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L’uomo nero a Firenze
il Foglio 14 dicembre 2011
Melania Rizzini
Un uomo che apre il fuoco in due mercati di Firenze, uccide due ambulanti senegalesi, ne ferisce gravemente altri, viene raggiunto dalla polizia in un parcheggio sotterraneo e si spara al petto per evitare la cattura (o, dice un’altra versione, nel corso di uno scontro a fuoco con le forze dell’ordine). “Un pazzo”, dicono alcuni mentre un corteo di senegalesi attraversa la città (con momenti di tensione). “Un razzista”, dicono altri. “Un pazzo razzista”, dicono altri ancora, mentre il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano invita a ripudiare ogni “predicazione di razzismo”. L’uomo, Gianluca Casseri, ragioniere, solitario, cinquantenne fondatore di una rivista della destra radicale, viene descritto come “vicino” a Casa Pound. L’associazione ieri diceva: era solo un simpatizzante, lo conoscevamo appena, non siamo soliti chiedere la patente di sanità mentale.
Il sociologo Luigi Manconi studia il tema dell’intolleranza da venticinque anni. Premette che “esiste la psicopatologia ed è altamente probabile che questo criminale fosse affetto da qualche patologia grave”, e però poi dice: “Un conto sono le parole, con la loro libertà sregolata, un conto gli atti”. Da garantista Manconi ritiene “sanzionabili soltanto gli atti”, ma pensa anche che “Casa Pound debba cominciare a interrogarsi, perché è troppo lungo l’elenco degli aderenti al movimento che si sono trovati coinvolti non in propaganda, ma in azioni criminali”. Dopodiché, dice Manconi, “se nel senso comune si diffonde una sorta di automatismo che attribuisce allo straniero la responsabilità dei crimini, per un verso, e del disordine sociale, per l’altro, è inevitabile che persone variamente fragili, come la sedicenne torinese che non riesce a giustificare la propria libertà sessuale e accusa il rom o il sociopatico che cerca una sorta di rivalsa sociale, si indirizzino contro la figura del diverso da noi”. Un meccanismo, questo, che in Italia “da un lato è stato attivato e dall’altro sottovalutato”. Abbiamo vissuto per decenni “con il tabù del razzismo”, dice Manconi, perché “le subculture prevalenti nel paese – di origine socialista-comunista, religiosa-cristiana e liberaldemocratica – avevano prodotto un’interdizione morale nei confronti del razzismo, al punto che l’accusa di razzismo era quella socialmente e moralmente più riprovevole”. Come tutti i tabù, anche quello del razzismo alludeva “a una rimozione, ma costituiva anche una forma di deterrente, di tutela sociale”. C’è uno spartiacque temporale, l’autunno del 2007, dice Manconi, “l’autunno dell’omicidio di Giovanna Reggiani, uccisa a Roma da un romeno”. Fino ad allora “non era stata accolta nello spazio pubblico l’equazione romeno uguale stupratore, circolante nel discorso corrente e presso alcuni gruppi periferici o esponenti poco significativi del ceto politico”. Dopo l’omicidio Reggiani, però, “quell’equazione viene addirittura pronunciata, detta nella campagna elettorale per il comune di Roma e per le politiche del 2008”. E’ a quel punto, dice Manconi, “che il tabù del razzismo comincia a sgretolarsi e non funziona più come strumento di tutela sociale”. Questo fa sì che “la stigmatizzazione del romeno in quanto stupratore, e del rom in quanto ladro di bambini, possa dispiegarsi come automatismo nonostante l’insignificanza statistica: una ricerca mostra che, dal 1945 a oggi, non è stato mai processato alcun rom o sinti, in Italia, per rapimento di bambini, tranne un caso nel napoletano. Ma non basta ad annullare lo stereotipo”.
Nel 1988 Manconi ha scritto un saggio in cui parlava di “imprenditori politici dell’intolleranza”. Figure più che mai attuali: “Il disagio dell’impatto tra migranti e residenti è un dato incontestabile”, dice, “ed è incontestabile anche che il disagio si scarichi sulle fasce più deboli”. Ma il problema è “se la politica disinnesca o incentiva, se razionalizza le angosce e trova soluzioni intelligenti o esalta la conflittualità”. L’imprenditore dell’intolleranza “è chi avverte quel disagio, lo trasferisce sul piano pubblico e ne fa una risorsa politica”. Rispetto al 1988, dice Manconi, “gli imprenditori politici dell’intolleranza si sono evidenziati e moltiplicati in tutte le aree metropolitane delle nostre città. Spesso restano in ambito prepolitico, ma se questa presenza si sposa con forme organizzate di aggressività, ed è quello che è successo a Torino, viene agevolmente incanalata in strutture di mobilitazione già collaudate”. A questo si aggiunge “la sottovalutazione”. Manconi si chiede come mai “una destra che si dice moderna ed europea non si metta a urlare di fronte a fatti come quello di Firenze. Teme la Lega? Teme di fare il gioco del ‘nemico’? Angelino Alfano dovrebbe essere domani, subito, in prima fila in piazza a Firenze”.
L’uomo nero a Firenze
il Foglio 14 dicembre 2011
Melania Rizzini
Un uomo che apre il fuoco in due mercati di Firenze, uccide due ambulanti senegalesi, ne ferisce gravemente altri, viene raggiunto dalla polizia in un parcheggio sotterraneo e si spara al petto per evitare la cattura (o, dice un’altra versione, nel corso di uno scontro a fuoco con le forze dell’ordine). “Un pazzo”, dicono alcuni mentre un corteo di senegalesi attraversa la città (con momenti di tensione). “Un razzista”, dicono altri. “Un pazzo razzista”, dicono altri ancora, mentre il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano invita a ripudiare ogni “predicazione di razzismo”. L’uomo, Gianluca Casseri, ragioniere, solitario, cinquantenne fondatore di una rivista della destra radicale, viene descritto come “vicino” a Casa Pound. L’associazione ieri diceva: era solo un simpatizzante, lo conoscevamo appena, non siamo soliti chiedere la patente di sanità mentale.
Un odio ordinario
L'incendio del campo rom a Torino è un modello esemplare di uno sfacelo culturale, altroché Il Foglio, 13-12-2011 Luigi Manconi Non so a voi, ma a me questa storia torinese dello stupro finto e dell’incendio vero al campo rom, fa davvero impressione. L’anno prossimo saranno venticinque anni da quando ho iniziato a interessarmi al tema e dunque, di episodi simili, mi è capitato di osservarne parecchi. Eppure questo ha una sua perfetta esemplarità e una rappresentatività così plastica da costituire un vero e proprio paradigma. Ascanio Celestini
racconti Con Patrizia Aldrovandi I Ilaria Cucchi Domenica Ferrulli I Lucia Uva E con Luigi Manconi | Valentina Calderone Fabio Anselmo | Daniela Bendoni Valentina Brinis I Silvio Di Francia Le canzoni di Flavio Giurato I Ennio Rega Stefano Saletti e Barbara Eramo Martedì 13 dicembre | ore 20.30 Ex cinema Palazzo Sala Vittorio Arrigoni Piazza dei Sanniti, San Lorenzo | Roma Ingresso gratuito La crisi non oscuri il bene libertà
Luigi Manconi
Cinque anni fa, quando venne approvata la misura dell’indulto, l’allarme sulla sicurezza delle città e dei cittadini era già un fattore significativo nella formazione dell’opinione pubblica. Ma fu proprio il provvedimento di clemenza a portare quell’allarme fino a livelli parossistici.
Molte sono le ragioni che inducono a ritenere quella diffusa ansia collettiva come il prodotto di una vera e propria manipolazione del senso comune. E, infatti, com’è possibile che la crescita abnorme della sensazione di vivere sotto una minaccia criminale si registri nel momento in cui le statistiche dei reati segnalano esattamente l’opposto? E nel momento in cui il numero degli omicidi volontari si riduce a un terzo di quello registrato vent’anni prima. Sono tante, evidentemente, le ragioni di questa alterazione della vista. Ma qui mi limito a ricordare che - come ha documentato Gianni Betto, direttore del Centro d’ascolto dell’informazione radiotelevisiva - proprio in quel periodo la «copertura» assicurata ai «fatti criminali» dalle emittenti televisive nazionali, passa dall’11% al 23% del tempo complessivo.
Ora non è più così. Quello attuale è un tempo in cui le questioni dell’ordine pubblico sembrano assumere una importanza e uno spazio informativo assai più ridotti. Un motivo c’è: nel pieno di una crisi economica, è la crisi economica a dominare, e a determinare le angosce collettive e le strategie individuali, a occupare lo spazio pubblico e le fantasie delle persone, a condizionare le aspettative e a bruciare le speranze.
È come se non ci fosse tempo e spazio per null’altro. E così, sgomitando e strattonando i vicini, diventando fatalmente molesti e persino un po’ queruli, si vogliono qui ricordare alcune questioni di ordine pubblico, indipendenti dalla crisi economica e viste per una volta da una prospettiva inconsueta. Tre questioni che corrispondono ad altrettanti virtuosi e istruttivi aneddoti.
1) La storia di Adama. Una settimana fa, finalmente, Adama Kebe è uscita dal centro di identificazione ed espulsione di Bologna e ha ottenuto un permesso di soggiorno per motivi di protezione sociale. Lo scorso agosto aveva denunciato le violenze subite per mano del suo ex compagno, ma non era stata ascoltata e, in quanto irregolare, era stata portata nel Cie. Un caso particolarmente eclatante, ma tutt’altro che raro, dove l’ottusità burocratica si combina con una evidente indifferenza per la condizione della vittima, e con un sostanziale disprezzo verso le garanzie previste dal nostro ordinamento, a tutela di chiunque si trovi sul territorio italiano. Per una volta, la vicenda si è risolta positivamente, così come quella di El Haddeji.
2. La storia di El Haddeji. Agli inizi di quest’anno il giovane tunisino arriva a Lampedusa e, da qui, risale l’Italia fino all’Umbria dove verrà fermato dai carabinieri. Nonostante sostenga di non essere maggiorenne non viene creduto e si ritrova così nel Cie di Ponte Galeria. El Haddeji è nato a Tunisi il 20 settembre del 1994, ma nei verbali del suo trattenimento, la data viene anticipata al 1993. Un vero e proprio falso per aggirare la legge, che non permette il trattenimento di minori nei Cie. Dunque, col suo documento vero che dimostra l’abuso subito, El Haddeji si trova in un Cie a causa di un documento falso voluto dalle autorità italiane.
Solo con grande ritardo, la notizia viene trasmessa in maniera rocambolesca all’esterno e, grazie all’intervento dell’avvocato Maria Rosaria Calderone di A Buon Diritto Onlus e agli articoli pubblicati da Salvatore Maria Righi sull’Unità, El Haddeji viene liberato.
3. La storia di Salvatore Barbera. Il direttore di Greenpeace Italia, Giuseppe Onufrio, ha comunicato che, a partire dal 7 dicembre, è diventato esecutivo per Barbera, responsabile della campagna sul Clima, il «rimpatrio con foglio di via obbligatorio» (è scritto proprio così) nel comune di residenza (Pistoia), e «il divieto di ritornare nel comune di Roma per anni due».
È quanto previsto dal testo unico delle leggi di pubblica sicurezza risalenti al 1931, inopinatamente utilizzato per colpire una legittima attività politica (una manifestazione di Greenpeace davanti a Palazzo Chigi). Era già successo nel 2007 a Brindisi, quando dopo un’azione di protesta contro la centrale a carbone, a dodici attivisti fu ingiunto il divieto di ritornare a Brindisi per tre anni. Pochi mesi dopo, il Tar annullava quel provvedimento. E analogamente si è comportato il Tar del Lazio lo scorso settembre. Cosa hanno in comune episodi così diversi, che vanno a colpire - o comunque a non tutelare - persone tanto differenti l’una dall’altra? La sottovalutazione grave e persistente di quel bene prezioso - il più prezioso negli ordinamenti democratici - che è la libertà individuale. Da tenere cara, molto cara, anche in tempi di crisi economica.
La crisi non oscuri il bene libertà
Luigi Manconi
Cinque anni fa, quando venne approvata la misura dell’indulto, l’allarme sulla sicurezza delle città e dei cittadini era già un fattore significativo nella formazione dell’opinione pubblica. Ma fu proprio il provvedimento di clemenza a portare quell’allarme fino a livelli parossistici.
Fermi davanti alla morte
Luigi Manconi
La linea che traccia il perimetro del nostro territorio mai è apparsa così incerta e permeabile e mai è stata tanto rigida ed escludente. Dall’una e dall’altra parte di quel confine, lo scialo di morte non necessaria (se mai una morte può dirsi necessaria) grida vendetta.
Grida vendetta davanti a Dio e agli uomini. Morte non necessaria: e proprio perché balza agli occhi così inequivocabilmente e oscenamente il legame inestricabile tra tanti lutti e le responsabilità umane. Al di qua del muro che cinge la Fortezza-Europa e la Fortezza-Italia, si contano migliaia e migliaia di morti e feriti e invalidi per incidenti sul lavoro: quasi tre che perdono la vita ogni giorno, per limitarci all’Italia. Al di là di quello stesso muro, nel Mar Mediterraneo, quello che fu nostrum e che ora è di pochi e potentissimi, sono quasi sette quotidianamente i morti e i dispersi. Come non chiamare strage una simile tragedia? Eppure ci abbiamo messo decenni perché la percezione di quanto fosse scandalosa quella lunga teoria di «morti bianche» (così chiamate una volta) diventasse consapevolezza collettiva: quanto ci vorrà ancora perché diventi infine inaccettabile lo stillicidio di cadaveri portati sulle nostre coste dai movimenti di un mare diventato -da canale di transito quale era- nemico insidioso?
Insomma, quando l’intollerabile ci apparirà finalmente per quello che è: intollerabile, appunto. Perché questo è il nodo vero. Non c’è dubbio, infatti, che quella degli sbarchi sia questione complicata e di difficile soluzione, che richiede politiche sovranazionali e interventi di lungo periodo, strategie complesse e grandi risorse e l’impegno dei paesi rivieraschi. Ma, detto tutto ciò e considerato tutto quanto è doveroso considerare, resta un dato pesante come un macigno e doloroso come una ferita aperta. Quel dato non può sopportare l’inevitabile lentezza delle grandi decisioni politiche e la vischiosità della concertazione europea e internazionale.
Quel dato urla una sofferenza non lenibile: a partire dal primo gennaio del 2011 e fino a ieri sono stati 2160 i migranti morti o dispersi nel tratto di mare tra l’Africa e l’Europa. Circa duecento al mese e, come si è detto, quasi sette al giorno. È una cifra che risulta dal confronto tra le stime elaborate dall’Osservatorio di Italia-razzismo, da Fortress Europe e da un coordinamento di associazioni (Acli, Centro Astalli, Caritas Italiana, Comunita’ di Sant’Egidio, Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia, Fondazione Migrantes).
Ecco, è possibile accettare che una simile macabra contabilità diventi un tratto ordinario e fisiologico del panorama geo-politico, e solo perché si registra appena una spanna oltre il nostro recinto domestico? Tanto più che quelle cifre crudeli sono l’esito della maledetta combinazione di più irregolarità. L’irregolarità delle imbarcazioni, del numero di passeggeri, di chi li trasporta in Italia, delle condizioni di navigazione e infine, l’irregolarità delle persone a bordo. Il che comporta in genere, per i sopravvissuti, la decisione dell’immediato rimpatrio. Ebbene, è da qui che si può e che si deve partire per porre riparo - almeno un primo e provvisorio riparo - a questo dramma, facendo sì che quella condizione di irregolarità che avvolge e stigmatizza, mortifica e deturpa chi cerca in Italia una via di scampo, non diventi una condanna inappellabile.
È un compito che il ministro della Cooperazione e integrazione, Andrea Riccardi, che il problema conosce assai bene, può iniziare ad affrontare. Un esempio: una delle cause di quella strage nel Mediterraneo va addebitata al potenziamento dell’agenzia Frontex, l’organismo incaricato del pattugliamento delle “frontiere esterne” dei paesi dell’Unione Europea. Seppure non vi fosse una relazione immediata di causa-effetto, non c’è dubbio che sistemi rigidi di controllo (come è Frontex) inducono a «strategie di accesso» illegali, che finiscono col determinare un numero maggiore di vittime. Da qui una proposta, quanto mai ragionevole ed «europea»: far sì che Frontex si trasformi, da subito, in un meccanismo di regolamentazione dell’ingresso legale in Europa per quanti vogliano cercarvi una chance di vita. Se ne avrebbe un grande vantaggio intanto per il nostro livello di civiltà giuridica e, in prospettiva, per il nostro benessere economico.
l'Unità 28.11.2011
Fermi davanti alla morte
Luigi Manconi
La linea che traccia il perimetro del nostro territorio mai è apparsa così incerta e permeabile e mai è stata tanto rigida ed escludente. Dall’una e dall’altra parte di quel confine, lo scialo di morte non necessaria (se mai una morte può dirsi necessaria) grida vendetta.
Gentile Ministro Andrea Riccardi,
le scrivo a pochi giorni dal suo insediamento sia perché la stessa definizione del dicastero affidatole, Cooperazione e Integrazione - che riunisce competenze finora attribuite al ministero dell’Interno e a quello degli Esteri - costituisce di per sé una importante novità; Politicamente correttissimo
Brutti a vedersi
Luigi Manconi
Per la prima volta, dopo quindici anni di incondizionata e smodata e sregolata libertà (della quale sordidamente ho profittato in più di una circostanza), il Foglio ha preso le distanze da quanto da me scritto nella rubrica di martedì scorso. L’accusa è quella di aver fatto “una passeggiata piena di gratuite perfidie su Franco Frattini”. Accetto il rimbrotto e ne terrò conto, per come so e per come posso, e non opporrò la bolsa giustificazione sintetizzabile nella formula “da quale pulpito!”. E, infatti, da tempo sono convinto che la bontà o meno della “predica” sia totalmente indipendente dalla correttezza o meno del“pulpito” dal quale venga impartita. Pur consapevole, pertanto, che le mie “gratuite perfidie” risultano innocentissime burle a petto delle contumelie che, su queste colonne, hanno colpito ora l’uno, ora l’altro malcapitato bersaglio, capisco bene che non è questo il punto. Ripeto, accetto la critica e ne terrò conto, ma resta un dubbio: chi può mai dire, documentalmente, che le mie “perfidie” fossero davvero “gratuite”? Ritorno, quindi, sull’argomento perché -al di là dell’onore offeso di Frattini e della mia incontinenza, la questione ha un suo significativo rilievo, direi anche morale. All’ex ministro degli Esteri ho rimproverato, infatti, una serie di gaffe, difficilmente smentibili, e una sua palese, inequivocabile, quasi ostentata e compiaciuta superficialità. Qui sta forse la mia responsabilità e, comunque, la mia leggerezza, che ha rischiato di apparire come la concessione a una procedura di character assassination. Ma se un personaggio pubblico, ripetutamente ai vertici dello Stato e, via via, titolare di diversi ministeri, alimenta una tale idea di sé siamo di fronte a qualcosa di simile a una strategia politica, e come tale va giudicata. E io l’ho giudicata. Se non l’ho fatto bene intendere, e il mio è apparso come il maramaldeggiare sulla personalità (il carattere) di chi oggi si trova in una qualche difficoltà, me ne rammarico. Resta il fatto che, ancora una volta, la questione del linguaggio appare, più che cruciale, decisamente centrale e dirimente. Prendiamo la polemica intorno al governo di Mario Monti e a “quello che ci sta dietro”. Nel corso di una iniziativa promossa dal Foglio, da Libero e dal Giornale (Milano, 12 novembre), il direttore di quest’ultimo ha definito così la Goldman Sachs: “covo di criminali veri”. Non mi interessa, ovviamente, l’entità dell’offesa (“criminali” è più che “imbroglioni” e molto più che “birichini”, ma si tratta in ogni caso di offese), bensì la trama al cui interno si colloca. E la trama, ahi noi, è talmente vischiosa da impedire qualsiasi distinguo, anche a chi voglia conservare una propria autonomia concettuale e, come dire, letteraria. Sia chiaro: così come non accetto il paradigma del pulpito e della predica, mi rifiuto di accogliere quello dello “zoppo” (dal quale fatalmente si dovrebbe “imparare a zoppicare”, a furia di frequentarlo). Non la penso così: e tutta la vita mi sono trovato “in cattiva compagnia”, senza rallegrarmene quasi mai, ma sentendolo come inevitabile. Epperò devo dire che troppo del discorso del Foglio, a proposito del governo Monti, sembra far risuonare –fatto salvo tutto ciò che c’è da far salvo- echi lontani della esausta paccottiglia del complottismo stalino - fascistico – semitofobico. Anche in questo caso qualcuno potrebbe obiettare: bada a come parli, e potrebbe aver ragione. Ma, in questi giorni, si avverte –nelle telefonate alle radio, nelle lettere ai giornali, sul web, nel discorso corrente … - una interpretazione del mondo che, a partire da Alessandro Sallusti (il Giornale) per finire a Sonia Alfano (Italia dei Valori), passando per Marco Rizzo ( Comunisti – Sinistra Popolare), Fiorenzo Consoli (Forza Nuova), Domenico Scilipoti (Popolo e Territorio) e Gaetano Saya (Movimento Sociale Italiano – Dastra Nazionale), riprende vigore. Insisto: i radicali mi hanno insegnato, e io faticosamente ho appreso, che qualunque “compagnia” può essere buona, o comunque accettabile, se avvicina il fine buono che si persegue; e sono stato tra coloro che, qualche decennio fa, dovettero patire la teoria degli opposti estremismi. Non faccio lo schizzinoso, quindi, se sul sito del già citato Movimento Sociale Italiano – Destra Nazionale, trovo un editoriale di Giulietto Chiesa (finito lì, mi auguro, per errore e non per volontà del suo autore). Ma, al di là delle convergenze non volute, i contenuti, i contenuti! I “proprietari universali” di cui scrive Chiesa, te li ritrovi un po’ in tutti i discorsi pubblici dei soggetti citati. Poi, certo, il Foglio ha fatto tutte, ma proprio tutte, le sue brave letture, da Ferdinand de Saussure a Thomas Kuhn, e non commetterà mai l’errore di parlare di “proprietari universali “ e di un “cambio d’epoca orwelliano” (ancora Chiesa), ma le assonanze ci sono. Così come c’è la personalizzazione iperrealistica e icastica di quanti “tirano i fili”, la suggestione paranoide dell’elitismo tecnocratico che espropria il popolo, il vitalismo degli “spiriti animali” contro la razionalità del proceduralismo astratto. Diciamo così: non è bello a vedersi.
22 novembre 2011
Politicamente correttissimo
Brutti a vedersi
Luigi Manconi
Per la prima volta, dopo quindici anni di incondizionata e smodata e sregolata libertà (della quale sordidamente ho profittato in più di una circostanza), il Foglio ha preso le distanze da quanto da me scritto nella rubrica di martedì scorso. L’accusa è quella di aver fatto “una passeggiata piena di gratuite perfidie su Franco Frattini”.
Lavoro ai Fianchi
Viaggio al termine dell’Italia Luigi Manconi l’Unità 10 novembre 2011 Una cella di sicurezza, un video, l’immagine dell’agonia di un uomo: intorno a questi tre elementi si può ricostruire quella che, in un telefilm di Fox Crime, verrebbe definita la scena del delitto. Gli aguzzini in carcere e il carcere come aguzzino
Stefania Carnevale trascrizione, non rivista dall’autrice, dell’intervento di Stefania Carnevale (Università di Ferrara) nel corso della presentazione del libro di Luigi Manconi e Valentina Calderone Quando hanno aperto la cella, il Saggiatore 2011 Viaggio al termine dell'Italia
La vicenda di Saidou Gadiaga, morto in carcere per un attaco d'asma, rivela l'inaccettabile stato delle nostre prigioni e di una legge xenofoba. Il suo "reato"? Non avere il permesso di soggiorno
Luigi Manconi
Lavoro ai Fianchi
Una cella di sicurezza, un video, l’immagine dell’agonia di un uomo: intorno a questi tre elementi si può ricostruire quella che, in un telefilm di Fox Crime, verrebbe definita la scena del delitto.
Politicamente correttissimo
Finali di partite
La malinconia severa del secondo Prodi, la sindrome da catastrofe differita e il Grand Guignol di oggi
Luigi Manconi
Non fate i furbi: io c’ero e so come andarono le cose. Non avevo un ruolo di primissimo piano ma ero comunque un sottosegretario (uno dei non pochi, per la verità) del secondo Governo Prodi. L’agonia di quell’esecutivo fu lacerante. Ricordo gli episodi grotteschi, gli aspetti risibili, gli atti disdicevoli e perfino squallidi propri di ogni processo di crisi, quando precipita in degrado. Anche allora, il fatto che la sorte di una legislatura dipendesse dalla scelta di un parlamentare (addirittura di uno solo) portò a veri e propri deliqui dell’intelligenza. Vi furono canuti trotzkisti senza arte né parte, la cui massima conflittualità antistatuale si era fino ad allora manifestata nell’aggressione a un distributore di merendine, che ebbero il loro momento di gloria dichiarando al Corriere della Sera: Berlusconi e Prodi sono uguali. E, poi, cicisbei di estrema sinistra e moderati vanesi, soidisent leader di micro correnti e di sub componenti, redditieri di posizione per diritto dinastico di cui si era persa memoria e ricattatori della domenica privi di qualsiasi potere di intimidazione, quelli che la sparavano grossa e quelli che ce l’avevano più lungo. Tutti uniti dal narcisismo della propria identità individuale o di partito, fieramente intenzionati ad affermare la propria autonomia, cascasse il mondo. Cascò il governo. Perché parlo di tutto ciò? Ovvio: per una questione di stile. So bene a cosa mi esponga una simile dichiarazione (accuse di snobbismo ed elitismo come minimo), ma quanno ce vo’ ce vo’. Ricordo nitidamente un episodio: era il tardo pomeriggio di un giovedì del gennaio 2008 e mi trovavo con Romano Prodi nel suo studio di Palazzo Chigi. Il premier era irritato per l’improvvidissima uscita di un alleato di governo e mi parlava della crisi come di un fatto ormai imminente. Io, per una qualche ragione, di difficile definizione psicanalitica - forse una sindrome di catastrofe differita - continuavo a ripetere che, contro tutto e contro tutti “ce l’avremmo fatta” (così come ora continuo a pensare che Silvio Berlusconi alla fine la sfangherà). Prodi scosse la testa e mormorò: “no, questa volta no”. Per me, questo è il ricordo più significativo della caduta del secondo governo Prodi. Una malinconia severa. Nessuna sceneggiata e nessun epilogo truce, ma nemmeno un vero e proprio tradimento. Fu una normale vicenda di impotenza politica, di maldestra interferenza della magistratura e di debolezza della carne. Una ordinaria e mesta sconfitta politica. E, invece, ciò cui si assiste oggi è il Grand Guignol. Una macabra rappresentazione, dove gli slittamenti di senso appaiono inafferrabili anche per gli sguardi più prensili. Consideriamo il caso di due parlamentari come Isabella Bertolini e Giorgio Stracquadanio distintisi per aver adottato una cifra stilistica oscillante tra il trash e l’iper-realismo, tra il gutturale e il compulsivo, tra consunte gag alla Drive-in e crude deformazioni alla Otto Dix. I due, finora esaltatisi nell’enfasi della servitù volontaria e nella civetteria dell’ultima raffica di Salò, dopo aver sbrodolato nel tripudio dell’Eccesso, scoprono oggi perplessità e dubbi degni dello scetticismo più pensoso. Cosicché li guardi e dici: ma che cavolo! Poi osservi la conferenza stampa del Premier a conclusione del G20 e avverti – fisicamente - una sensazione di freddo alle ossa. La sala sembra immensa e la distanza tra Berlusconi e il ministro dell’Economia, siderale. Ma sono la voce e la tonalità del Presidente del Consiglio a colpire. Un discorso uniforme e mono-tono, senza un’accelerazione e una sottolineatura, uno scintillio e una drammatizzazione, un guizzo e un dérapage. Il soliloquio di un depresso. Prevale una stanchezza infinita e livida, assai simile alla prostrazione. Una condizione che sembra esigere un lungo riposo e, soprattutto, un dignitoso congedo. E, invece, lo schiamazzo osceno di Angelino Alfano e, Dio lo perdoni, di Maurizio Lupi. Come ci diceva il maestro Mandras quando si era piccini: un po’ di compostezza, suvvia.
Il Foglio 8 novembre 2011
Politicamente correttissimo
Finali di partite
La malinconia severa del secondo Prodi, la sindrome da catastrofe differita e il Grand Guignol di oggi
Luigi Manconi
Non fate i furbi: io c’ero e so come andarono le cose. Non avevo un ruolo di primissimo piano ma ero comunque un sottosegretario (uno dei non pochi, per la verità) del secondo Governo Prodi.
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