precedente la morte, siano state considerate e analizzate quasi fossero una sola.
In estrema sintesi, questi i fatti: trovato in possesso di alcuni grammi di hashish, cocaina e antiepilettici, alle 23.30 del 15 ottobre, Cucchi viene fermato.
Inizia così una drammatica Via Crucis, scandita dal passaggio attraverso una sequenza di luoghi e apparati e istituti, tra decine di uomini dello Stato e delle strutture pubbliche, nessuno dei quali offrirà soccorso. Cucchi trascorre la prima notte in due diverse caserme dei Carabinieri e, la mattina dopo, viene portato in tribunale per la convalida dell'arresto; qui, nelle celle di sicurezza del palazzo di giustizia, subisce le violenze di alcuni agenti di polizia penitenziaria.
Poi, infermeria e pronto soccorso e carcere, fino a un vero e proprio abbandono terapeutico, il volto coperto dal lenzuolo, il corpo accartocciato, nel letto dell'ospedale Pertini. Qui trova la morte all'alba del 22 ottobre: come occultato e sottratto allo sguardo e alle cure dei familiari che, per sei lunghissimi giorni, non hanno avuto la possibilità di incontrarlo né di accoglierne l'ultimo respiro. Per questa vicenda, la procura di Roma ha rinviato a giudizio tre agenti di polizia penitenziaria e nove tra medici e infermieri, e il processo è attualmente in corso.
E tuttavia, già subito dopo l’esame autoptico, è emersa una valutazione profondamente diversa tra i consulenti di parte civile e quelli del pubblico ministero a proposito della datazione della frattura vertebrale L3 riscontrata sul corpo di Cucchi. Ora, le ultime verifiche effettuate dalla Procura di Roma permettono di dimostrare, senza ombra di dubbio, ciò che i consulenti della famiglia Cucchi hanno sempre sostenuto. Ovvero che la frattura sull’emisoma postero superiore - cioè sulla parte più alta della vertebra L3, sul lato esterno e più esposto della stessa - è recentissima.
In altre parole, che quella frattura riscontrata proprio sulla schiena, non è pregressa, né tanto meno di antica data, bensì appena precedente la morte. Ed è possibile ipotizzare che questa frattura, non sia l'esito di una caduta, come è stato sostenuto, bensì il risultato di un trauma diretto che ha riguardato la parte più esposta della vertebra. Ed è questa, appunto, la novità. Attraverso l’esame della documentazione medica da poco depositata, e dei radiogrammi reperiti dalla famiglia, è possibile notare inequivocabilmente l'esistenza di due fratture: oltre a quella di cui si è appena detto, un’altra, distinta e autonoma, risalente appunto al 2003.
In termini inevitabilmente tecnici, si tratta di una frattura sul «versante antero superiore di L3»: sul lato opposto, cioè, rispetto alla frattura ultima (2009), e situata internamente rispetto alla colonna vertebrale. Quella prima frattura mostra segni di guarigione già dall’aprile del 2004; e si trova in tutt’altro distretto della vertebra rispetto alla frattura riportata da Cucchi presumibilmente il 16 ottobre 2009.
Al di là del linguaggio medico, emerge un quadro decisamente nitido. Sul corpo di Cucchi, all'atto della morte, erano rilevabili due fratture, una risalente al 2003, non compatibile con l'ipotesi di un trauma prodotto da un colpo inferto da terzi, e un'altra, recente, compatibile con un'azione violenta subìta. Ora, c'è da chiedersi: quando i consulenti della procura parlavano dell’esistenza di una sola frattura pregressa «da caduta» e di un esame istologico che ne confermava la datazione non recente, si riferivano alla prima (quella del 2003)? C'è da crederlo, in quanto la collocazione della lesione, all’interno della colonna, è tipica della caduta e non di un possibile trauma diretto, causato da colpo inferto sulla schiena.
Se così fosse, l’equivoco, si fa per dire, sarebbe clamoroso. Ma è possibile che si sia verificato un simile travisamento e che due fratture, indubbiamente esistenti, siano state considerate come una sola? E analizzate come una sola? E che, di una sola, sia stata accertata datazione ed esatta collocazione e che, solo su questa, sia stato effettuato l'esame istologico? È urgente avere risposte precise, perché la posta in gioco non è solo - ed è comunque già enorme - la possibilità di raggiungere la verità su una vicenda sommamente iniqua come la morte di Stefano Cucchi. La posta in gioco è, anche in questo caso, il buon funzionamento di una giustizia giusta.
il Messaggero 23 settembre 2012
Esclusiva/ Cucchi, svolta nell'inchiesta
Nuove prove: due le fratture alla schiena
Il geometra romano detenuto per droga e morto in carcere tre anni fa. Esaminata dai periti la frattura del 2003. Ignorata quella più recente
Luigi Manconi
Si annuncia una novità davvero importante nella vicenda relativa alla morte di Stefano Cucchi.

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