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Adozione, ricerca delle origini, identità

1- Il racconto - Patrizia Conti 2- La ricerca degli adulti - Francesca Avon leggi tutto

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Naufragi
Luigi Manconi
Il naufragio della Concordia suscita comprensibilmente orrore. Le vittime, i dispersi destinati a rivelarsi corpi senza vita, la notte di tregenda sulla nave che si inabissa hanno costituito gli elementi di un incubo che si è dipanato per ore e ore, proponendoci uno scenario da panico che ha innescato antiche e nuove angosce. E il fiato sospeso e lo sguardo attonito su ciò che si pensava non potesse accadere. E, tuttavia, questa più recente tragedia sembra confermare che il fiato sospeso e lo sguardo attonito non sembrano in grado di  andare oltre il perimetro della nostra comunità nazionale e di lasciarsi afferrare da chi sta oltre quel confine: gli extra-comunitari, appunto. Quel mare che ha sommerso le sei vittime della Concordia, ma il numero è destinato a crescere, è lo stesso mare che, centinaia di chilometri più a sud, nel tratto tra Lampedusa e le coste africane,  inghiotte quotidianamente altri, molti altri corpi. Che non vediamo affatto. Da qui la domanda: perché riconosciamo alcuni esseri umani e altri ne disconosciamo? Sia chiaro: questo è (vuole essere) un dilemma filosofico, o qualcosa di più modesto che gli somiglia. Non è una tirata demagogica, non è un ragionamentucolo politico, non è una invettiva ideologica né, tantomeno, un malumore moralistico. Di conseguenza, mi auguro che come un dilemma filosofico, o qualcosa del genere, sia inteso, accettato o rifiutato. Ma –per l’amor del cielo- che non sia trasferito su un piano diverso da quello sul quale provo a proporlo. In ogni caso, so bene che quel dilemma ha una sua elementare risposta, che soddisfa un primo livello della conoscenza, ma che lascia completamente inalterata la sostanza etica del quesito. Partiamo dai dati. L’osservatorio di Italiarazzismo.it, curato da Valentina Brinis e Valentina Calderone, ha contato in 2187 i migranti morti o dispersi nel tratto di mare tra l’Africa e l’Europa, nel corso del 2011. Tale stima corrisponde, sostanzialmente, a quella fornita da Fortress Europe e da un coordinamento di associazioni, costituito da Acli, Centro Astalli, Caritas Italiana, Comunita' di Sant'Egidio, Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia, Fondazione Migrantes. Quasi duemiladuecento persone scomparse mentre tentavano una via di fuga da guerre civili e conflitti etnici, carestie e siccità, persecuzioni religiose e vessazioni politiche. Oltre centottantadue morti o dispersi al mese, circa sei ogni giorno. Si tratta, come si è detto, di extra-comunitari e già quella definizione così denotativa e discriminatoria spiega perché sfuggano alla nostra percezione. Non ci appartengono, così come noi non apparteniamo loro. E da questa mancata reciprocità discende tutto il resto. Si pensi solo alla coppia visibile/invisibile: quei sei morti che quotidianamente si contano nel Mediterraneo conoscono un’agonia tanto oscura quanto oscura è la loro vita precedente. Nulla sappiamo della loro esistenza così come nulla sappiamo della loro fine. Il loro anonimato discende da una censura preventiva, che prepara  la cancellazione postuma. Giavanni Maria Bellu ha raccontato in un libro bellissimo ( I fantasmi di Portopalo, Mondadori 2004) la vicenda di circa 300 migranti annegati nel canale di Sicilia la notte di Natale del 1996; e di come  un intero paese (Portopalo) abbia custodito per anni il segreto di quei cadaveri finiti nelle reti dei suoi pescatori, preoccupati che una eventuale indagine potesse determinare la chiusura dello spazio di pesca. Dunque, mentre i dispersi della Concordia vengono affannosamente cercati, e per fortuna, migliaia di altri dispersi nel canale di Sicilia vengono affannosamente  occultati o semplicemente ignorati. D’altra parte, come suggerisce Tobia Zevi, i primi sono le vittime del progresso –della proletarizzazione di un bene che fu di lusso- e finiscono seppelliti sotto le macerie di un lucente grattacielo, mentre i secondi restano schiacciati dalla rovina di una miserabile baracca. Infine, la Concordia segnala la possibile insidia che si nasconde dentro il più rassicurante dei sistemi di trasporto ( la Grande Nave che percorre, placida, un mare tranquillo) e dentro il mondo della  Sicurezza: mentre i migranti morti appartengono interamente al mondo del Rischio e della Precarietà. La loro morte è nel conto, la loro aspettativa di vita, che illusoriamente si voleva prolungare col trasferimento in Occidente, resta quella ascritta e predestinata. In altre parole, il naufragio della Concordia è “ il più grande spettacolo dopo il big bang”, mentre la morte dei migranti rientra nell’ordine naturale delle cose. Quanto fin qui detto contribuisce a spiegare lo scarto abnorme tra la sensibilità verso il naufragio all’isola del Giglio e la sensibilità verso la strage  quotidiana nel Mediterraneo; e aiuta a comprendere, allo stesso tempo, perché quello scarto risulti non riducibile. Quella disparità nello sguardo e nella percezione, infatti, non può non implicare una disparità ancora maggiore nella relazione tra il soggetto (che osserva) e gli altri (osservati). Insomma, se la vita di qualcuno vale meno (in quanto merita attenzione più scarsa e cura minore) è perché, e non può che essere così, quel qualcuno è meno. Dis-eguale e dis-umano. Inferiore.
Il Foglio 17 gennaio 2012
Politicamente correttissimo
Naufragi
Luigi Manconi
Il naufragio della Concordia suscita comprensibilmente orrore. Le vittime, i dispersi destinati a rivelarsi corpi senza vita, la notte di tregenda sulla nave che si inabissa hanno costituito gli elementi di un incubo che si è dipanato per ore e ore, proponendoci uno scenario da panico che ha innescato antiche e nuove angosce.

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Occupati più italiani meno stranieri
Luca Ricolfi
Forse non l’abbiamo ancora notato, ma nei dati su occupazione e disoccupazione comunicati pochi giorni fa dall’Istat c’è una grossa novità. Per capirla, tuttavia, dobbiamo fare un piccolo ripasso della crisi italiana.

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Così si muore in galera

Favero (Ristretti Orizzonti), Gonnella (Antigone), Manconi (A Buon Diritto): Fermare la strage nelle carceri italiane.

Comunicato stampa di Ornella Favero per Ristretti Orizzonti, Patrizio Gonnella per Antigone, Luigi Manconi per A Buon Diritto:


Anno 2011


Totale delle morti in carcere: 186
Di cui
- per suicidio: 66
- per cause da accertare: 23 (in corso indagini giudiziarie)
- per cause naturali: 96
- per omicidio: 1

Età media dei detenuti morti: 39,3

Età media dei detenuti suicidi: 37,8

Suicidi:
- italiani: 45
- stranieri: 21
- uomini: 64
- donne: 2

Metodo utilizzato:
- impiccagione: 44
- inalazione gas: 12 (da bomboletta butano)
- avvelenamento: 6 (con farmaci, droghe, detersivi, etc.)
- soffocamento: 4 (con sacco infilato in testa, etc.)

Condizione detentiva:
- sezione “comune”: 46
- sezione “internati”: 10 (Opg 9, Casa di Lavoro 1)
- sezione “isolamento”: 4 (Isolati per disposizione dell’A.G.)
- sezione “protetti”: 3
- sezione “infermeria”: 2
- sezione “alta sicurezza”: 1

Posizione giuridica:
- condannati con sentenza definitiva: 28
- attesa di primo giudizio: 27
- condannati in primo grado: 3
- misura di sicurezza detentiva: 8

Istituti Penitenziari: numero suicidi, numero medio detenuti nell’anno e tasso affollamento
Torino: 4 suicidi, (1.650 presenti, 146% affollamento)
Padova C.R.: 3 suicidi, (840 presenti, 184% affollamento)
Genova Marassi: 3 suicidi, (760 presenti, 170% affollamento)
Bologna: 2 suicidi, (1.150 presenti, 220% affollamento)
Cagliari: 2 suicidi, (540 presenti, 157% affollamento)
Castrovillari (Cs): 2 suicidi, (285 presenti, 217% affollamento)
Livorno: 2 suicidi, (500 presenti, 175% affollamento)
Opg Aversa (Ce): 2 suicidi, (350 presenti, 135% affollamento)
Opg Barcellona P.G. (Me): 2 suicidi, ( 350 presenti, 80% affollamento)
Perugia: 2 suicidi, (370 presenti 165% affollamento)
Poggioreale (Na): 2 suicidi, (2.600 presenti, 160% affollamento)
In altri 40 Istituti: 1 suicidio ciascuno

Relazione tra frequenza dei suicidi e tasso di sovraffollamento

Il tasso medio di sovraffollamento a livello nazionale è pari a circa il 150% (circa 68.000 detenuti in 45.000 posti).
In tutti gli Istituti nei quali si è registrato più di un suicidio nell’anno 2011 il tasso di sovraffollamento risulta essere superiore alla media nazionale. In particolare si segnala il carcere di Castrovillari (Cs), con 2 suicidi su “soli” 285 detenuti presenti e una media del 217% di affollamento.
 
Cambiamo con loro
Luigi Manconi
L’Istat, ricorrendo a numeri inequivocabili, offre un malinconico ritratto della nostra società tra 50 anni. Un’immagine spietata che dovrebbe determinare profonde riflessioni. La rappresentazione che emerge è quella non semplicemente di un Paese invecchiato, cosa che da tempo sappiamo, bensì quella, ancora più inquietante di un’organizzazione sociale destinata alla decadenza.

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Chi beneficia dell'Indulto è meno recidivo di chi esce dal carcere a fine pena
Luigi Manconi Giovanni Torrente
Domenica scorsa, al termine della visita di Benedetto XVI nel carcere di Rebibbia, ha echeggiato un grido solo, scandito dalla voce dei reclusi: amnistia. Si tratta di un termine e di un provvedimento generalmente guardati con sospetto, troppo frettolosamente rimossi o affrontati con una prudenza che tende a farsi reticenza.

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David Allegranti
Corriere Fiorentino 28.12.2011
Dice Luigi Manconi, docente di sociologia dei fenomeni politici, presidente di A buon diritto, ex sottosegretario alla giustizia, che «la percentuale del sovraffollamento a Sollicciano è tra le più alte di tutto il sistema penitenziario italiano.

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  • 1- Il racconto - Patrizia Conti
  • 2- La ricerca degli adulti - Francesca Avon

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Clemenze
Sulle carceri sono d'accordo con il Foglio. Finalmente. Ma che miseria i soliti moralisti accaniti.
Luigi Manconi
Ah, com’è bello e, soprattutto rasserenante, trovarsi incondizionatamente d’accodo - per una volta nel corso di quindici anni - con quanto viene scritto sulle pagine che, graziosamente, mi ospitano. Ah, com’è rilassante poter condividere interamente quanto scritto nei due editoriali del Foglio del 16 e del 17 dicembre a proposito delle misure adottate dal ministro della Giustizia Paola Severino. Ne consegue un singolare paradosso (che fa onore al Foglio): il tecno-governo del preside Monti viene valutato con obiettività non così frequente. E, dunque, apprezzato quando assume provvedimenti apprezzabili. E la “sospensione della democrazia” può determinare condizioni tali da consentire scelte in genere definite “impopolari”. Altri quotidiani di centro destra – fedeli al motto di Manlio Scopigno: “il calcio non è uno sport per signorine”. Figuriamoci la politica – non vanno tanto per il sottile e, pur avendo come riferimento un partito della “maggioranza”, se ne impippano. Così titolano: “A noi tasse, ai ladri libertà” (alcuni messaggi su facebook mi comunicano che Marco Travaglio ha scritto esattamente le stesse cose, ma non ho avuto occasione di verificarlo). Sotto il profilo politico, non si può non convenire con quanto scritto dal Foglio: “Stupisce che dal centrodestra, non solo dalla Lega ma anche da esponenti autorevoli del Popolo della libertà, si siano levate voci critiche” dal momento che “il principale provvedimento è un’estensione temporale a 18 mesi di una norma che era stata introdotta da Angelino Alfano, approvata quindi sia nel governo sia in Parlamento dal centrodestra”. Va aggiunto che  la formulazione originaria del disegno di legge Alfano prevedeva, assai ragionevolmente, l’estensione del termine di pena da scontare in detenzione domiciliare fino a 24 mesi. Scrive ancora il Foglio: “ha senso criticare un indulto mascherato solo se si intende, e non sarebbe male, proporne uno alla luce del sole”. Ben detto. Ma devo aggiungere che, dell’intera questione “dei delitti e delle pene”, mi interessa sempre più un aspetto che anche il Foglio sembra trascurare; e che, da qualche tempo, mi pare solleciti l’attenzione di Marco Pannella: ovvero il carcere come grande questione morale. Non mi riferisco solo al fatto che consentire – o non tentare di arginare – la crescente disumanizzazione di un segmento così significativo del sistema statuale sia di per sé immorale. Penso anche ad altro. Immagino, cioè, che dietro l’indifferenza, quando non l’ostilità, nei confronti dei reclusi, vi sia una miserabile interpretazione di quella teoria retributiva della pena, già discutibile di per sé. In questo caso, la retribuzione varrebbe al fine di “compensare” simbolicamente, all’interno di una concezione integralista e organicista del corpo sociale, la sofferenza delle vittime attraverso la sofferenza degli autori di reato. Se, dunque, il dolore dell’offeso è dovuto alla perdita di una vita, l’irreparabilità di tale perdita può essere compensata solo da un dolore altrettanto irreparabile inflitto a chi, quella privazione assoluta, ha determinato. In altre parole, se quel reato è, per sua stessa natura, non retribuibile in quanto non è restituibile la vita che ha spento, la sola retribuzione (pena) per chi si è reso responsabile di quel reato è, anch’essa, il-limitata. Ma questa concezione, che ritiene di affermare una morale intransigente, è invece la negazione di ogni moralità umana.
20 dicembre 2011
Clemenze
Sulle carceri sono d'accordo con il Foglio. Finalmente. Ma che miseria i soliti moralisti accaniti.
Luigi Manconi
Ah, com’è bello e, soprattutto rasserenante, trovarsi incondizionatamente d’accodo - per una volta nel corso di quindici anni - con quanto viene scritto sulle pagine che, graziosamente, mi ospitano.

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La questione immorale
Luigi Manconi
Se quella del carcere è, in tutta evidenza, una fondamentale questione politica e morale, perché mai, a interessarsene, sono pressoché esclusivamente i pontefici della Chiesa cattolica e i Radicali? Una possibile risposta risiede nel fatto che la politica, nella migliore delle ipotesi, considera il carcere un problema umanitario. Il che corrisponde al vero, ma rischia di delegare la questione a una dimensione volontaristica e, tutto sommato, sentimentale: roba per “anime belle” e per chi abbia “un cuore grande così”. E invece, come si è detto, è questione innanzitutto politica. Per due ragioni: perché riguarda il rapporto tra cittadino e Stato in quello che è il suo nodo cruciale: la libertà personale. In altre parole, lo Stato, le istituzioni e la politica, trovano il fondamento della loro legittimazione giuridica e morale nella capacità o meno di tutelare la libertà dei cittadini e di garantire che la privazione di quel bene supremo (la libertà, appunto) avvenga solo quando strettamente indispensabile, nelle condizioni e nei limiti previsti dalla legge. Tutto ciò che neghi questa impostazione, finisce col delegittimare Stato e istituzioni. Ma c’è un’altra ragione che rende politicamente decisivo il problema del sistema penitenziario. Ed è il fatto che quelle celle sovraffollate e promiscue, miserabili e alienanti, rappresentano l’appendice finale – la più dolente e intollerabile – della crisi complessiva della giustizia in Italia. Quelle celle sono la spia più eclatante del collasso dell’intero sistema dell’amministrazione della giustizia: e ci parlano dell’intasamento dei tribunali e di un codice penale vetusto, della drammatica carenza di risorse di personale e della macchinosità dei dibattimenti. Ecco, in quei letti accatastati e in quei cessi davanti ai fornelli, c’è la rappresentazione non solo di una condizione umana diventata disumana, ma anche di un funzionamento generale della giustizia (tutta, compresa quella civile), tanto lenta fino all’estenuazione quanto insipiente fino all’ottusità. Dunque, quando Bendetto XVI afferma che il sovraffollamento è una “doppia pena” sta dicendo, e lo fa anche esplicitamente, che è la stessa idea di pena e, pertanto, di tribunale e di giustizia, che va ripensata. Tutto questo è contenuto, nei termini considerati possibili, nei provvedimenti annunciati dal ministro della Giustizia Paola Severino. Misure che vanno tutte nella giusta direzione – anche se, a mio parere, con eccessiva lentezza - e che alludono a un progetto di riforma della giustizia e del sistema penitenziario, assai lungimirante, razionale e intelligente. Prevedibile la reazione della Lega, di alcuni settori del Pdl e dei giornali di destra che – coerentemente con una pulsione forcaiola mai doma - titolano: “A noi tasse, ai ladri libertà”. Non c’è da stupirsi: per questi ultimi la categoria di habeas corpus riguarda esclusivamente il perimetro del corpo del Sovrano. Sorprende, piuttosto, la risposta di molti segmenti del centro sinistra. Approvazione da buona parte del Pd, ma aggressiva ostilità dall’Italia dei Valori. Per quest’ultimo partito  l’argomento, espresso in termini non proprio da giure consulti, sarebbe il seguente: il provvedimento che consente di scontare in detenzione domiciliare la pena di diciotto mesi, costituirebbe “una amnistia preventiva e selettiva”, dal momento che non verrebbero esclusi i reati dei colletti bianchi (corruzione e falso in bilancio). Una simile affermazione si presta magnificamente a illustrare quale sia il significato anche morale di un discorso sul carcere. Innanzitutto perché si trascura il fatto che la detenzione domiciliare è propriamente detenzione: privazione della libertà, appunto. Dimenticarlo, per ignoranza o per calcolo, segnala l’immoralità di quelle posizioni, oltre che il loro connotato inequivocabilmente reazionario. Ma ancor più immorale è la motivazione  addotta. Se la mia azione tesa a emancipare (o liberare o soccorrere) dieci persone, può portare alla emancipazione di uno o due che non lo meritino, moralità è correre il rischio del bene. Che, dovrebbe saperlo pure chi non ha letto Sant’Agostino, contiene sempre al proprio interno anche il male. Se per evitare di beneficiare un manigoldo, evito di prestare aiuto, o anche solo di ridurre la sofferenza, di altri, incorro nel massimo di immoralità. Anche politica.
l'Unità 19 dicembre 2011
La questione immorale
Luigi Manconi
Se quella del carcere è, in tutta evidenza, una fondamentale questione politica e morale, perché mai, a interessarsene, sono pressoché esclusivamente i pontefici della Chiesa cattolica e i Radicali? Una possibile risposta risiede nel fatto che la politica, nella migliore delle ipotesi, considera il carcere un problema umanitario. Il che corrisponde al vero, ma rischia di delegare la questione a una dimensione volontaristica e, tutto sommato, sentimentale: roba per “anime belle” e per chi abbia “un cuore grande così”.

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Non chiamiamoli clandestini
Luigi Manconi
“Afgani pakistani usciti dalla Bibbia cancellati sulla sabbia / Dalla mafia del petrolio negati dal nostro odio che gli volta le spalle e riduce a un errore dello sguardo la loro voglia / di una stanza, di lavorare e partecipare” (Ennio Rega)
****
Va da sé che l’Italia non è “un paese razzista”. E c’è da chiedersi se vi sia al mondo un paese definibile come razzista. Non c’è dubbio tuttavia, che vi siano stati sistemi politici organizzati secondo linee di discriminazione razziale, tracciate da conflitti etnici e da legislazioni discriminatorie; ed è altrettanto ovvio che quelle strutture non siano state bandite una volta per sempre, ma tendano a riprodursi. Diverso è il discorso relativo all’orientamento culturale e alla mentalità condivisa della popolazione di uno stato democratico. È qui che la definizione di “paese razzista” sembra davvero difficile da attribuirsi. Qui, certo, possono svilupparsi movimenti xenofobi e scontri etnici; qui possono essere adottate leggi e politiche discriminatorie: ma ancora siamo assai lontani da poter definire “razzista” la popolazione di quello stato. In tutti i paesi europei, negli ultimi due decenni, si sono manifestati movimenti e partiti fondati sull’ostilità nei confronti degli stranieri, che hanno conosciuto alterne fortune elettorali. In Italia il principale partito xenofobo, la Lega Nord, non ha fatto della lotta contro l’immigrazione il suo primo obiettivo, pur collocandolo in cima al proprio programma, ma ha sempre privilegiato il tema della secessione. E, tuttavia, la sua costante polemica contro lo stato centrale ha sempre avuto una sua aggressiva ricaduta nella stigmatizzazione dello straniero; e, dalla cruciale postazione del ministero dell’Interno, nella politica dei respingimenti. Ciò ha fatto della Lega il primo degli imprenditori politici dell’intolleranza. Ovvero coloro che trasferiscono nella sfera politica e utilizzano come risorsa elettorale il disagio prodotto dal faticoso impatto tra residenti e immigrati. Qui sta il nodo cruciale dell’intero problema. L’ansia collettiva nei confronti dello straniero, tanto più in una fase di acuta crisi economica, è un sentimento spiegabile: la traduzione di quel sentimento in conflitto politico è la più scellerata e colpevole delle strategie. Tutto ciò sembra diventare infine chiaro, ma c’è qualcosa che continua a essere costantemente sottovalutato e che rischia di risultare un formidabile fattore di precipitazione delle situazioni di crisi. È la questione del linguaggio. Finalmente si incomincia ad affrontare il tema, ma esso è così  sottile e pervasivo da non essere sempre colto nella sua criticità, in particolare quando si presenta con una sua “innocenza”, dovuta a una supposta neutralità. Ciò riguarda in particolare quello che forse è il termine più utilizzato nel vocabolario dell’immigrazione: clandestino. A questa parola si fa ricorso, da tempo, con speciale riferimento a coloro che sbarcano sulle nostre coste. Vi ricorrono  gli organi di informazione più insospettabili, o perché incapaci di cogliere il terribile peso colpevolizzante che il termine porta con sé, o perché incapaci di sottrarsi all’omologazione linguistica dominante. E così vengono chiamati clandestini i meno clandestini tra tutti i migranti: quanti giungono sulle nostre coste in pieno giorno o sotto la luce abbagliante di fari, riflettori, telecamere e flash, mostrando i loro volti allo sguardo invadente della curiosità dei residenti e di noi tutti, palesemente privi di ogni cosa e totalmente disarmati, nudi o semi nudi, piagati o febbricitanti, comunque assolutamente inermi. Per questi esseri umani, costretti a mostrarsi nella loro “nuda vita”, i democraticissimi e tollerantissimi operatori dell’informazione usano il termine clandestino. Che evoca, piuttosto, la figura di chi agisce nell’ombra,  trama nel buio, ci minaccia alle spalle. È solo un esempio delle peripezie, talvolta perverse, che conosce il linguaggio. Molto opportunamente l’Ordine dei Giornalisti e la Federazione Nazionale della Stampa Italiana, d’intesa con l’UNHCR, con l’adesione di Arci, Acli, Amnesty International, Centro Astalli, A Buon Diritto e molti altri, ha promosso la cosiddetta Carta di Roma. In essa si affronta la questione della “informazione concernente rifugiati, richiedenti asilo, vittime della tratta e migranti, (…)con particolare riguardo al dovere fondamentale di rispettare la persona e la sua dignità (…)”. Di conseguenza, i promotori invitano i giornalisti ad “adottare termini giuridicamente appropriati sempre al fine di restituire al lettore e all’utente la massima aderenza alla realtà dei fatti, evitando l’uso di termini impropri”. Molto giusto. Speriamo che la Carta di Roma, come si dice, non resti sulla carta.
19.12.2011
Non chiamiamoli clandestini
Luigi Manconi
“Afgani pakistani usciti dalla Bibbia cancellati sulla sabbia / Dalla mafia del petrolio negati dal nostro odio che gli volta le spalle e riduce a un errore dello sguardo la loro voglia / di una stanza, di lavorare e partecipare” (Ennio Rega)
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Va da sé che l’Italia non è “un paese razzista”.

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La direzione è giusta gli arresti domiciliari estesi agli ultimi 24 mesi
Alberto Custodero
ROMA - «Accolgo con rammarico la dichiarazione di non realizzabilità dell' amnistia per ragioni politiche, una indispensabile misura eccezionale per una situazione d' eccezione». Luigi Manconi, docente di Sociologia e presidente di "A Buon Diritto", come valuta i provvedimenti svuotacarceri? «Vanno nella direzione giusta e aprono una prospettiva intelligente. Considerata la correttezza dell' impostazione, una maggiore audacia avrebbe portatoa risultati ancor più positivi». Quale audacia si sarebbe aspettato? «La violazione delle regole della detenzione domiciliare, e la recidiva durante la detenzione domiciliare hanno una percentuale statisticamente irrilevante. Questo avrebbe consentito di prendere in considerazione l' estensione fino a 24 mesi, come nell' originale ddl Alfano». Lei che ha denunciato i casi Cucchi, Aldrovandi e Uva, cosa pensa del fatto che i detenuti restino nelle "mani" di chi li ha arrestati in attesa della convalida del gip? «Questo solleva un problema: molto saggio dimezzare il tempo che precede la convalida ed evitare il carcere. Ma gli arrestati in quelle 48 ore resterebbero nelle camere di sicurezza dei corpi di polizia che hanno effettuato l' arresto. Ma è proprio lì, e proprio in quelle ore, che si consumano frequentemente abusi e violenze». Qual è il suo pensiero? «Come raccomanda l' Europa, il responsabile della custodia del detenuto in quella fase deve essere diverso da quello che ha effettuato l' arresto». Per svuotare le carceri,è previsto anche che il giudice possa comminare pene sostitutive per reati fino a 4 anni. Funzionerà? «Il fatto che il giudice possa disporre la detenzione domiciliare è il più importante provvedimento, una misura che da decenni chiedevano giuristi e garantisti perché nei fatti riduce il ricorso alla reclusione in cella. Pur mantenendo quella che è una pena vera e propria anche se scontata ai domiciliari».
la Repubblica 17 dicembre 2011
La direzione è giusta gli arresti domiciliari estesi agli ultimi 24 mesi
Alberto Custodero
ROMA - «Accolgo con rammarico la dichiarazione di non realizzabilità dell' amnistia per ragioni politiche, una indispensabile misura eccezionale per una situazione d' eccezione». Luigi Manconi, docente di Sociologia e presidente di "A Buon Diritto", come valuta i provvedimenti svuotacarceri?

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Il seme del razzismo
Luigi Manconi
E se la povera fantasia di una ragazza torinese, che accusa falsamente due rom di averla violentata, ci dicesse qualcosa di quanto è accaduto l’altro ieri a Firenze? Trent’anni fa, una minorenne che avesse voluto attribuire a uno sconosciuto stupratore la perdita della propria verginità, avrebbe probabilmente accusato “l’uomo nero”: predatore non identificabile tra le ombre di una via buia. Oggi, quell’uomo nero – nella maldestra ricostruzione di un identikit - assume le concrete fattezze, mantenendo lo stesso colore scuro, di un anonimo straniero. Trent’anni fa l’esplosione criminale di uno psicopatico si sarebbe indirizzata contro la folla indistinta  proprio perché folla, e minacciosa proprio perché estranea e non conoscibile. Oggi, il delirio paranoide dà al bersaglio della propria violenza i volti di un nemico che si avverte come tale e si teme come tale in quanto diverso (per provenienza, cultura, stile di vita). In entrambi i casi, in apparenza così lontani, c’è un terribile tratto comune: è la procedura che porta alla stigmatizzazione del capro espiatorio e alla sua pubblica esecuzione. La fragile sedicenne di Torino e l’adulto pazzoide di Firenze rispondono a un personale disturbo, dando corpo ai propri fantasmi per poi eliminarli, la prima attraverso una falsa accusa, il secondo a colpi d’arma da fuoco. Entrambi, tuttavia, utilizzano materiali che circolano nella vita quotidiana, pregiudizi condivisi, stereotipi diffusi. E ciò rimanda a due processi culturali che si sono impadroniti di una parte significativa del senso comune nazionale. Il primo: la trasformazione del diverso – straniero o zingaro – in nemico e la conseguente creazione di uno stato di allarme nei suoi confronti. Gli stranieri regolarmente residenti in Italia sono quasi cinque milioni e contribuiscono, con circa l’11% del Pil, alla produzione di ricchezza nazionale, ma restano largamente estranei alla vita sociale, costretti ai margini del sistema di cittadinanza. Il rinnovo di  un permesso di soggiorno, l’accesso ai servizi (casa, trasporti) e al lavoro, per non dire dell’ottenimento della cittadinanza italiana, corrispondono ad altrettanti percorsi faticosi e accidentati, irti di ostacoli, segnati da una lentezza che brucia le aspettative e consuma le esistenze. Ma, soprattutto, emerge l’assenza di intelligenti e razionali politiche di integrazione. Queste ultime sono affidate quasi esclusivamente a dinamiche spontanee - quali la crescente presenza dei minori stranieri nelle nostre scuole - che pure risultano spesso insufficienti. Basti pensare che al compimento dei diciotto anni, per chi ha completato un percorso di studio sono scarsissime le possibilità di rinnovare il titolo di soggiorno. Se, pertanto, l’Italia degli italiani tiene a distanza una popolazione di alcuni milioni di persone, pacifica e integrata nella stragrande maggioranza, si capisce bene come possa accadere che quegli stranieri, restati estranei e guardati con diffidenza, vengano percepiti come un  pericolo sociale. Tanto più quando la crisi economica diffonde ansia collettiva e insicurezza verso il futuro: i venditori ambulanti senegalesi possono apparire, a quel punto, un temibile fattore di concorrenza. Sul web, in queste ore, circolano le maleodoranti voci di consenso per l’ “italiano vero” che ha portato a compimento quanto una sentina di odio neofascista e razzista riproduce, quasi inevitabilmente, all’interno dei sistemi democratici. È un fenomeno pericoloso, ma contenibile attraverso i dispositivi di legge. Certamente ancor più pericoloso è quel grumo di rancore tacito, di rivalsa sociale, di risentimento e frustrazione che può indurre strati di popolazione, se non ad approvare, comunque a non ripudiare quell’azione criminale. E a ciò può contribuire un secondo processo culturale che già ha conquistato una parte della mentalità condivisa. È quello che possiamo chiamare la caduta del tabù del razzismo. Indicare nel rom il più probabile stupratore, corrisponde al diffondersi di uno stereotipo infame che, finora censurato, può oggi circolare impunemente. C’è persino una data di riferimento: è quel novembre del 2007 quando venne uccisa a Roma Giovanna Reggiani dopo essere stata abusata da un romeno. In quella circostanza, e nelle successive campagne elettorali per il Comune di Roma e per il Parlamento nazionale (2008), è come se fosse entrato in crisi quella sorta di patto civile che aveva funzionato come interdizione morale contro l’utilizzo di categorie dichiaratamente razziste nel discorso pubblico. In altri termini, salvo alcune e particolarmente vistose eccezioni, nella sfera pubblica del nostro paese, l’equazione romeno (o altra nazionalità) uguale stupratore non aveva libero corso e risultava impresentabile culturalmente e politicamente. Oggi non è più così. Tutto ciò chiama in causa le responsabilità di chi nel sistema politico (la Lega, ma non solo essa) e nel sistema dell’informazione (quanti banalizzano e sottovalutano il fenomeno) acconsente a un linguaggio fatto di semplificazioni grossolane e di allarmi xenofobici.
Le parole sono parole e, tuttavia, talvolta possono essere pesanti come pietre. E va ricordato che, sempre, il rituale efferato del linciaggio viene preceduto dai meccanismi di degradazione della vittima.
il Messaggero 15.12.2011
Il seme del razzismo
Luigi Manconi
E se la povera fantasia di una ragazza torinese, che accusa falsamente due rom di averla violentata, ci dicesse qualcosa di quanto è accaduto l’altro ieri a Firenze? Trent’anni fa, una minorenne che avesse voluto attribuire a uno sconosciuto stupratore la perdita della propria verginità, avrebbe probabilmente accusato “l’uomo nero”: predatore non identificabile tra le ombre di una via buia. Oggi, quell’uomo nero – nella maldestra ricostruzione di un identikit - assume le concrete fattezze, mantenendo lo stesso colore scuro, di un anonimo straniero.

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